La Jornada - Lunedì 8 gennaio 2001

Marcos, "grande interlocutore"

Il dialogo persiste

"Prima del 1° gennaio 1994, in Messico non ci eravamo mai posti il problema della questione indigena"

Carlos Monsivais

Il paesaggio ha l'espressività dell'abbandono. Dopo le ore tortuose per un cammino che non lascia intravedere la futura esistenza di strade vere e proprie e dopo questi viaggi nel tempo che rappresentano le testimonianze dell'isolamento (desolazione e annunci pubblicitari, miseria e volti indecifrabili per gli esperti di video-clip) esamino le mie conoscenze (molto precarie) di questa regione, le immagini collezionate in sette anni, le aspettative dei mass media, la generosità e la dedizione dei rappresentanti della società civile, le campagne di linciaggio informativo, i miei incontri ed i miei scontri con gli zapatisti, le mie precedenti conversazioni con il subcomandante Marcos.

Senza nessuna originalità, traggo il bilancio di tutto questo: l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e Marcos, il suo leader, davvero si meritano l'aggettivo: sono storici.

Questo è sufficiente? No, naturalmente, dato che ciò che è storico di per se stesso non comporta una carica positiva o negativa. Però, se in ciò che è storico va compresa la capacità di illuminare con gran chiarezza un grande tema/problema (un insieme di tradizioni e di opposizioni), l'apporto di questi ribelli è davvero considerevole. È evidente: prima del 1° gennaio 1994, mai in Messico ci si era posti il problema della questione indigena con l'entusiasmo, con la produzione di testi storici, con i molteplici dibattiti e con l'accumulo di conoscenze come in questi anni. Si guardino, per esempio, le pubblicazioni dal 1° di dicembre 1988 al 31 dicembre dello stesso anno e si avvertirà la notevole scarsezza ed il paternalismo dell'informazione a proposito degli indigeni.

La breve occupazione di San Cristóbal, il 1° gennaio del 1994, impressiona l'immaginazione collettiva del Messico e, settorialmente, di molti altri Paesi (la ribellione modernizza il mondo indigeno che, per di più, ha ragione nella sua richiesta di giustizia!) ed i mezzi di comunicazione nazionali e internazionali si lanciano alla ricerca dell'impensabile dopo la caduta del "socialismo reale": una guerriglia all'antica con maschere, passamontagna o, come dicono gli zapatisti, "capuchones".

Giorni di furia e di morti, di immagini strazianti sui giornali e alla televisione, il messaggio altero e rigido del Presidente Carlos Salinas il 6 gennaio, l'ovvia debolezza militare degli insorti... e, improvvisamente, la sorpresa: l'opinione pubblica, ovvero il movimento di voci e di tendenze, si oppone all'annientamento dei ribelli. Non si crede nella violenza armata, ma vengono ritenute importanti le ragioni della disperazione ed anche questo rappresenta una novità rispetto ad altri movimenti di guerriglia - quelli capeggiati negli anni settanta nello Stato di Guerrero da Lucio Cabñas e Genaro Vásquez Rojas -, valutati in quel momento come "rivolte premoderne" o movimenti "esotici".

E alla polemica accoglienza riservata all'EZLN contribuisce in modo straordinario il suo portavoce, un personaggio duttile, intelligente, con grande facilità nello scrivere e senso dell'umore. Con il passamontagna che fa ormai parte della sua identità (la mancanza di lineamenti che diventa il lineamento più importante), Marcos sforna incessantemente lettere e documenti, si lascia intervistare, dialoga con diversi settori della società. Il rivoluzionario cede il posto ad un simbolo isolato della modernità o a qualche cosa di somigliante che consente di parlare (senza fondamenti) di "guerriglia postmoderna".

Nell'agosto del 1994 ha luogo la Convenzione Nazionale Democratica. Qui raggiunge il suo apice l'abilità scenica e verbale di Marcos ed ha inizio una tappa di isolamento dell'EZLN. La Convenzione è una festa, una maratona di luoghi comuni e di scomodità, un'azione di massa ed una sessione di mesto illusionismo. Quello che succede nelle assemblee della sinistra si ripete nella Convenzione: coloro che gridano di più sembrano incarnare il senso dell'azione. Al posto della società civile, l'estrema sinistra. C'è entusiasmo democratico, autentica passione... e gli esorcismi della inutilità. Le grida "Muoia il PRI! Muoia il PRI!", per vivificanti che possano risultare sul momento, esibiscono quel volontarismo che non capta ciò che si sta avvicinando nelle elezioni per il Presidente della Repubblica, di alcuni governi degli Stati, di senatori e di deputati. La furia dogmatica si dimentica del complicato macchinario governativo e dei suoi sei anni trascorsi in una minuziosa preparazione della propria "legalità".

Nell'Aguascalientes, Marcos e l'EZLN offrono lo spettacolo della loro capacità di lavoro, della loro inflessibilità e della loro fede nella Società Civile (a lettere maiuscole). Qui si riversa allo stato diluito ciò che si è appreso in sette mesi di abilità argomentativa e per questo si affida la rappresentazione all'esterno degli zapatisti ai gruppi ed ai personaggi più intransigenti, ai professionisti del restar da solo, a coloro che scolpiscono nel muro delle sinistre questa sentenza: "Datemi un movimento di massa e vi restituirò un gruppuscolo".

Nella Convenzione, Marcos è il centro. Ha insistito sul suo ruolo di portavoce dell'EZLN e sulla sua condizione militare subordinata che lo rende subcomandante, ma non vi sono dubbi che è lui che presiede, che è lui che viene chiaramente protetto, che su di lui si concentrano gli sguardi e l'ammirazione nel bel mezzo di un altro dei grandi paradossi: un movimento clandestino che è anfitrione di un settore rappresentativo della società civile di sinistra e centro-sinistra.

Nell'Aguascalientes, Chiapas, davanti a seimila congressisti e giornalisti, Marcos legge uno dei suoi pezzi più eloquenti. Dalla Convenzione, afferma, loro non si aspettano le cose di sempre, però in cambio sanno attendere. Sì, l'inizio di una costruzione maggiore di quella di un Aguascalientes, la costruzione di una pace con dignità; sì, l'inizio di uno sforzo più faticoso di quello che è ha fatto nascere un Aguascalientes, lo sforzo di un cambio democratico che includa la libertà e la giustizia per la maggioranza che vive nell'oblio. Sì, l'inizio della fine di un lungo incubo di ciò che grottescamente si chiama storia del Messico.

Cosa non è stato detto di Marcos e cosa non ha detto e scritto Marcos? Non tutte le analisi contrarie sono derivate dalla mala fede, né tutte le lodi sono frutto di un esame razionale. Gli aggettivi denigratori si ripetono: avventuriero, provocatore, provinciale, poetastro, manipolatore di indios, commediante, meticcio che abusa dell'arretratezza delle etnie... E qualche cosa di analogo succede per gli elogi: figura storica, leader dell'insperata alternativa, coscienza morale degli emarginati... Di fronte alle valanghe "dell'uno o dell'altro segno" (per citare una frase del gergo antisovversivo di trenta anni fa), Marcos si difende utilizzando sempre il plurale, il "noi" che gli consente di ridimensionare il suo ruolo e di diluire il suo protagonismo. Naturalmente non ci riesce. I mass media ed i lettori hanno bisogno delle figure che interpretino o siano il simbolo emblematico di un movimento che, per di più, rappresenta la proposta di una presa di coscienza. Però lui insiste: non sono io, siamo noi. Su questo punto si concentra la tensione del dialogo: in che modo si differenzia il messianismo dalla leadership democratica?

Alle delle ore di conversazione e in attesa dell'arrivo degli inviati dall'EZLN a Città del Messico per il dialogo con i parlamentari, mi attengo alla certezza del principio: lo si giudichi come si voglia, il subcomandante Marcos è uno dei grandi interlocutori della società messicana e, in misura significativa, di altri settori internazionali. E' un punto di vista, è un'opinione, è un giudizio su circostanze molto variegate, è una volontà di persistenza alla ricerca di una pace degna e proprio lì, in quella particolarità, si radica il suo potere di dialogo.


Per lo scrittore il quarto incontro è stato "il più soddisfacente"

Monsiváis e il Sub: uno stesso linguaggio

Gli intellettuali hanno parlato a proposito delle eruzioni della destra trionfante

LA REALIDAD, CHIAPAS - Per quelli con un'agenda esistenziale tanto piena di impegni come Carlos Monsiváis, al quale la voce del popolo attribuisce un dono di onnipresenza, mito che la sua stessa produttività coltiva con tutto quello che scrive e dice, penna instancabile ed irraggiungibile, cacciatore di personaggi che rilascino dichiarazioni e dichiarante lui stesso in virtù della sua agilità verbale e delle inevitabili conseguenze della fama, arrivare a La Realidad deve aver significato, per lo meno, un brusco cambio nelle sue abitudini (che sono, in fin dei conti, abbastanza poco abitudinarie).

In contrapposizione alla sua solita vita urbana, probabilmente per il fatto che qualsiasi città gli sta stretta, entrava per la terza volta (nella sua vita?) nella selva Lacandona. Era ancora la stagione delle piogge, ma questa volta il fango è stato clemente con noi.

Dopo esser stato presente alla Convenzione Nazionale Democratica nell'agosto del 1994, sopravvivendo alle vicissitudini, alla tormenta tropicale e al naufragio del monumentale tendone di Fitzcarraldo, in condizioni così precarie che lo stesso Monsi si era già incaricato di schernirlo implacabilmente nel ricordo, e sopravvivendo infine ai calori di un'estate incontrollabile durante lo svolgimento dell'Intergalattica del '96, questa visita è stata, come è di moda dire in tempi di transizione, una vera e propria passeggiata sul velluto.

Questa era stata la sua quarta conversazione personale con Marcos, a parte i dibattiti pubblici e le sporadiche battute epistolari che avevano avuto negli anni più recenti. Però era la prima da giornalista, con registratori, fotografi e tutto ciò che occorre.

Due degli intellettuali più influenti ed attivi della sinistra messicana questa volta non si proponevano di chiacchierare. Con il filo critico che lo rendono tanto scomodo quanto ineluttabile, Carlos Monsiváis stava portando al subcomandante Marcos alcune domande.

Pero, come duellisti di Joseph Conrad, prima di estrarre le armi della critica e dell'autocritica, si sono salutati.

Il subcomandante Marcos, il comandante Tacho ed il maggiore Moises (che donna Rosario Ibarra chiama, da quando li conobbe, "i miei tre moschettieri") avevano lasciato i loro cavalli al fondo dell'Aguascalientes e, accompagnati da una piccola scorta di guerriglieri, hanno camminato fino alla tettoia sulla gradinata per ricevere gli inviati de La Jornada e accompagnarci al refettorio dove si sarebbe effettuata l'intervista.

Monsi e il Sub si sono scambiati cordiali saluti, dimostrando di essere aggiornati ognuno dei due sulla produzione dell'altro.

Ho letto la tua cronaca di Gonzalo N. Santos, ha detto il subcomandante. Lo scrittore ha fatto qualche cenno ai recenti comunicati e ha consegnato a Marcos la sua produzione bibliografica del 2000: Aires de familia, La herencia liberal, le opere complete di Renato Leduc con un suo prologo e Salvador Novo: lo marginal en el centro. Affinché si istruisca.

Una volta all'ombra e seduti sulle nostre rispettive sedie di legno, tutti, ad eccezione di Heriberto Rodríguez, che di tanto in tanto si alzava a scattare fotografie, parlammo delle eruzioni del Popocatépetl e delle non meno preoccupanti eruzioni della destra trionfante. Nonostante non manchino tra di loro differenze e sfumature, Monsiváis e Marcos si resero conto molto presto che stavano parlando esattamente lo stesso idioma. Ciò risultò essere un gran sollievo per tutti. Poco dopo, tra Marcos, Monsiváis ed un giornalista, scorse fluidamente la conversazione-intervista [vedi: Intervista a Marcos dello scrittore messicano Carlos Monsiváis].

Monsiváis commentò più tardi che questo fu il suo incontro "più soddisfacente" con il dirigente zapatista, pur confessando che lo avevano inquietato il silenzio degli altri presenti, Moisés e Tacho, semplici testimoni come tante altre volte. In ogni caso, se Monsiváis si sentì inquieto, lo dissimulò perfettamente. Con tutta tranquillità, mise il dito sulla piaga e non lo tolse neppure quando l'intervistato incominciò a lodare con ammirazione e con evidente riferimento all'intervistatore, "quei pochi solitari della pianura" che mettono in grande evidenza il parlare inconcludente e contorto dei neoliberali (ossia i preti, i politici ed i fanatici senza cervello della destra) con il loro vecchio ma sempre significativo gridare "al lupo, al lupo" e combattono gli spropositi della reazione. (Qualsiasi riferimento con il secolo XIX è puramente casuale, but anyway: Juárez non doveva morire).

Per forza di cose, il peso dell'assedio militare, i dubbi e la sfiducia, i moderati ottimismi di fronte alla smenata attualità politica che, a colpi di riunioni di gabinetto, tabascos e Chiapas, non smette di regalare sorprese e farne l'elenco, tutto ciò che si iniziò a dire per riassumere e per mettere in chiaro i fatti avvenuti in questi ultimi sette anni, proseguì spontaneamente diventando un'intervista. Stava per terminare l'ultimo mese dell'ultimo anno del XX secolo. La moneta era in aria e stava ancora lì. Che cosa segna la bussola? Qualcuno se l'è portata via? Scusi, che ore sono?

Sulla strada del ritorno, tra uno scossone e l'altro, più rilassato e meno stanco che all'andata (durante la quale Monsiváis non aveva cessato di dire che il paesaggio gli pareva un purgatorio senza anime), lo scrittore espone la sua unica e vera critica alla spedizione che sta per concludersi: questa musica di Tricky nel deck della camionetta, l'indemoniato trip-hop degli Angels With Dirty Faces (kill me with your quickness, kill me with your quickness). Questo sì che gli è sembrato spossante. Pertanto, chiunque abbia musica jazz sarà il benvenuto.


(tradotto da Beppe Costa)



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