Marcos a Fox:

"Chiediamo garanzie,

non ce la danno a bere che tutto sia cambiato"

CARLOS MONSIVAIS e HERMANN BELLINGHAUSEN

L'EZLN si era preparato per il 1° gennaio 1994; il 2 non rientrava nei nostri programmi

La nostra richiesta è che si stabiliscano condizioni che non provochino il ripetersi di un'altra sollevazione, dichiara nell'intervista

Senza l'insurrezione, la questione indigena sarebbe ancora archiviata alla lettera "P" di pendientes (in sospeso)

Nega che gli zapatisti chiedano il ritiro totale dell'Esercito dal Chiapas


La Realidad, Chiapas

Carlos Monsiváis: Il 1° gennaio 1994 siamo stati sorpresi dalla comparsa dell'EZLN; al principio, per molti di noi non era chiaro di che cosa si trattasse. La Prima Dichiarazione della Selva Lacandona non mi era piaciuta, l'ho trovata scritta in uno stile ormai superato, molto volontaristica. Quella pretesa di avanzare militarmente su Città del Messico e reclutare forze durante il cammino; forze di una società che si radicalizza. Questo e la dichiarazione di guerra allo Stato messicano; tutto mi sembrava molto delirante.

Poi, due settimane dopo, è apparso un testo che mi è sembrato eccellente: Di che cosa ci dovrebbero perdonare? In questo testo ho visto un cambiamento radicale nell'enfasi. Dalla dichiarazione di guerra si passava al dialogo con la società, quasi senza preavviso. Credo che ad iniziare da quel testo e dalle posizioni in esso contenute, il cessate il fuoco, per esempio, lo zapatismo si sia trasformato in un'argomentazione politica, morale ed economica, supportata da quello che poi ha impedito la possibilità di una devastazione militare: la sua qualità di rappresentante effettivo (che più che simboleggiare, rappresenta) dell'enorme povertà e miseria. Quell'emarginazione rivendica subito volontà e decisione di argomenti e si presenta per esporre le sue ragioni. Questo è stato importantissimo. Sei d'accordo che esiste un salto di linguaggio tra il primo manifesto ed il testo "Di che cosa ci dovrebbero perdonare?"

Marcos: Non solo esiste un salto di linguaggio, ma di tutto un progetto politico, compreso il progetto militare, dell'EZLN. In termini molto semplici: l'EZLN si prepara per il 1° gennaio ma non per il 2 gennaio. Non era nei nostri programmi, neppure nei più deliranti, che arrivavano agli estremi: o l'annientamento della prima linea - come diciamo noi - o l'insurrezione sollevazione di tutto il popolo per sconfiggere il tiranno; ci si è presentata una scelta, non intermedia ma che non aveva assolutamente nulla a che vedere con l'altra. Non rientrava nelle nostre aspettative. Nella prima dichiarazione si nota il conflitto tra l'impostazione derivante da un'organizzazione di tipo urbano, formatasi con i criteri delle organizzazioni politico-militari e dei movimenti di liberazione nazionali degli anni sessanta e l'ingrediente indigeno, che contamina e permea il pensiero dell'EZLN. L'unico gruppo che poteva dire: "siamo il prodotto di cinquecento anni di lotta" è quello indigeno. In concreto: non si prospettava la presa del potere, questo era fuori discussione, ma si chiedeva ad uno dei poteri di assumere il proprio ruolo nel Parlamento.

L'EZLN si presenta il 1° gennaio, comincia la guerra e scopre che il mondo è tutt'altra cosa da quello che aveva immaginato. In ogni caso, la virtù, se così possiamo chiamarla, dell'EZLN è, da allora, quella di aver saputo ascoltare. Anche se, forse, uno dei suoi difetti è di non aver saputo reagire rapidamente in base a quanto ascoltava. Alcune volte lo abbiamo fatto rapidamente, altre abbiamo tardato. In quel momento l'EZLN dice: "c'è qualche cosa che non capiamo, qualche cosa di nuovo", e con l'intuizione di cui eravamo capaci nella direzione dell'EZLN, i compagni del comitato e noi abbiamo detto: "Fermiamoci, c'è qualche cosa che non capiamo, che non abbiamo previsto e per la quale non siamo preparati. La cosa principale è parlare ed ascoltare di più".

Non era quello che stavamo pensando, era qualcos'altro, qualche cosa di nuovo. Non eravamo sicuri di niente. Le nostre possibilità erano così tante che abbiamo potuto dire: "Proviamo il dialogo". Non perché sapevamo che sarebbe andata bene o "proviamo il dialogo perché sappiamo che andrà male e quindi abbiamo bisogno di prendere tempo". Al di là di questo calcolo politico che c'è in qualsiasi forza prima di dire sì o no, avevamo bisogno di una porta, per comprendere quello che stava accadendo e comprendere anche quest'altro attore che chiamavamo genericamente società civile, ereditando un po' quello che tu ed altri avevate già segnalato, questa massa informe che non risponde ad un'organizzazione politica in termini classici, che si svela a partire dal 2 gennaio. Non si sollevava con noi né era apatica; non si univa alla campagna di linciaggio in atto soprattutto sui mezzi di comunicazione. Assumeva un nuovo ruolo e si frapponeva alla guerra in un modo che rendeva impossibile agli uni e agli altri proseguire. In quello sconcerto, abbiamo cominciato ad osservare quanto accadeva, lo abbiamo fatto sinceramente, senza alcun calcolo politico. Dovevamo ascoltare e così siamo arrivati al primo dialogo e a tutto quello che si è costruito intorno ad esso.

CM: Nei primi mesi si sviluppa un'insurrezione morale della società. Non so se proprio la società civile, nella misura in cui la sua organizzazione era molto rudimentale e dipendeva dalla reazione emotiva e morale. Ma la resistenza etica di un ampio settore, evita l'annientamento, fa retrocedere Salinas dalle posizioni espresse il 6 gennaio, favorisce i cordoni di pace, mobilita l'interesse internazionale... Credo che, soprattutto con il testo "A chi dovremmo chiedere scusa?" si risponde a questa insurrezione morale con una proposta di dialogo. Come vedi dal punto di vista dell'EZLN, la partecipazione al dialogo? Quali sono i progressi e quali le retrocessioni o i ristagni?

M: Guarda, principalmente sono due modi di concepire il dialogo. Quando siamo andati al dialogo nella Cattedrale, abbiamo incontrato tutta questa gente. Da un lato c'è la sensibilizzazione sulla problematica indigena in termini culturali, etnici, morali, politici, economici e sociali. Le cause che hanno dato origine al conflitto erano e sono innegabili.

D'altro lato, abbiamo trovato un vuoto. L'EZLN non solo è apparso nel gennaio 1994 come colui che scuoteva la coscienza nazionale sulla problematica indigena. Per molti settori colma un vuoto di aspettative politiche di sinistra, e non mi riferisco a quelli che anelano sempre all'assalto al Palazzo d'Inverno, né ai settori professionali dell'insurrezione e della rivoluzione. Mi riferisco alla gente comune che, oltre alla questione indigena, sperava che nascesse una forza politica che riempisse uno spazio che né la sinistra parlamentare, né i gruppi extraparlamentari riempivano.

CM: Stai parlando di un sentimento utopico?

M: Non lo definirei così, piuttosto come qualcosa di più spontaneo. Molti che si avvicinano alla politica vedono poi che c'è qualcosa che non li soddisfa. E questo è una novità. In questo senso credo che abbiamo generato più aspettative di quante in realtà potevamo soddisfarne, dal momento che ci vedevano come partito politico o come gli animatori di una cultura imprigionata dai vecchi "patron" degli anni sessanta o settanta dell'anti-imperialismo e della rivoluzione mondiale; questo da parte della sinistra. Inoltre abbiamo risollevato un problema che sembrava dimenticato, quanto meno dalla classe politica: il problema dell'etica. Abbiamo iniziato un dialogo ed abbiamo scoperto di parlare la stessa lingua. Noi non c'eravamo preparati per parlare, non siamo stati dieci anni in montagna per parlare; ci eravamo preparati per fare una guerra, ma sapevamo anche parlare. In sostanza è quello che ci aveva legato alle comunità indigene dell'EZLN: parlare ed ascoltare la storia. Da quel momento siamo caduti in quello che qualcuno ha definito il delirio verbale. Quante dichiarazioni ed interviste nella Cattedrale. Si rilasciavano interviste e comunicati a tutti. Abbiamo trovato una porta e ci siamo sfogati. D'altro canto però (non solo il governo ma tutta la classe politica), ci hanno dimostrato di andare al negoziato con un atteggiamento da contrattazione: "tu mi chiedi ed io ti dico questo sì, questo no, dipende dalla forza che hai e da quanto sono debole".

A partire dal dialogo nella Cattedrale, abbiamo cominciato a costruire l'idea di un tavolo al quale partecipassero altri. Abbiamo cercato di rompere lo schema di contrattazione che abbiamo combattuto durante tutto il processo di dialogo nella Cattedrale e poi a San Miguel e a San Andrés. Ci dicevano: "accordiamoci, ma tu ed io. Tu che vuoi, terra? Bene, te ne do un po'". Noi rispondevamo: "no, non si tratta di questo". Siamo riusciti a far partecipare altra gente al tavolo e a far sì che l'accordo non fosse un tira e molla, chiedi dieci e ti do sei, ma che si costruisse qualcosa di nuovo. San Andrés rompe completamente lo schema di negoziato precedente presente nella classe politica.

CM: Un elemento importantissimo dell'incontro nella Cattedrale è l'uso del passamontagna; il simbolo raggiunge il suo momento culminante alla Convenzione di Aguascalientes, quando si mette ai voti se tu ti devi togliere o no il passamontagna. Voglio dire che non fu programmato ma accadde in modo naturale. E prima, l'uso della bandiera nazionale che è la riappropriazione della patria o l'incorporazione degli indigeni nella patria. Dispiegare la bandiera nella Cattedrale è un atto simbolico molto meditato. Come hai visto l'uso dei simboli durante questi sette anni?

M: Noi stavamo rispondendo. Per nostra fortuna, il governo applicava gli stessi criteri come se fosse di fronte ad una guerriglia classica: le accuse di essere stranieri, l'oro di Mosca (anche se non c'era più Mosca e neppure più l'oro)... Il Muro di Berlino non esisteva già più, le guerriglie centroamericane si erano praticamente dissolte o stavano portando a termine i processi di pacificazione. L'accusa principale era: "sono stranieri; vogliono destabilizzare il paese e gli indigeni sono manipolati". Prima di tutto, dovevamo recuperare un argomento che ci era stato sottratto, il tema della patria e del sentimento nazionale, fondamentale per i popoli originari, quelli che ci sono sempre stati.

Non è stato facile. Quando siamo comparsi il 1° gennaio, molti compagni del comitato sostenevano: "non vogliamo che la gente ci pensi solo interessati al problema indigeno". A questo proposito volevamo ridurre le richieste indigene per convogliare la questione in un grande tema nazionale. Quando ci siamo resi conto che è precisamente la nostra essenza quello che dà maggior forza al movimento, abbiamo accettato con naturalezza ciò che siamo.

In quella lotta dei simboli, siamo riusciti a recuperare parole ormai completamente prostituite: patria, nazione, bandiera, paese, Messico...

Hermann Bellinghausen: Voi nascete come un movimento indigeno, isolato dagli altri, come tutti quelli che ci sono stati nel paese. Ma al momento della vostra comparsa, viene lanciata questa convocazione simbolica e rappresentativa e c'è una risposta specifica del movimento indigeno in relazione a voi. Com'è l'incontro con il movimento indigeno e che scoprite, non solo nell'immagine, ma soprattutto nelle sue richieste? Ora i diritti indigeni sono la spina dorsale della prossima mobilitazione a Città del Messico.

M: Abbiamo sempre cercato di essere onesti. In questo senso abbiamo cominciato con un non-incontro con il movimento indigeno, così come è stato con la classe politica, la sinistra e la società. Un movimento che cresce in clandestinità, isolato da tutto, si prepara ad entrare nel mondo e, sorpresa!, il mondo non è quello per il quale ti eri preparato. Ci siamo imbattuti nella questione indigena ed è stato un non-incontro perché la prima cosa che balza agli occhi del movimento indigeno non sono le comunità stesse, ma gli indigeni di professione, i politici di professione. In quel momento non ci fidavamo di nessuno. Per molte ragioni, e tra queste, la nostra inesperienza e la nostra non conoscenza del terreno politico aperto. Non che avessimo paura dei politici di professione, o della classe politica, ma delle nostre stesse possibilità. Non capivamo molte cose.

La classe politica ha i suoi codici e i suoi segnali che noi non comprendevamo. Non sono stati pochi gli attriti. Quando ci siamo resi conto che dovevamo costruire qualcos'altro, c'è stato l'incontro, non con i rappresentanti del movimento indigeno presenti nella classe politica, quelli che hanno avuto i primi contatti con noi, ma con il movimento indigeno che, come noi, aveva portato avanti lotte particolari o regionali.

Evidentemente il popolo indigeno non ha mai smesso di resistere e di muoversi in tutto il paese. Allora ci è venuta un'idea: "approfittiamo del dialogo per risolvere il problema ma anche per incontrarci con altri". Perché il problema dell'EZLN non è fare in modo che vengano soddisfatte alcune richieste al tavolo del dialogo, ma che in seguito a queste richieste avvenga la sua scomparsa. Insomma, quello di cui stiamo parlando con il governo, con la controparte (siamo sinceri, la nostra volontà è smettere di essere quello che siamo) è che per non essere più quello che siamo, abbiamo bisogno di garanzie che ci confermino che non sarà più necessario fare quello che abbiamo fatto.

CM: Per un periodo molto lungo, un elemento comune di tutti i vostri interlocutori e di voi stessi è la sovrabbondanza verbale. Eravate molto verbosi.

M: Sì, non c'era niente da perdere. Abbiamo invitato proprio tutti, dai funzionari alle tendenze indigeniste, dalla più tradizionale alla più modernista; gli autonomisti, i fondamentalisti... tutti. Abbiamo cominciato a riconoscerci in quella che è stata una delle nostre lotte e bandiere: il diritto alla diversità. Non siamo uguali, come non sono uguali un omosessuale ed una lesbica. Non lottiamo per l'uguaglianza, nel senso che tutti siamo uguali e in tutto simili. Esistono delle differenze ed è su queste che bisogna costruire la nazione.

Ciò che è fondamentale nella nostra lotta è la rivendicazione dei diritti e della cultura indigeni, perché questo siamo. In questo sta il riconoscimento della diversità. Da qui il nostro legame con il movimento omosessuale e delle lesbiche ed anche con altri movimenti emarginati. D'altro canto, esiste il problema di una forza che non proviene dalla tradizione della classe politica, ma che eredita i suoi progetti dalle comunità indigene. L'asse fondamentale della nostra lotta è quello indigeno ed intorno ad esso girano gli altri. Per cui, quando si dice "mai più un Messico senza di noi" si sta dicendo: "mai più un 1° gennaio 1994". Le cineprese i giornali e tutto questo, sono venuti dopo. Il 1° gennaio ci sono stati morti, distruzione, persecuzione, desolazione, miseria, angoscia, paura, terrore; tutto ciò che è la guerra. Per questo siamo così interessati a farla finita con la guerra. L'abbiamo già fatta; solo chi non l'ha fatta è interessato a proseguire, perché non ne ha pagato il costo. Non vogliamo che si ripeta. Non abbiamo bisogno che ci diano nulla, solo la garanzia di poter far parte di questo paese, secondo il nostro progetto. Non vogliamo scissioni né fare un altro stato, né vogliamo creare l'Unione delle Repubbliche Socialiste del Centroamerica.

CM: Credo che uno dei grossi contributi dato da questo movimento sia di aver messo in discussione il tema del razzismo come una delle innegabili caratteristiche nazionali. Quando la prima delegazione dell'EZLN si recò a Città Del Messico, credo che quella fu la prima manifestazione antirazzista nella storia del Messico. E' un notevole contributo. Nello stesso tempo, ci sono quelli che sostengono che l'EZLN non ha migliorato la condizione degli indigeni in Chiapas né, probabilmente, nel resto del paese; ma anzi sono peggiorate.

M: Per noi la storia non è finita. Oggi tutti riconoscono, perfino i vergognosi razzisti, che la situazione delle comunità indigene è insostenibile. Lì si possono produrre guerriglieri, delinquenti ma non riescono a farli sparire come indigeni. Si è cercato di far loro questo per 500 anni ma non ci sono riusciti.

L'EZLN non può fingere una soluzione o concludere con lo spettacolo dei suoi dirigenti che occupano cariche ufficiali, partecipano a conferenze, firmano libri, o qualsiasi futuro si possa prevedere per ognuno di loro - una carica governativa, il ministero degli affari sociali di qualche nuovo regime... - mentre tutto continua a restare uguale per il resto della popolazione, con un negozio od una clinica in più ma sapendo che tutto tornerà come prima. In queste condizioni di povertà vogliamo sostituire le armi, trasformare la nostra povertà in uno strumento di lotta per la libertà e la democrazia. Vogliamo che questo cambi e non che ci facciano la carità.

Vogliamo costruire la pace, abbiamo le capacità per farlo. Possiamo costruire una società plurale e lo vogliamo fare senza le armi. In questo lasso di tempo, contro di noi si è presentata una minaccia armata rappresentata non solo dall'Esercito federale, ma anche dai gruppi paramilitari, dalle guardias blancas o come li si voglia chiamare. Lì l'EZLN non ha altra scelta o lotta...

CM: Io passerei ad un'altra cosa. Vi ritengono responsabili di scatenare la catastrofe in Chiapas. Della persecuzione delle comunità, della situazione di obbrobrio che abbiamo visto in questi anni. Che cosa rispondete a quest'accusa, secondo cui tutto sarebbe meglio in Chiapas senza gli zapatisti?

M: Che non è vero, né è sostenibile in termini statistici, di economia sociale, né dal numero delle morti di bambini di età inferiore ai cinque anni. Che le condizioni non sono quelle che dovrebbero essere dopo un fatto come quello del 1° gennaio 1994, questo sì è vero. Ma non sono peggiori di prima. La questione rientra nell'agenda nazionale ed internazionale come problema da risolvere. Se non ci fossero stati questi sette anni, l'etichetta "popoli indigeni" sarebbe archiviata alla lettera "P" di pendientes, in sospeso. "Poi vedremo, lo abbiamo detto, poi faremo". Così ha agito la classe politica.

Credimi, sentiamo di avere un debito. Dopo tutte le aspettative che sono sorte in noi ed in un ampio settore della società, non possiamo fare come se non fosse successo niente e ridurre il 1° gennaio ad un atto mediatico, ad una base buona per un mediocre scrittore o per un oratore ancora peggiore, come si dice, o per una certa élite di dirigenti indigeni di quattro o sette etnie e che tutto continui ad essere uguale. No, non possiamo farlo, non sarebbe né etico, né onesto, né coerente. E delle poche cose di cui andiamo orgogliosi sono proprio queste tre: di essere etici, onesti e coerenti.

CM: Non sarebbe intelligente.

HB: Stiamo parlando del cambiamento nella percezione della questione indigena nel paese, nelle agende statali, nelle risorse, negli investimenti. Ma, che cosa è successo agli indigeni in questi anni? Vi state preparando a spiccare un ulteriore salto nella stessa lotta. In questo momento, com'è il movimento indigeno nazionale, come hanno reagito i popoli indigeni, che cosa ci si aspetta da loro di fronte agli ultimi cambiamenti?

M: Un altro 1° gennaio ma senza guerra. Prima del 1° gennaio 1994, quelli che vincono sempre, vincevano e sembrava che non si potesse farci niente. Ora succede qualcosa di simile: quelli che vincevano sembra che continueranno a vincere e che non si possa fare più nulla contro di loro. Salvo fare il cavaliere solitario che va in giro combattendo. Ma il resto della massa pensante o agente, in termini di efficacia politica, accetta che sia così e dice "attacchiamoci al carro". Sebbene il regime sia cambiato, alla fine è sempre un carrozzone. Lo scetticismo, la mancanza di speranza, l'immobilismo si mescolano con il sentimento che fa dire "non sono gli stessi e forse cambierà" che però produce anch'esso immobilismo .

Il movimento indigeno può dire: "siamo qui, andiamo avanti, resistiamo". Non voglio utilizzare molto questa parola d'ordine, perché subito se ne appropria un pubblicista e la usa senza pagare i diritti. L'abbiamo ripetuto per sette anni: Siamo qui! E' stato il sottotitolo di ogni Dichiarazione della Selva Lacandona dopo la prima. Non è il momento per scetticismo o cinismo "assolutamente no, è successo così ed ora proseguiamo, perché gli azzurri comandano dove stavano i tricolori". Per noi, lo spazio è aperto. Chi può contribuire a riempirlo non è l'EZLN, ma il movimento indigeno con richieste molto concrete. Non si prospetta l'assalto al Palazzo d'Inverno, né lo smantellamento del potere, né la fine del tiranno, ma un rovesciamento, e non solo, dei termini politico-militari della prima dichiarazione. Abbiamo dalla nostra la storia di questi sette anni. Vogliamo che questa nazione dichiari legalmente che ci riconosce, non solo per un sentimento morale che si può mettere a tacere attraverso i mezzi di comunicazione, ma che dica: "riconosco legalmente che questi che sono diversi hanno questi diritti e sono parte di me". Questo è il ruolo della Costituzione, la carta magna che inquadra tutto, anche se adesso non gode di molto prestigio, visto che giurano qualsiasi cosa.

Per noi è molto importante che la nazione dica: "Lo dichiaro e lo metto per iscritto; lo rendo storia. Riconosco che tutto quanto è accaduto prima non andava bene. Non solo lo riconosco, ma voglio fare lo sforzo di impegnarmi affinché non accada ancora". Sono utopico? Forse, ma credo che intorno a questa cosa ne nasceranno molte altre. Vediamo con preoccupazione il vuoto, il marasma, lo scetticismo, il fatto che solo certe penne, per citare il settore intellettuale, stanno cercando di districare le cose. Forse è ancora l'ubriacatura per la fine del regime priista e le cose poi si sistemeranno, la gente vedrà quale è il suo compito; oppure no. La situazione è in sospeso tra sì e no. Il movimento indigeno può essere il detonatore di un'iniziativa molto includente, a differenza della guerra, che è molto escludente: ci sono i propri soldati, ci sono i soldati nemici, ed il resto sta nel mezzo.

CM: Tu diresti che il motto "mai più un Messico senza di noi", nei termini legali che si stanno prospettando, potrà diventare "mai più un Messico contro se stesso"?

M: Sì. Potrebbe essere la porta per il riconoscimento degli altri Messico esclusi. Non è solo razzismo ciò che opprime la società messicana, che viene scossa, come dici tu, in quello Zócalo dei mille111. La nazione dice: "Non più, non voglio più essere così". E questo lo si deve applicare ad altri settori minoritari e non: donne, giovani, omosessuali, lesbiche e transessuali. Penso che la fine del secolo e del millennio dovrebbe introdurre nei movimenti progressisti o di sinistra, come vuoi chiamarli, anche un movimento che prospetta la fine delle lotte per l'egemonia, sia di sinistra o di destra. Alla fine, la sinistra o la destra tradizionali vogliono solo egemonizzare: "io sono l'avanguardia (di destra o di sinistra); tutti quelli che sono uguali a me valgono, mentre quelli che sono diversi da me non valgono, sono nemici, controrivoluzionari, provocatori, agenti dell'imperialismo" sovietico o statunitense, secondo il cartello.

Questo deve essere il secolo delle differenze e su queste, non solo si possono costruire nazioni, ma realtà, il mondo. Noi sogniamo questo.

CM: C'è un punto che mi preoccupa degli accordi di San Andrés: quello sugli usi e costumi. Non ho per nulla chiaro il progetto, perché penso che sia un appello all'immobilismo, così come si formula ancora adesso. Un "così ti voglio affinché possa continuare a riconoscerti". C'è l'idea nel nuovo governo di appoggiare le comunità indigene, sempre e quando queste siano leali alle proprie tradizioni e costumi. Secondo me, questo è profondamente inaccettabile, perché anche la mobilità è un diritto radicale ed è inevitabile. Come considerate il tema degli usi e costumi?

M: E' un termine che si presta alla campagna contro gli accordi di San Andrés. Usi e costumi, per la destra, significa tutto ciò che c'è di male...

CM: Nel caso degli accordi, ma il nuovo messaggio reiterato ed onnipresente è che il Messico è i suoi usi e costumi. Citando López Velarde, il candidato Fox raccomandava agli intellettuali che si prenderanno cura della patria: "Sii sempre uguale, fedele al tuo specchio quotidiano". Il grande appello all'immobilismo.

M: Alcuni usi e costumi non riguardano le comunità indigene: la compravendita delle donne, l'alcolismo, l'esclusione delle donne e dei giovani dal momento decisionale collettivo, che è più collettivo che nelle zone urbane, ma è anche escludente. Quello che accetta la destra, sono gli usi e costumi confessionali. Per non andare molto lontani, la teoria dell'ordine e rispetto; l'espressione deriva dai collegi religiosi. Il criterio di vedere la società come un collegio si riflette nella formazione della teoria. Si vogliono imporre a tutta la nazione quegli usi e costumi "buoni", moralmente accettati, e si vogliono emarginare, accantonare, gli usi e costumi diversi e legali.

Quello che rivendicano le comunità indigene, non solo quelle zapatiste, ma tutte quelle presenti a San Andrés, le 56 etnie, comprendendo le rappresentanze priiste, è il diritto ad essere diversi e di decidere in base a questa differenza del proprio destino. Non vogliono importare dall'esterno questioni giuridiche, politiche e sociali imposte. Questo genera aberrazioni come il cacicazgo di San Juan Chamula che maschera con l'intolleranza religiosa la costruzione di un potere politico perfetto. Come ad Ocosingo dove prima del 1994 il PRI godeva del 101% dei voti. Su questo si è costruita l'infrastruttura del cattolicesimo che rifiuta gli evangelici e la storia di sangue che è stato Chamula. San Juan Chamula contro gli accordi di San Andrés, e da lì è partita la questione dei cattolici contro gli evangelici. In un modo o nell'altro si intravede il paese che ci propongono, sarà un San Juan Chamula del Bravo al Suchiate. "Fuori tutto quello che è diverso, che non è cattolico romano". Perché se neppure all'interno della religione c'è tolleranza, figurati tra gli atei, se ce ne sono ancora di atei. Ce ne sono ancora?

CM: Dovrei dormirci su. Nel mio caso è la cosa più vicina al confessionale.

M: Dobbiamo ancora riflettere su questo punto. Quello che i popoli indigeni stanno dicendo è: "Sono diverso, posso stabilire leggi, modi di convivenza che possono essere o meno quelli del passato, ma che ci permetteranno di vivere in società".

CM: Scusa, ma se si conservano i costumi del passato, si rende molto difficile la costruzione di una società razionale, prendi il machismo, la segregazione delle donne, l'alcolismo ed il caciquismo. Lì sì che non c'è svolta, questi usi e costumi non devono più tornare. Ci sono comunità indigene che ancora li rivendicano?

M: No. Sono d'accordo, bisogna eliminare l'alcolismo, la vendita delle donne, il machismo, la violenza domestica... Nelle comunità zapatiste, e non solo zapatiste, esistono movimenti di resistenza che cambiano questa situazione. Però in termini giuridici e politici, quello che è una novità è la rimozione dell'autorità, il render conto continuo, la vigilanza del governato sul governante, e questo sì viene da prima e non da adesso. Anche l'applicazione della giustizia nel caso di un delitto. Invece del carcere, il rifondere il danno commesso. Nel caso di omicidio, che facciamo? Facciamo due vedove, quella dell'ucciso e quella dell'omicida? O l'omicida deve pagare il suo debito alla vedova oltre che subire il suo castigo? Non è la stessa cosa che qualcuno arrivi e ti dica: "vengo a liberarvi, donne oppresse" o che il movimento che nasce tra le donne stesse provochi questo. Non è lo stesso che una femminista di città dica: "le donne indigene hanno dei diritti" o che le donne indigene, come hanno appena fatto quelle di Xi' Nich e Las Abejas al Monumento dell'Indipendenza, dicano: "Abbiamo anche alcune richieste di genere. Noi vogliamo una pace con giustizia e dignità. Non vogliamo la pace del passato".

Questo sta già avvenendo ed i risultati sono irregolari ma credimi, le soluzioni non verranno da fuori. Da fuori arriverà una reprimenda: "le donne non devono portare la gonna corta, sopra il ginocchio". Approverebbero, per esempio, una cosa che a me pare assurda a La Realidad, che è un centro internazionale perché arriva gente da ogni parte. Qui è ancora proibito che le donne si tolgano tutto per lavarsi. Devono farlo con la sottana, credo che possano togliersi il reggiseno ma non possono farlo neppure in calzoni. Sono solo fra donne, ma non si può. Questo è quello che vogliono recuperare le zavorre del movimento indigeno: il machismo, l'alcolismo, il conservatorismo. Le comunità ribelli sono quelle che proibiscono l'alcol. Non vogliamo isolarci, Vogliamo relazionarci con l'altro mondo ma senza imposizioni.

HB: Questi cambiamenti nei villaggi indigeni sono percepibili anche fuori delle comunità in resistenza. Ci sono progressi o continua ad esserci una resistenza dei villaggi in relazione a questo indesiderabile passato?

M: Non lo sappiamo. Non conoscevamo il movimento indigeno prima del gennaio 1994. Se cerchiamo di vederlo alla lontana, non sappiamo se era così. Prendiamo per esempio il fatto che le rappresentanze del Congresso Nazionale Indigeno, che riconosciamo come il movimento indigeno nazionale indipendente, incorporano sempre più rappresentanti donne. All'inizio non era così; c'erano alcuni molto eloquenti a parole e a fondamentalismo, ma maschi. Diciamo che da tre o quattro anni ed in maniera sempre più evidente ora, all'interno di questa struttura alla quale partecipiamo ma che non ci appartiene, vediamo crescere la partecipazione delle donne. Mi azzarderei a dire che questa lotta per avere diritto a un posto, per il genere, nel caso della donna indigena, non è solo delle comunità zapatiste. Non so se è il prodotto delle comunità in resistenza, ma non è più solo di queste. Soprattutto nella frangia centro-sud del paese (Oaxaca, Jalisco, la sierra Tarahumara, Hidalgo, Veracruz, Puebla...) le compagne partecipano alle cariche direttive come donne e come indigene. Questo è quello che vediamo, non è che le donne di là ci scrivano per dircelo. Non so se prima del 1993 era così, ma nel 1994 e nei primi anni, i nostri interlocutori nel movimento indigeno erano solamente maschi.

HB: Dopo sette anni di militarizzazione e di accerchiamento, in che cosa è cambiata la situazione dei villaggi in Chiapas?

M: Il cambiamento principale è stato un bene: c'è speranza. Non ce n'era prima del '94. Le condizioni di miseria possono essere simili o peggiori, ma non c'era speranza. L'unica aspettativa per l'indigeno, il suo orizzonte politico, culturale e sociale, era la Chiesa, neppure la scuola. La Chiesa come centro comunitario, il campo, il camion - se c'era una strada - o la strada principale e basta. Questo ha significato il suo isolamento, era una sentenza di morte. Il paese stava crescendo e lasciava un suo settore nella preistoria che sarebbe presto sparito a causa delle malattie, delle bombe senza piombo, che non esplodono ma sono come quelle vere. Oppure doveva resistere.

CM: Siccome penso tu abbia un passato accademico, ti chiederei un esercizio...

M: Il mio passato accademico è uno dei miti....

CM: Ti chiederei un esercizio di giornalismo. Quali sono stati, per te, i momenti fondamentali di questi sette anni?

M: Uno, è il periodo della guerra dal 1° al 6 gennaio 1994, che è già stato dimenticato. Non diceva quell'amico, Fox, che l'EZLN non era stato altro che il 1° di gennaio? Tutto ciò che è stato morte e distruzione, non solo materiale, ma morale ed etica del tessuto sociale all'interno delle comunità, è durato poco, fortunatamente, sebbene gli scontri si siano poi ripetuti a singhiozzo. Poi arriva lo spartiacque, il dialogo nella Cattedrale da febbraio al 1° marzo 1994. Segue un lungo periodo di incontri e non-incontri che passano per la Convenzione Nazionale Democratica (CND) e la consulta del 1995. Poi il tentativo di far approdare le aspettative.

La CND avviene in questa tappa di incontri e non-incontri dopo il dialogo nella Cattedrale. Lì ci siamo resi conto della realtà, abbiamo iniziato a cercarci e ci siamo imbattuti in molti spropositi. E' arrivato poi il tentativo di approdo della nostra proposta: vogliamo uscire, vogliamo smettere di essere quello che siamo. Non più solo discorsi o comunicati, ma costruire una pista di atterraggio con i dialoghi. L'aspetto fondamentale dei dialoghi è che rompono lo schema di contrattazione, si aprono ai lati e si costruiscono risposte. E per ultimo...

CM: Il 9 febbraio 1995 il governo di Ernesto Zedillo tenta di cancellare in un solo colpo l'EZLN. Come vedi questo attacco a distanza di tempo?

M: E' l'ultimo importante tentativo del regime di applicare la vecchia ricetta dei manuali contro i movimenti sovversivi: il discredito. Zedillo dice: "non sono indigeni, sono universitari, sono bianchi; vengono da fuori". Sì, non sono sovietici ma non sono di qui. Il tentativo dura qualche ora, grazie ancora una volta alla gente, ed in un modo o nell'altro questo argomento viene annullato speriamo definitivamente. Il 9 febbraio, per noi significa la sconfitta dell'opzione militare, con le sue tinte poliziesche, lo smascheramento, l'ingresso dell'Esercito nelle comunità e tutto questo. In poche ore si è dimostrato che in termini militari questa guerra non aveva soluzione né per loro né per noi.

CM: Dopo arriva una lunga tappa di andirivieni.

M: E' quando abbiamo tentato di costruire una soluzione non solo a parole ma pratica, con il dialogo a San Andrés. E' quando abbiamo offerto a Zedillo la fast track (la strada veloce), cioè di cominciare già a parlare di pace mentre era ancora in corso il processo di pacificazione e l'EZLN potesse fare vita politica. Questo ha significato ridurre le richieste dell'EZLN al minimo; entra in scena la legge della Cocopa, la marcia indietro di Zedillo e il reinizio della persecuzione, ora con un altro obiettivo. Se è molto oneroso attentare alla vita di Marcos, Tacho, Moi e David, allora picchiamo più in basso. Comincia contro le comunità la grande offensiva capeggiata da quel cacique assassino di Albores, con il patrocinio di Zedillo.

CM: Al quale avete riservato un attributo alimentare chiamandolo Il Crocchetta...

M: C'è un momento chiave all'inizio del negoziato a San Andrés, la campagna "non sono indigeni". Allora a San Andrés si svolge una gigantesca mobilitazione di gente de Los Altos. E' il momento in cui Zedillo dà il via all'attivazione dei gruppi paramilitari e per contrastare tutto ciò. Il piano esisteva già ma era sospeso ed ora gli si dà luce verde. Si pensa di vincerci presentando la repressione come uno scontro tra comunità. Arriva l'incubo di Acteal. Il governo non solo non si ferma, diventa ancora più belligerante con la grande offensiva del '98 contro i municipi autonomi.

A questo abbiamo risposto con la marcia dei mille 111 e la consulta del 1999. Sapendo però di non avere dall'altra parte un interlocutore politico, ma militare. Non potevamo pensare in termini militari, ma non per calcolo, non perché come dicono "sono pochi e sono male armati". Immaginatevi se avevamo carri armati, aerei, elicotteri e tutto l'armamentario, perfino i sottomarini, che dicevano loro. Anche se li avessimo avuti, non lo avremmo fatto. Non abbiamo dichiarato guerra per fare la guerra, ma per rompere il circolo dell'obbrobrio. Ma poiché non avevamo più un interlocutore, ci siamo imbattuti in due possibilità, come è successo per esempio al Consiglio Generale di Sciopero (CGH) della UNAM. Il CGH resta senza interlocutore e, invece di aprirsi ad altri interlocutori, si chiude sempre più su se stesso. Se avessimo fatto così, né il movimento indigeno, né le comunità zapatiste avrebbero avuto più niente da dire, niente da dare a nessuno, niente da ricevere.

Noi abbiamo detto: "bene, abbiamo sbattuto contro un muro, dobbiamo aprire l'interlocuzione da un'altra parte". Questo è stato l'obbiettivo del viaggio dei mille111 e della consulta. "Sì, manteniamo i nostri impegni" abbiamo detto alla gente. "Quello non vuole, ma qui noi continuiamo ed ora la soluzione è questa". Se siamo sopravvissuti sette anni, non è stato per la nostra capacità militare - che possediamo -, non è stato per la nostra capacità politica e l'organizzazione sociale delle comunità, che pure abbiamo. E' stato, soprattutto, perché in un modo o nell'altro siamo rimasti con la gente, eravamo nella loro agenda, nel loro pensiero ed ogni tanto lo confermavamo. Ogni tanto si diceva: "sono già finiti, sono divisi". Non so quante volte mi hanno ucciso o hanno arrestato Tacho. A volte lo arresto io, a volte arrestano me. E ogni volta che dicevamo: "no, forse alla gente non importa più, siamo ormai passati di moda, mi sto sempre ripetendo nei comunicati, però il Chiapas continua ad essere il Chiapas...".

CM: La riattivazione ciclica della memoria è una strategia ben definita?

M: Sì e non sono io che devo dirti che ci siamo riusciti e che ci ricordano. Ma credimi, non vogliamo essere una pillola fedele per la memoria, non vogliamo ricominciare o che altri debbano tornare indietro per noi. Abbiamo molta fiducia nella gente e forse questo è il nostro errore.

CM: Volevo arrivare a questo. Non c'è stata una mitizzazione della società civile da parte dell'EZLN?

M: Crediamo di no. Ogni volta che ci siamo appellati a lei, ha risposto. C'è molta gente che dice: "siamo qui". Se avessero chiamato i partiti politici coerenti con l'ideale della rivoluzione, la gente avrebbe detto: "non sono qui; non sta chiamando me e nemmeno tutti quelli che vogliono e amano...". Molta gente si è sentita inclusa e dice: "Io sono la società civile; è un'etichetta tanto grande che ci sto dentro e funziona soprattutto per riconoscimento: non sono di un partito politico, non sono di un'organizzazione sociale, sono una casalinga, sono un giovane, un cittadino, un contadino, un indigeno, non ho una struttura ma questi mi danno una collocazione in cambio di niente. Non mi chiedono di affiliarmi né di iscrivermi, né che voti, né niente e posso fare qualche cosa". Credo che abbiamo potuto costruire il sentimento che stanno partecipando con e non al seguito di.

HB: Abbiamo già parlato del 9 febbraio e di quello che seguì. Nei fatti si sviluppò una militarizzazione schiacciante sui territori abitati dalle comunità in resistenza. Arriviamo al momento in cui il nuovo governo dice di voler fare qualche cosa al riguardo. E' una delle richieste della marcia verso Città del Messico e di tutti questi anni: che non sia militarizzato il luogo in cui vivono. Quale è la situazione attuale? In effetti c'è stato qualche cambiamento? Che cosa ci si aspetta ora, dal momento che c'è un governo che nei suoi primi momenti ha parlato di ritiro militare?

M: Al nuovo regime abbiamo posto una domanda fondamentale, quella che ci dicono di fare i popoli: sì, vogliamo dialogare e risolvere pacificamente ma, vale la pena che dialoghiamo o ci ritroveremo di fronte alla situazione di prima? Perché non ce la beviamo che tutto sia cambiato. Che garanzie ci sono che davvero si faccia sul serio? Abbiamo chiesto a tutta la classe politica se vuole il dialogo e se si impegna fino alle sue ultime conseguenze. Abbiamo chiesto al Parlamento se farà la sua parte; non vogliamo che si ripeta il 1° gennaio e quindi non lasceremo niente in sospeso. Insomma, mai più un Messico senza gli indigeni. Abbiamo chiesto al Potere Giudiziario: se riconosce di avere di fronte un interlocutore valido, non un delinquente che tiene sotto sequestro una parte del territorio ma un attivista sociale, perché non lo libera? Ci hanno trattato come delinquenti e per questo ci sono più di 150 prigionieri. Facciamo una doppia domanda a Fox: ammettendo che sia a capo dell'Esercito, si impegna per la distensione militare, cioè, a smilitarizzare? Che dica: "non userò l'opzione militare, adotterò l'opzione politica". Questo comporta un costo militare. Anche per noi comporta un costo militare intraprendere un processo di pace. Questo vuol dire che non ci saranno né armi e né passamontagna? Se vuole dire questo, questo è il nostro costo. Questo chiediamo. Non stiamo chiedendo le 259 postazioni; ne stiamo chiedendo solo sette, un segnale. E l'altra domanda: Fox, è al comando dell'Esercito in Chiapas? Se non lo è, perché parliamo con lui? Se c'è stato un "colpo di Stato", che alcuni situano il 9 febbraio e altri dopo, e l'Esercito qui è autonomo ed indipendente, che parliamo a fare con Fox se qui c'è un potere regionale, di caciques, militarista che è quello che comanda? Perché la nostra lotta è nazionale ma anche chiapaneca.

E se Fox è al comando e lo obbediscono, ma non vuole risolvere la cosa, allora perché? Non possiamo chiudere il conflitto dicendo: "bene, la guerra è già finita, compagni", se abbiamo quasi nulla ed i diritti indigeni restano in sospeso ed oltre 70mila soldati continuano a intromettersi nelle comunità promuovendo tutto quello che promuovono? Se a queste domande l'EZLN otterrà tre sì, ci sarà un processo di pace rapido. Non rientra nei nostri calcoli dilungarci ed aspettare di vedere che cosa succede nei sei anni di governo di Fox.

Facciamo queste tre domande; non abbiamo ricevuto alcuna risposta positiva ma molte insinuazioni francamente negative. Il 15 dicembre a "Detrás de la Noticia" Ricardo Rocha intervista Fox: "Quando si ritirerà l'Esercito dalle sette postazioni richieste dall'EZLN? Fox risponde che non parlerà oltre di misure di distensione militare, risponde con imprecisione, dice che l'EZLN chiede questo ma che molte comunità richiedono invece che l'Esercito resti a loro protezione, che la frontiera resta sguarnita, che il narcotraffico può provocare seri problemi, che i migranti del Centroamerica sono un problema da risolvere, che bisogna considerare molte cose. Quindi, in concreto non ci sarà più distensione militare?

HB: Questo vuol dire che non c'è una vera distensione?

M: Vuol dire che si è ridotta la loro visibilità sul territorio, ma nemmeno un solo soldato ha lasciato il Chiapas, continuano ad essere lo stesso numero anche se meno visibili ai giornalisti, alle ONG, alla gente. Prima qui vedevi passare le colonne dei soldati, gli aerei, gli elicotteri. Oggi non si vedono più ma sono ancora lì, a Guadalupe Tepeyac, nell'Euseba, a San Quintín; sono dappertutto.

Tatticamente e strategicamente, l'Esercito ha tutte le opportunità di sferrare in pochi minuti il golpe chirurgico o l'offensiva rapida che pensa da tempo. L'EZLN non sta chiedendo che prima del dialogo se ne vada tutto l'Esercito. Chiediamo a Fox di rispondere a questa domanda: "Sei disposto a colloquiare e ad abbandonare la via militare? Sei tu al comando dell'Esercito?". Quindi chiediamo sette postazioni che non influiscono sulla frontiera. Non c'è nessuno in quelle zone che richieda la permanenza dell'Esercito. La gente di Guadalupe Tepeyac è da cinque anni in esilio; quello è un villaggio deserto. Guadalupe Tepeyac si trova molto lontano dalla frontiera, nessuno dice: "voglio che questa guarnigione, una delle più grandi che ci sono nella selva, continui a restare qui". Sul fiume Euseba, qui vicino, non c'è neppure un abitante; è una postazione militare installata con l'intenzione di accerchiare La Realidad perché qui appare la comandancia dell'EZLN. A La Garrucha non esiste un solo abitante a favore della permanenza dei militari. A Cuxuljá neppure. A Jonalchoj, perfino i priisti si sono organizzati per cacciare l'Esercito e non ci sono riusciti. (Marcos prende una cartina per illustrare le sue dichiarazioni). Queste sono le postazioni. I punti rossi sono postazioni dell'Esercito, le altre sono postazioni di polizia della Pubblica Sicurezza, della Polizia giudiziaria, della Polizia di Migrazione, ecc. La frontiera - indica sulla cartina - è coperta dall'Esercito; non si chiede nessuno di questi punti. Quelli che chiediamo ora sono sette perché è il simbolo che abbiamo sempre usato, ma avrebbero potuto essere 16 e non avrebbero ridotto ancora per nulla il loro accerchiamento. Se togliamo queste sette postazioni, non viene compromessa la capacità: la presenza dell'Esercito continua ad esserci. Per esempio, non abbiamo chiesto che l'Esercito se ne vada dalla zona di Chenalhó. Lì sì avrebbero potuto dirci: "no, i priisti assicurano che se i soldati se ne vanno, poveri paramilitari, chi li proteggerà". Non ci preoccupano le risposte evasive, quello che ci preoccupa è che la gente si mobiliti insieme a noi, che non si faccia ingannare credendo che tutto sia risolto, che l'Esercito se ne sia già andato, che non ci sia più pressione militare. La gente di Guadalupe Tepeyac continuerà a vivere in esilio, i bambini nascono ed i vecchi muoiono lontano dalla loro terra. E tu sai quanto sia importante la terra per le comunità indigene. La terra dove sei nato, cresciuto e dove sta la tua vita.

Questa gente non vive più in esilio a causa di Zedillo. Dal 1° dicembre sta vivendo in esilio per colpa di Fox. I militari hanno molti interessi qui; combattere l'EZLN non è l'affare. L'affare è il territorio. Il generale di Guadalupe Tepeyac è un presidente municipale autonomo che rende conto solo al suo capo di unità. E' incaricato di concedere i permessi, di autorizzare l'ingresso di prostitute e di alcol. I convogli militari scortano i camion che portano gli alcolici. Perché? Perché i posti di blocco zapatisti intercettano l'alcol, perché esiste una legge delle donne che lo proibisce. C'è l'affare con il magnaccia che fornisce le prostitute, alcune minorenni o quelle provenienti dal Centroamerica, che sono inoltre supersfruttate perché non hanno i diritti delle messicane. In qualsiasi momento creino un problema, le deportano. Nonostante questo, non stiamo chiedendo che se ne vada tutto l'Esercito, come hanno fatto intendere alcuni mezzi di comunicazione.

Se l'Esercito se ne va dall'Euseba, che è qui vicino, e da Guadalupe Tepeyac, a 20 kilometri da qui, resta San Quintín, l'acquartieramento più grande della selva. Più in là, a nord de La Realidad, c'è Cruz del Rosario, Vicente Guerrero e Nuevo Momón. Poi Santo Tomás, un'altra postazione militare. Non si chiede il ritiro di nessuna di queste postazioni. Viene mantenuto l'accerchiamento de La Realidad, ma ai compagni non importa. Ai compagni importa sapere se Fox accetterà o no e se è lui quello che comanda. Per questo insistiamo ancora una volta a dire alla gente: dobbiamo mobilitarci. Se non strappiamo una pace degna come siamo riusciti a strappare loro altre cose, non ci daranno niente né ci sarà una concessione di regime.

CM: Un elemento soggettivo di innegabile forza. Esiste una persona, il subcomandante Marcos, che ha mantenuto per sette anni una posizione centrale nell'EZLN. Come descriveresti il percorso di questa persona chiamata Marcos?

M: Onestamente parlando, per quanto riguarda Marcos ed il resto dell'EZLN, non erano preparati per il 2 gennaio 1994. In un primo momento si saldano una serie di fattori che hanno magnificato la sua figura; insomma, non è indigeno. Tutti i riferimenti culturali ruotano intorno alla combinazione di indios e bianchi, qualcosa come Balla coi lupi e tutti i film messicani, a partire da La notte dei maya, oltre alle leggende. E si comincia a riempire un arsenale, un bunker che conferisce un significato speciale all'interlocuzione politica, sebbene in termini organizzativi abbia lo stesso impatto parlare con Tacho o con David che sono dirigenti. In termini mediatici, perché la politica è un fenomeno mediatico, non è la stessa cosa che parlare con Marcos. Questo ruolo vizia molto la vita politica. Vizia l'attività politica più elementare, ma più concreta, di cui ha bisogno l'EZLN. Non è la stessa cosa che tu arrivi e dica: "voglio parlare con gli zapatisti" e stai pensando a Marcos o che stai pensando ad uno zapatista che deve parlare con te che sei operaio, cittadino o quello che sei. Questo vizia molto le cose. E serve anche da bersaglio prediletto del regime. Non solo per le pallottole, ma anche per quelle. Perché non è la stessa cosa eliminare Marcos o Tacho. O una pallottola o il discredito. E la campagna si concentra su questo. Questo mi lascia in una contraddizione, perché vediamo anche che aiuta il movimento a capire di più. In fin dei conti sono il portavoce.

Ed a volte serve anche come parafulmine, perché è la campagna governativa si concentra molto contro la figura di Marcos, che lascia libero il resto del movimento. "Lì si trova il cattivo con gli ingannati". Ma poi permette loro di parlare con altri; avrebbero più problemi a parlare direttamente con il movimento indigeno. Io credo che si dovrebbe fare un bilancio del mio ruolo.

CM: Non te lo chiedevo tanto per il bilancio del tuo ruolo, ma per le ripercussioni sul tuo sviluppo, di come ti sei trasformato. Uno è il linguaggio di Marcos del 1° gennaio 1994 ed uno è quello di adesso. Hai parlato molto, ti hanno letto profusamente. Hai rinunciato, suppongo, ad una parte del linguaggio che ti apparteneva prima del 1° gennaio.

M: Soprattutto agli schemi, dai più elementari del rivoluzionario che deve essere macho e cose di questo genere. Ci sono molti aneddoti, soprattutto nelle catacombe della sinistra armata: a partire da quando tacciarono di omosessualità Yon Sosa e per questo lo presero. Anche nella sinistra parlamentare dominano le vecchie forme culturali. Non credere che fosse vietato solo Juan Gabriel, ma tutto quello che non parlava di sangue, morte, sacrificio: tutta un'iconografia, compresa quella verbale e musicale, anche se suona contraddittorio, di quello che è il progetto rivoluzionario.

CM: Tuttavia nel discorso della Convenzione di Aguascalientes parli molto criticamente di quelli che si oppongono al linguaggio del sacrificio. Adesso non lo usi più.

M: E' stato inevitabile per noi usare quel linguaggio, e non tanto per l'eredità della sinistra tradizionale delle catacombe, anche se lì siamo cresciuti e ci siamo formati, ma in gran misura per la concezione delle comunità, del senso della morte e della sofferenza. Non è il culto del "così siamo felici", ma è stato necessario. Allo stesso modo, stiamo parlando con te ma siamo armati e con i passamontagna, e l'unica cosa sicura è che non vogliamo né le armi, né i passamontagna. Non solo per vocazione pacifista, sebbene sia molto pratico; è che abbiamo bisogno di fare politica e lì le armi sono un ostacolo. Ma non ce li toglieremo in cambio di nulla. Non possiamo dire: "è cambiato tutto; è caduto il PRI, che era quello che volevamo, ed ora andiamo al Parnaso o dove si debba andare a chiacchierare con gli amici". Non possiamo farlo. Abbiamo degli ideali, siamo un movimento rivoluzionario serio ma vogliamo fare altre cose, anche se non ci lasciano. Non so se le nostre richieste siano molto sovversive, non credo, ma se non si arriva ad una soluzione, qualcosa esploderà, anche senza di noi. Se il paese non riconosce che esistono esseri diversi, da qualche parte scoppierà. E non credano che si riprodurranno gruppi come l'EPR o l'ERPI, ci saranno movimenti più grandi, più radicali, più duri, intolleranti e fondamentalisti riguardo la questione etnica. Ma non vogliono vederci fuori, perché rappresentiamo un fenomeno alieno alla logica della classe politica. Dicono: "è meglio che restino là a scrivere comunicati e discutibili poesie, ma che non vengano a parlare al Parlamento, che non diventino interlocutori degli uni o degli altri". Per questo motivo non ci sono segnali sufficienti. "Anche se mi chiedi non sette segnali, ma uno solo, anche se non mi chiedi niente, anche se ti togli il passamontagna senza fare nulla, non muoverti di lì, perché ci sconvolgi il mercato". Vedi, impariamo in fretta; usiamo già il gergo di moda. Adesso firmeremo con EZLN.com.

CM: Superata queste prove indispensabili, ti vedi ad agire in politica regionale o nazionale su un terreno disarmato?

M: Sì, e non parlo solo a titolo personale. Non stiamo ingannando gli intelligenti; diciamo che sì, speriamo nel deterioramento del regime e allora ci andrebbe bene o che eventualmente possa esserci un'insurrezione popolare dove a tutti venga voglia di fare casino. No, da quello che abbiamo capito, pensiamo che bisogna fare questa politica, per cui non esistono le condizioni ma si possono costruire. Il problema di una via d'uscita per noi senza armi è che non c'è più solo il nemico, ma anche altri nemici: i gruppi paramilitari, le guardias blancas, i caciques. Tuttavia crediamo che tutto questo si possa risolvere. Per questo mettiamo tanto impegno affinché la gente capisca che la via d'uscita non è solo responsabilità nostra, ma è anche responsabilità loro; ora sì che ci devono tirar fuori. Siamo molto disponibili, ma da soli non possiamo farcela ed essi da soli nemmeno. Possiamo strappare questo al regime se ci mobilitiamo tutti insieme.

HB: Come vi aspettate che si organizzi la società per il vostro accompagnamento e per le richieste che avete posto?

M: Il nostro problema è che, dato l'isolamento fisico, fuori altri possono dire: "io sono l'interlocutore dell'EZLN, il telefono rosso". E dicendo "sono io", escludono molti altri. Vogliamo evitare questo, i telefoni rossi, le commissioni organizzatrici. Che la gente partecipi da uno all'altro estremo. Quella che è organizzata nel PRD o nel PT, la gente che non ha organizzazione, quella che sta in organizzazioni sociali o politiche, più o meno radicali, più o meno riformiste, e soprattutto, la gente che non sta da nessuna parte.

In questo senso, qualsiasi forma organizzativa della gente avrà il suo posto, non esisterà il monopolio del dialogo con la delegazione, né con la mobilitazione per le tre richieste. Deve esserci posto per tutti. Abbiamo già l'esperienza precedente; è stato un errore dare la responsabilità a un solo gruppo e poi questo gruppo seleziona, filtra o diventa un ostacolo per gli altri. Perciò diciamo che l'EZLN si incaricherà direttamente della mobilitazione. La consulta è stato un passo importante in questo senso; era tanto flessibile che sono nate molte organizzazioni spontanee di quelli che non si erano mai organizzati prima. Questo accadrà con la mobilitazione per le tre richieste e con il viaggio della delegazione.

HB: Una questione che ha generato inquietudine nella gente riguardo al messaggio lanciato alla conferenza stampa del 2 dicembre, è che l'EZLN si occuperà della mobilitazione. Che cosa vuole dire?

M: Che non ci sarà una commissione organizzatrice esterna che dice quello che si farà. Chiunque sia l'individuo o il gruppo che possa organizzarsi per questo compito, avrà sempre posto senza timore di essere respinto a causa della sua filiazione politica, del proprio voto utile od inutile, per la sua partecipazione alle ultime elezioni o per qualsiasi altra cosa. Chi non partecipa è solo perché non vuole.

HB: Come ci si aspetta che sia l'appello dell'EZLN o delle istanze, di sinistra, ai movimenti tuttora in resistenza che cercano un cambiamento diverso da quello imposto dall'alto?

M: L'asse, la colonna portante di questa mobilitazione, è la questione indigena. Abbiamo parlato con il Congresso Nazionale Indigeno per concordare i punti di questa mobilitazione, non solo i punti del viaggio della delegazione, ma anche quello delle sette postazioni e della liberazione dei prigionieri. In base a quanto condiviso con il CNI, vogliamo un criterio più includente, più tollerante, senza rivalità tra chi è il più cattivo, chi è l'invitato o chi ha una carica elettiva. Dobbiamo mantenere relazioni con le forze sociali e della sinistra.

Ottimisticamente, pensiamo che quello che accadrà sarà uno stimolo per i movimenti di sinistra, molto segnati dal trionfo della destra del 2 luglio, perché è un trionfo. Soprattutto quando si è lottato tanti anni per avere un certo sistema e poi vincono gli altri. La mobilitazione può essere importante per riattivare la sinistra. Non la guida né altro, ma può essere un punto importante per aiutare a ricostruire tanto la sinistra parlamentare che quella non parlamentare. Non permettere che il potere riempia gli spazi con la faccia dura di oggi. Pensiamo che lo spazio continui ad essere aperto e lo dimostra l'enfasi nella costruzione di un regime, mediante i mezzi di comunicazione, nel ruolo del Pubblico Ministero. Poco tempo fa, non so se voi avete visto quel notiziario, si parlò di alcuni poliziotti corrotti. Non c'è stata una denuncia pubblica, formale, giuridica dello stato di diritto tanto conclamato; nient'altro che un'apparizione in televisione all'ora di punta, ed il signor Fox ha risposto che risolverà il caso. Se il tuo problema non appare nell'ora di punta, scordatelo, nessuno se ne occuperà.

Se lo spazio che è ancora aperto non si riempie con un'alternativa, che speriamo sia di sinistra e pure più includente e più ampia, gli usi e i costumi del potere saranno adottati come decalogo nazionale, ed il settore culturale ne sarà molto colpito. Non mi riferisco solo alle idee progressiste, ma anche alle idee del settore artistico; la radio, il cinema, il teatro, la cultura. Gli ultimi scandali che ci sono stati, l'attacco alla caricatura di Ahumada, i diversi esempi nei municipi governati dalla destra, la persecuzione degli omosessuali, la censura di opere teatrali e di spettacoli che presentavano nudi... Sarà così, se si molla, la politica del regime, che non si propone di durare solo sei anni, ma di stabilire un certo modo di fare politica. In termini poveri, significa un percorso a ritroso della storia. Anche se non credo che la gente sia disposta a perdere i progressi raggiunti in questa epoca. Soprattutto per quanto riguarda il libero pensiero, la circolazione ed il confronto delle idee. Questo è quello che vediamo con preoccupazione ma anche con speranza, perché alla fine se ne è andato quello che c'era prima, ma quello che c'è ora è appena arrivato, ed è ora che pensiamo che la gente debba tenersi pronta. Vediamo, con un po' di disperazione, il settore culturale ed intellettuale che dice: "suvvia, non esageriamo". Vogliamo caricare l'orologio perché non si fermi e nemmeno torni indietro. Anche se ci sono coloro che insistono a dire alla gente: "avete fatto male a votare per quelli, avreste fatto meglio a votare per noi".

HB: Di fronte alla nuova opportunità di convocare la sinistra, i movimenti sociali, si intravede una nuova sinistra? C'è qualcosa che faccia pensare che anche lì ci saranno dei cambiamenti?

M: Crediamo che la sinistra si trovi di fronte a questa alternativa. Mettiamo la destra di fronte ai suoi precedenti storici, e la sinistra ai suoi, ed il problema è che gli aspetti fondamentali continuano ad essere irrisolti. In Messico, il regime ha trascorso la maggior parte dei suoi 71 anni deteriorando i simboli della resistenza, della libertà, della democrazia, della lotta per la trasformazione, fino a prostituirli. Senza andare tanto in là, il suo uso di Zapata e di tutta l'iconografia della Rivoluzione Messicana. Il referente non è Juárez contro Maximiliano, ma il regime priista che si è appropriato della figura di Juárez nel senso comune della gente.

Questo sottolinea la sfida di trovare nuovi riferimenti storici in prospettiva. Credo che il problema della sinistra sia di costruirsi un referente culturale e politico. Qui è dove sentiamo la mancanza del lavoro degli intellettuali.

Di fronte all'ascesa della destra, non basta riconoscere "il trionfo del marketing", ma quale alternativa offri. Di fronte al marketing, le leggi di Riforma? Questo salto è un gioco di prestigio che può essere dannoso, soprattutto in certi settori della popolazione rimasti nel vuoto. Un altro problema è che i partiti politici sono in crisi: l'organizzazione politica classica, quella di presa del potere, di accesso al potere, di interlocutore di fronte al potere.

CM: Parte della complessità della situazione, è il nuovo ruolo di tutti i settori. Gli intellettuali pubblici, per esempio, a molti sembrano una specie in via di estinzione.

M: Devono ricostruirsi organicamente, con tutte le zavorre che caricano la destra e la sinistra. Devono costruire il loro referente culturale, storico, intellettuale. Davanti agli studi di mercato, che cosa offre l'intellettuale di sinistra nel campo della ricerca sociale? Non interviene, o torna indietro agli schemi di sviluppo o sottosviluppo. O al manuale Pulitzer. Sarà questa la nostra risposta allo studio di mercato? Contro Keynes, Marta Harneker, non c'è niente che sia chiaro e va bene, perché stanno lasciando mano libera agli operatori politici di farlo. Essi, che non sono tutto questo e che nella tradizione dell'organizzatore politico molte volte sono contro questo: tutto quanto è teoria si deve disprezzare, non serve, è sterile. L'organizzatore costruisce dove capita e va rattoppando e rattoppando. Crediamo che il settore intellettuale, progressista, di sinistra, abbia ancora un cammino da costruire. La sfida è grande e molto allettante: che invidia, che voglia di parteciparvi. E non solo nell'aspetto intellettuale, ma anche in quello culturale, nel cinema. Non ho visto molti film, ma ci sono queste pellicole del "nuovo cinema messicano", da La legge di Erode, che ho visto nel periodo elettorale, Sesso, pudore e lacrime, Amori maledetti...

HB: Ora la destra vuole mettere la censura, un passo indietro su ciò che si era conquistato.

CM: Lo vorrebbe, ma ormai è impossibile la censura nell'epoca di Internet. Quello che sì è alla sua portata è evitare che la maggioranza si aggiorni. Ma ormai un controllo parrocchiale, una ricerca del pensiero unico, è un'impresa ridicola.

HB: A livello statale, anche il governo è nuovo. Quali cambiamenti ha prodotto? Si dice che gli zapatisti non hanno più ragione di essere, perché le condizioni nazionali e statali sono cambiate.

M: Magari le dichiarazioni si convertissero in fatti. Che bello che non stiano abbaiando e, per restare a tono, che Dio benedica Albores e che se lo porti via. Però c'è ancora molto da fare. E il problema è federale. Per molta buona volontà che possa avere il governo chiapaneco, la parte fondamentale è del governo federale, che parrebbe aspettare la mobilitazione della gente per cominciare a soddisfare le nostre richieste.


(traduzione del Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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