EL UNIVERSAL - 29/1/01

"Gioca sporco la gente di Fox"

Marcos dice che Castañeda e Aguilar Zinser vorrebbero impossessarsi del negoziato

Rivela che gli hanno inviato emissari per stabilire un contatto diretto

Marco Lara Klahr e Mario Cerrillo/Inviati

LA REALIDAD, Chis.- Alla fine di un pomeriggio, nel passo fra il giorno e la notte, durante le due ore d'intervista in mezzo alla selva il "subcomandante insurgente Marcos" fa per EL UNIVERSAL un ripasso degli argomenti del programma zapatista. Sono già sette gli anni di esistenza dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) e, in tale contesto, parla del burrascoso rapporto con il governo federale dal 1994, delle "virtù" dell'iniziativa di legge su diritti e cultura indigeni e dice che, prima di qualsiasi altra cosa, gli zapatisti cercano la pace. Ci fa pure un ritratto della classe governante.

Tuttavia, ciò che più preoccupa Marcos è quello che qualifica come "la sozzura" di certi atteggiamenti del segretario alle Relazioni Estere Jorge G. Castañeda e del consigliere presidenziale Adolfo Aguilar Zinser. Denuncia che entrambi i membri del "fox-gabinetto" gli hanno inviato emissari per stabilire un contatto diretto, cercando di emarginare Luis H. Alvarez, l'incaricato per la pace del presidente Vicente Fox. "perché vogliono prendersi la poltrona del negoziatore e accaparrarsi il capitale politico che ciò significa".

Osserviamo che il "subcomandante" è molto magro, ma elastico. Ci viene incontro, con camicia color marrone, pantaloni neri, stivali infangati, cartucciere al petto, il berretto che 'fu' beige rammendato fino all'impossibile, le armi al loro posto e una "spilla" di radiocomunicazione. Prima che si possa stringergli la mano, in un saluto forte, arriva l'aroma del tabacco che lo avvolge come un alone.

Durante la chiacchierata il leader guerrigliero dice di assumersi i rischi che implica la marcia dei 24 delegati zapatisti al centro del paese e risponde agli antizapatisti. In concreto, dice che il rifiuto della marcia da parte degli impresari "è una lusinga", dato che "significa che uno non è il Ricky Martin dei poveri". E del vescovo Onésimo Cepeda dice solamente: "mi fa ridere".

Nella prima, delle tre interviste, il "subcomandante Marcos" formula una "domanda principale" al presidente Vicente Fox Quesada: "Vuole dialogare realmente con noi o siamo un elemento mediatico in più nella sua campagna postelettorale?".

Accusa Castañeda e Aguilar di protagonismo

Marco Lara Klahr/Mario Cerrillo/Inviati

LA REALIDAD, Chis. - D'improvviso, con quell'andare preciso, a passi corti, sicuri, silenziosi, ai quali sono abituati gli uomini della selva, il "comandante Tacho" appare da lontano, attraversa un torrente, si avvicina e lascia cadere affabilmente poche parole: "Preparatevi, per favore, per l'intervista con il 'subcomandante Marcos'". Intanto da un pezzo l'attesa tra silenzio, monti e vegetazione si è inghiottita tutta la nozione biologica del tempo, però è evidente che ciò che comincia a tingere l'orizzonte di un rosso acceso è il tramonto. Al termine di una breve camminata, con "Tacho" alla testa della fila, appare su una serie di tronchi il "subcomandante insurgente Marcos". Molto magro. Nodose le sue mani. Lo si vede sottile. Il poco che lascia intravedere il suo passamontagna è abbronzato dal sole. Ci viene incontro, con camicia color marrone, pantaloni neri, stivali infangati, cartucciere al petto, il berretto che 'fu' beige rammendato fino all'impossibile, le armi al loro posto e una "spilla" di radiocomunicazione. Prima che si possa stringergli la mano, in un saluto forte, arriva l'aroma del tabacco che lo avvolge come un alone.

A sette anni dalla sua apparizione pubblica, con la spigolosa immagine del generale Emiliano Zapata alle sue spalle, intorno ad un tavolo rustico si aggrappa alla sua pipa e, come un mago dal suo cilindro, fa apparire temi. Come faccia ad essere così aggiornato sulla situazione lo sa solo lui, però non c'è tema che non affronti, il che d'altra parte è stato sempre il suo modo di fare la guerra e di perseguire la pace.

Durante le due ore di chiacchierata, il capo ribelle si imbarca in molti temi. E non batte ciglio riconoscendo che il viaggio a Città del Messico presenta diversi pericoli. Propone al governo foxista di rettificare la sua politica di "sconti ciarlatani" nel negoziato. Sostiene che gli zapatisti vogliono, soprattutto e quanto prima, la pace. Contesta varie posizioni di figure pubbliche antizapatiste. S'infervora sul neoliberismo. Esalta le virtù dell'iniziativa di legge su diritti e cultura indigeni. E dal cilindro ne esce ancora.

Tuttavia, lo inquieta ciò che chiama "la sozzura" di certi atteggiamenti del cancelliere Jorge G. Castañeda e del consigliere presidenziale Adolfo Aguilar Zinser, che "stanno lottando per quella poltrona" (vale a dire, quella che oggi occupa Luis H. Álvarez). Denuncia in particolare che entrambi hanno dispiegato un'aggressiva strategia di negoziato ai margini del commissario per la pace per capitalizzarsi il merito di firmare l'accordo di pace con gli zapatisti.

Giochi di potere

Approssimandosi il 24 febbraio, cioè il giorno in cui i comandanti zapatisti intraprenderanno il percorso per il paese che giungerà alla capitale (dove cercheranno d'incontrarsi con i parlamentari) l'11 di marzo, appaiono altre opinioni avverse e pure con una maggior carica virulenta. L'alto clero, la cupola imprenditoriale, settori dell'ultradestra, la destra ed i priisti, funzionari pubblici, parlamentari, tutti hanno qualcosa da dire.

"Subcomandante", secondo gli zapatisti, quali forze sono più contrarie al cammino verso la costruzione del dialogo? dove vedete il maggior ostacolo?

Vediamo il maggior ostacolo nelle dispute della classe politica. E' in gioco chi va a capitalizzare l'eventuale successo del negoziato con l'EZLN e questo fa sì che in queste lotte interne si cerchi di sabotare il successo del tavolo. È la stessa storia di questi sette anni: quando qualcosa inizia a riuscire bene, c'è chi cerca di intorbidire le acque "perché vuole quel posto", che, in questo caso, sarebbe quello che sta fronte agli zapatisti, perché quello rimarrà nella foto ricordo, con il prestigio e l'autorità morale, perché potrà dire 'noi abbiamo raggiunto la pace e riconosciamo il debito storico, abbiamo fatto quello che non aveva mai fatto nessuno in 500 anni'. Questo è il principale ostacolo per la classe politica professionale. E mi riferisco non solo a deputati, senatori e membri del gabinetto, ma pure all'alto clero che fa politica, come nel caso di Onésimo Cepeda.

C'è un caso sintomatico di tutto questo: ufficialmente, il commissario per la pace è Luis H. Álvarez, ma, ciononostante, alcuni membri del gabinetto stanno cercando di contattarci per dialogare: per esempio, Jorge Castañeda e Adolfo Aguilar Zinser.

Per proprio conto o come emissari "alternativi" del governo federale?

Per loro conto, penso io, perché se fossero inviati, allora che ci starebbe a fare Luis H. Álvarez. Fox ci dice: "Tratterò con voi attraverso Luis H. Álvarez". E noi rispondiamo: "Sì, lo rispettiamo, adesso è del governo e lo tratteremo come rappresentante del governo". Allora, perché il suo cancelliere e il suo responsabile della sicurezza nazionale stanno tentando di contattarci?

Voi che cosa ne pensate?

Che stiano lottando per quella poltrona (ossia, quella di Álvarez), perché sanno che la nostra volontà è sincera e che ci vogliamo sedere a dialogare fino a che ci sia la pace, e pensano: "Se questa poltrona l'ha Luis H. Álvarez, non va bene, la vogliamo noi". Sanno pure che non è lo stesso sistemare Tabasco o lo Yucatán, nel nostro caso invece risolverebbero un problema d'impatto nazionale e internazionale. Perciò Castañeda e Aguilar Zinser ci fanno arrivare dei messaggi, ci mandano a dire: "Desidero questo e quest'altro". Noi pensiamo che non sia serio e questo ci porta a domandarci che sta succedendo nel gabinetto, dato che oltretutto ci hanno suggerito che Luis H. Álvarez non serve perché è vecchio.

Proprio così?

Sì.

Con quanta gente del governo federale dobbiamo parlare? Quanti incaricati ci sono? Che hanno c'entrano il segretario per le Relazioni Estere o il responsabile del Consiglio di Sicurezza Nazionale? Con questo comportamento stanno dando calci a vuoto e questo ci preoccupa, perché così ci hanno rovinato i negoziati precedenti.

C'è stato chi ha detto esplicitamente, "il signore è della terza età e non serve per negoziare"?

Sì. E lo dicono a noi zapatisti, quando fra di noi la gente di una certa età gode di una considerazione speciale, perché da loro viene la saggezza indigena. Di questa 'sozzura' esattamente è fatto il loro gioco; suggeriscono che "forse non c'è contatto con Luis H. Álvarez, non perché il governo non dia i segnali, ma perché Alvarez è un vecchietto e perché non lo vogliamo" e si offrono al suo posto.

Come risponderete a questi tentativi di seduzione alternativa?

In modo chiaro. Per noi il commissario di pace è quello che ha designato Fox e quando ci dia i tre segnali noi ci siederemo a dialogare con lui. Se Fox vuole mettere un altro, che lo faccia e noi parleremo con quello, però non apriremo un altro canale. Capiamo che possano avere questi litigi nel gabinetto, però non possiamo giocare ai dadi il futuro di pace guardando chi ci piace di più o parlando con tre allo stesso tempo. Il problema è che loro non stanno pensando alla pace ed ai diritti indigeni, ma ad apparire nella foto con noi.

"Cepeda mi fa ridere"

Di fronte alle opinioni più recenti del clero, dell'imprenditoria e dei funzionari statali sull'EZLN, avete una risposta viscerale... vi armate di pazienza... ironizzate?

Alcune di quelle dichiarazioni sono pesanti. Per esempio, quando il settore imprenditoriale va a Los Pinos a chiedere a Fox: "Non lasciate uscire dal Chiapas gli zapatisti", è una gran bella lusinga; significa che uno non è il Ricky Martin dei poveri e quindi uno di cui non ti devi preoccupare, perché non ti preoccupa un personaggio mediatico, anche se va da tutte le parti. Con il loro atteggiamento gli impresari stanno dicendo: "Riconosciamo che gli zapatisti sono un attore sociale e non un fenomeno mediatico". Onésimo Cepeda, mi fa ridere, perché cambia spesso di opinione. Era pro-Labastida da morire ed il 2 luglio è diventato foxista e quando gli zapatisti avranno successo dirà: "Io sono sempre stato zapatista, viva i poveri diavoli!". Tutto questo mi fa ridere.

In cambio, ciò che ci preoccupa, e speriamo che sia solo un problema di aggiustamenti dentro il potere, è la rissa di cui parlavo prima (e chiarisco che non c'è alcun dubbio che sia arrivata dal cancelliere una delle proposte di dialogare emarginando Luis H. Álvarez). Ci preoccupa che inizino a bombardare il negoziatore di Fox, è così che leggiamo le dichiarazioni: "non ci saranno più altri segnali fino a che non ci siederemo a dialogare" o "Non ritiriamo più l'Esercito, non daremo più altri segnali affinché gli zapatisti si siedano con Luis H. Álvarez; cercheremo di raggiungerli da un'altra parte".

"Fox in campagna"

Il "subcomandante Marcos" pensa che, tanto a certi settori della società così come allo stesso presidente Fox, preoccupi di più l'impatto mediatico internazionale del conflitto zapatista, che non una via d'uscita negoziata che conduca alla pace, e il viaggio dei comandanti dell'EZLN al centro del paese servirà, tra l'altro, per calibrare fino a dove il peso della società civile sarà determinante sul comportamento del governo.

Per ampliare l'informazione sul significato del viaggio dei 24 comandanti zapatisti, che cos'è esattamente ciò che volete ottenere?

Quello che speriamo è che questo sia il momento buono per arrivare alla pace, però prima serve un dialogo, perché c'è una dichiarazione di guerra e un esercito ribelle, il nostro, che ha una serie di richieste.

Non possiamo fare tabula rasa della storia di questi sette anni, però in generale abbiamo visto che da parte governativa c'è stata una simulazione di dialogo mentre in realtà si è preteso sempre di cercare di risolvere il problema per la via militare; a volte per mezzo della pressione militare contro le comunità e a volte tentando golpe chirurgici contro il Comando Generale dell'EZLN e il Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno.

E' il caso del 3 gennaio del 1998, mentre se ne andava (Emilio) Chuayffet ed entrava (Francisco) Labastida, e l'Esercito è penetrato a La Realidad cercando di arrestarci. O quello del 10 febbraio 1995, quando avevano un appuntamento con (Esteban) Mottezuma e nonostante ciò il governo lanciò l'offensiva contro Guadalupe Tepeyac ed il territorio zapatista.

Oggi abbiamo il timore che l'apparente disponibilità al dialogo di Vicente Fox non sia altro che una strategia mediatica sulla cresta della sua campagna elettorale, perché anche se formalmente è già terminata la campagna presidenziale e il 2 luglio si è già risolto, pare che Vicente Fox continui con la sua campagna elettorale e voglia usare il Chiapas, il dialogo e gli zapatisti per migliorare la sua immagine mediatica, soprattutto in un periodo in cui la presunta transizione di velluto è molto ruvida: lì ci sono gli esempi di Tabasco e dello Yucatán, l'auge del narcotraffico e del crimine organizzato e la fuga di "El Chapo" Guzmán. Ci sono molti pezzi sciolti del rompicapo e, fra tutti gli altri, uno ha impatto internazionale: la lotta zapatista.

A partire dal fatto che il neoliberismo è un modello dominante nel mondo, l'immagine internazionale è quella che più pesa nei governi e, in questo caso proprio per le sue caratteristiche, la lotta zapatista ha molto impatto internazionale e il nostro timore è che il desiderio di dialogo di Fox non sia per risolvere il conflitto, ma per poter proiettare un'immagine favorevole sui media internazionali.

Noi vogliamo andare al dialogo ed arrivare alla pace, finire la guerra e dedicarci ad altre cose come le persone normali. Abbiamo bisogno di arrivare ad accordi con l'altra parte e quegli accordi vorremmo che venissero rispettati. Di fronte a ciò, la domanda principale è: vuole Fox dialogare realmente con noi o siamo solo un elemento mediatico in più della sua campagna postelettorale? E noi questa domanda la facciamo al signor Fox.


EL UNIVERSAL - 30/1/01

Andremo senza armi: Marcos

Assumeremo, come prova che desideriamo la pace, il rischio di essere arrestati o assassinati

Rimprovera a Fox la strategia di negoziato

Marco Lara Klahr e Mario Cerrillo/Inviati

LA REALIDAD, Chis. - Il "subcomandante Marcos" sbatte in faccia al presidente Vicente Fox e al suo gabinetto: "Perché hanno paura di noi? Perché, se i loro indici di popolarità sono così alti, li preoccupa così tanto che partiamo per il D.F.? Dobbiamo chiederci se si può avere questo atteggiamento e nello stesso tempo un interesse reale alla soluzione del conflitto". Al senatore panista Diego Fernández chiede di spiegare la ragione per cui vorrebbe obbligare gli zapatisti a togliersi i passamontagna per negoziare, se "da parte nostra non gli stiamo chiedendo che si tolga i pantaloni per parlare con noi".

Quando, a causa del buio, dei volti solo restano visibili stille di sudore, da questo angolo di selva il "subcomandante Marcos" parla a EL UNIVERSAL ed annuncia che nel suo viaggio al centro del paese (a partire dal 24 febbraio) i 24 delegati andranno disarmati, assumendosi il rischio di essere assassinati: "Siamo tanto disponibili (ad ottenere la pace), che corriamo il rischio che i nostri dirigenti siano arrestati, che ci arrivi un pacco-bomba per esempio, che ci becchi un franco tiratore o che ci possa capitare qualsiasi altra cosa orribile: se ci arrestano, che ci arrestino; se ci uccidono, che ci ammazzino, però partiamo".

Alla fine, reclama: "Il governo ci sta trattando come i pizzicagnoli trattano gli indigeni, come se il processo di pace fosse una svendita - la vendita in una chincaglieria (usando l'immagine che tanto piace al signor Fox), dove se mi chiedi tre, te ne do due o cerco di ingannarti".

"Ci assumeremo i rischi per la pace"

Quando, a causa dell'oscurità, dei volti restano visibili solo alcune stille di sudore, da questo angolo di selva il "subcomandante Marcos" gioca, alla grande... Nell'intervista ha giocato con il governo del presidente Vicente Fox e con la sua "politica di sconti ciarlatani", affronta personaggi antizapatisti, come il senatore Diego Fernández de Cevallos, e si assume, tra gli altri rischi, la possibilità che il viaggio dei capi ribelli possa costare loro anche la vita, perché partiranno disarmati.

Il "maggiore Moisés" e il "comandante Tacho" assistono alla chiacchierata in silenzio, con la loro serietà indigena, anche se può darsi che dissimulino, dietro al passamontagna, il riso causato dalle stragi che le zanzare, con ostinato sadismo, stanno provocando sui forestieri. Tra canti di grilli e cicale, continua a correre il nastro.

I pantaloni del senatore

Secondo i sondaggi televisivi, c'è gente che pensa che il presidente Fox stia facendo più di Marcos per arrivare al dialogo.

E allora, di che ha paura il governo?

Nella vostra marcia al centro del paese potrebbe succedervi qualcosa di simile al 9 febbraio del 1995, quando l'amministrazione zedillista promosse gli ordini d'arresto contro di voi?

Sì. Siamo disposti, noi 24 delegati che partiamo, ad essere arrestati, ammazzati, a tutto ciò che può succedere, però quello a cui non siamo disposti è a continuare a fingere il dialogo.

Adesso, se tutto quello che dicono sul fatto che non dobbiamo partire è vero, allora non hanno da temere nulla, visto che quando passeremo nessuno ci farà caso, tutti staranno a guardare Fox alla televisione e nessuno verrà ad ascoltare ciò che dicono gli zapatisti. Se è vero, arriveremo senza far rumore a Città del Messico, a parlare con due o tre parlamentari, perché gli altri credono a Fox. Se è vero, ci renderemo conto che nessuno ci vuole e che la nostra lotta è inutile. Allora di che cosa hanno paura? La loro paura è perché sanno che non sarà così. Perciò arrivano all'assurdo di discutere se possiamo andare o no con il passamontagna. Voi non l'avete udito perché eravate qui, però Ricardo García Cervantes, presidente della Camera dei Deputati, del PAN, ha finito or ora di dichiarare che lui non si siederà con degli incappucciati, perché non si presterà allo scherzo e alla burla.

Diego Fernández de Cevallos dice qualcosa di simile.

Perché lo dice? Da parte nostra non gli stiamo chiedendo che si tolga i pantaloni per parlare con noi! Dove sta scritto nella legge che non si può stare con il passamontagna? Inoltre, andiamo a Città del Messico per dialogare con i parlamentari e anche se Fernández de Cevallos o García Cervantes non vogliono, ci saranno altri del PAN che ci ascolteranno e anche del PRI, del PRD, del PT e del Verde Ecologista, perché è il loro lavoro.

E le armi?

Non vanno. Lì la legge è molto chiara: senza armi. Ai dialoghi, quelli di noi che sono andati fuori dalla nostra zona, sono andati disarmati. Tutte le volte che andiamo ad un forum, ci andiamo disarmati, come segno che andiamo a dialogare. Quando siamo usciti armati significava che andavamo a combattere: così fu il primo gennaio del '94.

E lo spazio geografico del dialogo di cui parla la legge, si estende fino a dove questo si realizzerà, qualunque sia il luogo?

La legge per il dialogo non stabilisce che questo debba esserci dal tale parallelo al tal l'altro, quindi uscire dal Chiapas non ci fa infrangere la legge. In questo momento c'è un processo di dialogo pendente. Quando sia terminato o si dichiari rotto, potranno arrestarci. Però l'accordo è che chi dichiara rotto il dialogo è la Commissione di Concordia e Pacificazione (del Parlamento), tenendo conto della Commissione Nazionale d'Intermediazione (Conai)... e adesso non c'è più la Conai.

In risposta, tanto alle dichiarazioni degli impresari che del vescovo Onésimo Cepeda, insistiamo a dire che partiamo. Se vogliono arrestarci, che ci arrestino, se vogliono ucciderci, che ci ammazzino, però partiremo.

"Ci difenderemo con le mani"

Avete pensato a come vi difendereste in caso di aggressione?

Ci difenderemo con le mani, perché non portiamo armi. Non abbiamo altro che la gente che vuole stare con noi, la società civile disposta a mobilitarsi e i parlamentari che vogliono accompagnarci per evitare che ciò succeda... speriamo non succeda...

Dà l'impressione che gli zapatisti confidino che la società civile sarà il gran fattore che dirimerà l'impantanamento del dialogo e del processo di pace. Secondo voi la società è matura?

Vediamo una società molto politicizzata e più che informata. Succedono tante cose e adesso i media sono molto aperti... ti rendi conto di molte cose (benché a volte non in modo sicuro, perché ci sono media tendenziosi). Oggi la gente non può più dire: "Non so che cos'è", "non so di che stai parlando". Non c'è più quest'atteggiamento di irresponsabilità e di cinismo, di dire "e che m'importa!". E di lì alla mobilitazione c'è un passo.

È una società più disposta a far valere la sua opinione e tutta l'informazione esistente in un dato momento, come è stato il 2 luglio. Quel giorno i settori sociali hanno detto: "Siamo già informati su ciò che è il regime priista e non lo vogliamo, e qui c'è il nostro voto". E questo "no" poteva essere un "sì" per il PAN o un "sì" per il PRD o un'astensione: un "questo non lo voglio".

Quello che abbiamo cercato di fare noi zapatisti è stato di convincere questa società che l'informazione e la sua opinione potevano servire per ottenere la pace in Chiapas. Come? Ottenendo il riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni, conseguendo di aprire uno spazio di dialogo che porti ad accordi e quindi ad una pace che conduca alla fine di tutto questo, a che non ci siano più armi, né passamontagna né visite di EL UNIVERSAL nella Selva, a sopportare il freddo.

È possibile uno scenario d'indolenza o di noia? Che succederebbe se la gente dicesse: "Lasciateci in pace, stiamo vivendo l'euforia foxista, non vogliamo sentir parlare di conflitti"?

No. L'onda che ha reso possibile il 2 luglio è ancora lontano dallo spegnersi e il principale segnale che la società è inquieta e vuole fare altro ancora è la preoccupazione del fox-équipe. Perché il signor Fox non ha terminato la sua campagna presidenziale il 2 luglio? La continua, perché vuole convincere la gente di questo: "Tu hai già fatto la tua parte! Adesso lascia a me la mia, sono io quello che governa. Tu continua a fare quello che facevi prima, datti una calmata".

Dato che non ottiene che la gente gli faccia caso, persiste in questo affanno contro di noi continuando ad insistere: "Io sono buono, gli zapatisti no". Se la gente fosse già convinta di ciò, perché dovrebbe preoccuparsi per il nostro viaggio? Perché, se gli indici di popolarità di Fox sono così alti, lo preoccupa il fatto che partiamo? Vuol dire che qualcosa non va per il verso giusto. Inoltre, dobbiamo domandarci se si può avere questo atteggiamento e allo stesso tempo un interesse reale alla soluzione del conflitto.

Da parte nostra, non vogliamo che alla fine dicano: "Nella disputa per la popolarità mediatica ha vinto l'EZLN e ha perso Fox", quello che cerchiamo è: "È arrivata la pace". Non scommettiamo con le nostre strategie politiche, ideologiche e mediatiche sul fatto di ottenere o no trionfi di "rating"..., le comunità zapatiste non ci lascerebbero, ci rimprovererebbero: "Una cosa è questa, un'altra ben diversa è quella per cui ci siamo sollevati in armi".

Articoliamo tutte le strategie possibili per ottenere le nostre richieste e se possiamo raggiungerle senza che ci sia distruzione e morte, dobbiamo farlo; saremmo dei dirigenti irresponsabili se non lo facessimo! E' per questo che non vogliamo più la guerra. Però insistiamo con le richieste. Che ci aprano il cammino per ottenerle pacificamente! E lo chiediamo non solo al governo, ma, soprattutto, alla società. Che ci aprano questo cammino e ci daremo da fare. Siamo così disponibili, che corriamo il rischio che i nostri dirigenti possano essere arrestati, che ci mandino un pacco-bomba, che ci becchi un franco tiratore o che ci possa capitare qualsiasi altra cosa orribile.

Siamo disposti a tutto, a patto che avanzi il processo di pace. Se il governo di Fox insiste che il conflitto è sul terreno mediatico, può anche vincerlo, oppure perderlo, e allora? In tutti i casi, non ci sarà pace. Noi, che ci guadagniamo? Quante volte ci hanno dato per morti mediaticamente e quante volte torniamo a galla? Noi zapatisti non vinciamo né perdiamo niente se in un'inchiesta dicono che abbiamo più "rating" o che la gente crede più a noi che a Fox. Insisto, quello di cui abbiamo bisogno è che si arrivi al processo di pace e sarebbe importante che Fox comprendesse ciò, che la disputa non è più mediatica, che non siamo più in campagna elettorale, ma che sta governando un paese e che deve risolvere i problemi e che... uno di questi è questo.

"Come se la volesse a tutti i costi..."

Il "subcomandante Marcos" parla di pace come se si riferisse a un piccolo fiore che gli lesina il suo profumo, come qualcosa che sta alla sua portata ma che gli scappa dalle mani. Attraverso questo ovale del passamontagna, i suoi occhi sprizzano scintille di esasperazione. L'uomo inchioda i gomiti sulla tavola. La sua pipa pare far parte della sua mano sinistra. Riprende di nuovo.

L'enfasi in questa politica mediatica spiega il 'tira e molla' del governo rispetto alle condizioni dell'EZLN per il dialogo?

Da parte nostra, il segnale che diamo è la parola. Non stiamo chiedendo il ritiro di tutto l'Esercito, ma solo di sette postazioni. Non stiamo chiedendo che cada il governo: solo che riconoscano i diritti indigeni. Neppure chiediamo che ci diano una quota di potere, ma che liberino i nostri detenuti. Se ci danno questo ci sediamo un'altra volta. La situazione dei diritti e della cultura indigeni è già a posto se si approva al Parlamento. Seguono democrazia e sviluppo; quindi educazione, donne e il processo di fine negoziato. Così rapido? Sì, molto, se abbandonano la loro politica da 'contaballe'. Il governo ci sta trattando come i pizzicagnoli trattano gli indigeni nelle vecchie pellicole, come se il processo di pace fosse una svendita - la vendita in una chincaglieria (usando l'immagine che tanto piace al signor Fox) - dove se mi chiedi tre, te ne do due o cerco di ingannarti".

Vogliamo che Fox si decida, che ci dica: "Bene, queste sono le condizioni che mi chiedete di rispettare. Eccole qui. E adesso, non chiedete altro". Di fatto, il 2 dicembre del 2000 ha detto che era contento, non ha commentato che le nostre condizioni fossero esagerate...

Quindi uscirete dalla Selva, allora, per cercare di far sì che il Presidente si definisca e che risponda con chiarezza.

Non solo per questo, ma pure sperando che la sua risposta sia positiva; ossia, non ci basta che ci sia il dialogo, ma chiediamo che abbia successo. Se Fox vuole dialogare ed è realmente al comando dell'Esercito, potrà darci i segnali ritirando le sette postazioni. Se ci considera interlocutori, non deve trattarci da delinquenti e le persone detenute perché sono zapatiste devono essere liberate. Se la società messicana, il governo e il Parlamento riconoscono che c'è un dovere collettivo verso i popoli indios, garantiranno che non si ripeta un primo gennaio del 1994, riconoscendo nella Costituzione i diritti e la cultura indigeni.

Quello che ci proponiamo con il viaggio al Distretto Federale è, come prima cosa, un rapporto con la società civile, per dirle che quello che vogliamo è che la guerra finisca e che abbiamo necessità che ci aiuti, perché non possiamo riuscirci da soli.

Il governo non ci darà quello che vogliamo, ma la società deve fare un sforzo, perché mentre salda il suo debito con le comunità indigene, permette che un gruppo armato, clandestino e tutto ciò che è l'EZLN, transiti alla vita civile e alla via pacifica di fare politica. Questo è un segnale importante per il resto dei movimenti armati in Messico e, mi azzarderei a dire, nel mondo.

Quindi, andremo al Parlamento e cercheremo di convincere i parlamentari che l'iniziativa di legge che vogliamo sia approvata non l'abbiamo scritta noi né sono gli Accordi di San Andrés, ma l'hanno fatta i parlamentari di quattro partiti politici (PRI, PAN, PRD e PT) e in nessun modo cerca la secessione di una parte del Messico né un'autonomia assoluta per gli indigeni.

Se riusciamo in tutto questo e se otteniamo queste risposte positive dal governo, ci sediamo a dialogare senza altre condizioni.

L'EZLN concede il beneficio del dubbio a Fox?

No: questo è stato quando presentammo li nostre richieste il 2 dicembre. Allora pensavamo: "Non sappiamo che vuole il signor Fox, perciò gli stiamo facendo questa domanda". Però adesso lui ci sta rispondendo con segnali che significano: "Voglio e non voglio"; "qualche volta lo voglio e qualche volta no" o "qualche volta lo voglio, a seconda se conviene o no alla mia campagna pubblicitaria". E questo è un segnale molto negativo per il dialogo, perché allora dipende da come va la sua campagna nei mezzi di comunicazione, se il dialogo è autentico o solo una simulazione. Fox, insomma, non si decide a risponderci "no", però neanche "sì".


EL UNIVERSAL - 31/1/01

Marcos: dei settori scommettono sulla destabilizzazione

Si promuove uno scenario come quello dell'ex Jugoslavia

Se non c'è dialogo, impererà la forza

Marco Lara Klahr e Mario Cerrillo/Inviati

LA REALIDAD, Chis. - In questo puntino dei vasti territori zapatisti, sei figure si concentrano, come in un rituale, nella parola. Il capo ribelle parla mentre un'invasione di lucciole tappezza la pianura.

Per lui, se non c'è dialogo, "il segnale che si sta mandando al resto della società è che la via del dialogo non dà risultati", che è necessario scontrarsi, che il dialogo e il negoziato non sono necessari e che "quello che serve è la forza e colui che ce l'ha vince..."

Inoltre, considera Marcos, la classe politica "si sta solo domandando chi, quando si firmi la pace, starà dall'altro lato del tavolo, di fronte agli zapatisti, perché colui che sarà lì avrà un capitale politico importante per il 2006..."

"Senza dialogo vincerebbe la forza"

Marco Lara Klahr e Mario Cerrillo/Inviati

LA REALIDAD, Chiapas. Questa notte non ci sono stelle, né freddo, appena un venticello umido. La selva appare schiava di un cielo chiuso. Sopra la tavola attorno alla quale si svolge la chiacchierata, tre candele rimandano con la loro voluttuosa luce qualcosa dell'identità di ciascuno. In questo puntino dei vasti territori zapatisti, sei figure si concentrano, come in un rituale, nella parola. Il "subcomandante Marcos" sgrana il pensiero indigeno mentre un'invasione di lucciole tappezza la pianura.

Per lui, il dialogo tra Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e governo federale va più in là di un aggiustamento che la faccia finita con un conflitto che compie già sette anni. Concretamente, il capo ribelle pensa che "se non c'è dialogo, il segnale che si sta mandando al resto della società è: 'la via del dialogo non dà risultati', ossia, 'vai allo scontro, non dialogare, non negoziare, quello che sì serve è la forza e colui che ce l'ha vince". Questo, dice, collocherebbe il paese in uno scenario simile a quello dell'ex Jugoslavia.

Ed è allo stesso tempo, un pezzo di lungo periodo. Secondo Marcos, ci sono forze che pretendono di capitalizzare un possibile accordo di pace, non per la pace in se stessa né per saldare un annoso debito della società con i popoli indios, ma mirando direttamente al 2006.

"I diversi salteranno"

Come interpretate l'affanno dell'imprenditoria per evitare che i delegati zapatisti viaggino alla capitale?

Il 2 luglio ha aperto uno spazio che è in discussione. Chi comandava non comanda più e colui che si suppone comanderà, non è ancora subentrato. Si sta riaggiustando tutto e un settore, quello degli impresari (che include il clero a loro legato), teme che in questo panorama di riaccomodo la gente occupi spazi e sia più difficile imporle politiche economiche antipopolari. Loro pensano solo in uno Stato che vegli sulla loro sicurezza e sui loro interessi, per la loro prosperità economica, benché questo implichi l'impoverimento dei più.

Gli zapatisti non hanno pensato per ora niente riguardo al programma economico, la delegazione parte con un obiettivo: quello dei diritti e della cultura indigeni. Di che ha paura allora, il settore imprenditoriale? Che si arrivi alla pace e che ciò serva d'esempio ad altri movimenti armati. Che si riconosca che c'è un settore della popolazione, quello degli indigeni, che è differente e vuole far parte del Messico, però senza smettere di essere quello che è.

Con il loro atteggiamento, il settore imprenditoriale ed altri vogliono creare un conflitto di maggior ampiezza, più fondamentalista che zapatista: creano loro destabilizzazione e crisi... Ad ogni modo, opponendosi alle richieste indigene costruiscono, a medio periodo, uno scenario come quello dell'ex Jugoslavia.

Se la società messicana non dà un segnale definitivo che il negoziato è il cammino per risolvere i conflitti, i diversi staranno sempre 'saltando'; non solo gli indigeni, ma anche gli omosessuali, le lesbiche, i giovani, gli studenti, gli insegnanti. Ricordiamo Beirut, che era una scacchiera a quadri. Da ogni parte c'era un gruppo, era una città di nessuno. Lo stesso può succedere nel nostro paese. Ogni punto geografico sarà territorio di qualcuno, non ci sarà né nazione né Stato, nessun'altra legge che quella del più forte.

Su questa linea, che dite voi ai settori duri, a Fernández de Cevallos e Manuel Bartlett, a quelli che sostengono che l'autonomia sarebbe un quarto livello di governo?

Per la classe politica è chiaro che gli zapatisti vanno verso la pace, però è preoccupata per chi si porterà via il capitale politico di firmarla. Lì sta l'autentica disputa! Perché né Fernández de Cevallos né Bartlett vogliono che se lo porti via il presidente Fox. Le dispute all'interno della classe politica, "se con passamontagna", "se usciamo dal Chiapas", "se separatisti", non hanno nulla a che vedere con le richieste indigene né con la legge della Cocopa; si tratta di un problema di protagonismo.

La polemica intorno alla legge l'hanno già persa negli ultimi tre anni di (Ernesto) Zedillo. Fu un'intensa polemica sui mezzi di comunicazione, dove si chiarì che non c'è scissione del paese, che la legge non propone uno Stato dentro lo Stato e che non si tratta di un quarto livello di governo.

E in quanto al tema degli usi e costumi, si sta proponendo che siano omologati; vale a dire, incorporati al corpus penale, legislativo, giudiziario referente ai modi specifici di impartire la giustizia.

Però alla classe politica non interessa né preoccupa niente di tutto questo. Si sta solo domandando chi, nel momento in cui si firmi la pace, sarà seduto a quel tavolo, di fronte agli zapatisti, perché colui che sarà lì avrà un capitale politico importante da far fruttare nel 2006. Non stanno pensando come parlamentari, perché se lo facessero, direbbero: "Questa legge non è anticostituzionale, è giusta e sta rimediando a un'ingiustizia storica, oltre al fatto che garantisce la pace con un movimento armato".

Fernández de Cevallos non sta con Fox, sta già competendo con lui per il 2006 e se vede che riesce a dargliele dal lato degli zapatisti, lo farà, per rovinargli la piazza. Quando si sono firmati gli Accordi di San Andrés, che è stato fatto da parte del governo da (Marco Antonio) Bernal che da quel momento ha iniziato la sua disfatta; hanno iniziato a dargli addosso. Prima, quando Camacho ha cominciato ad avere successo nei dialoghi con noi, gli dettero addosso e precipitò. Al momento in cui Fox abbia successo (se per caso gli capitasse) lo vanno a battere, lo stesso vale per il Parlamento.

Prevedete, come zapatisti, la possibilità di una guerra aperta contro il governo, nel caso che non passi l'iniziativa di legge su diritti e cultura indigeni?

Siamo preparati per una guerra di resistenza; se ci attaccano siamo in grado di resistere, di non sparire, perché non siamo annientabili in termini militari, allo stesso modo che l'Esercito federale non è sconfiggibile in termini militari. Di fatto, abbiamo pensato che, da tempo, questa guerra ha smesso di essere un problema risolvibile per questa via: si deve risolvere in modo politico.

Abbiamo anche pensato che la soluzione del conflitto seguirà il modello del dialogo di San Andrés. Nessuno del governo se ne vuole ricordare, però in San Andrés non si è imposto quello che volevamo noi, né quello che voleva il governo, ma è passato quello che si è costruito con il dialogo: questa è la verità. Se adesso si arriva ad un processo di negoziato, la pace verrà costruita dalle due parti e in questo senso per noi non ci sarà né un vincitore né un perdente, né in termini militari né politici: anche se sempre è facile riconoscerlo, sapremo che nella pace ha avuto un ruolo anche l'altro.

"Tapparci perché ci vedano"

In altri tempi, i tarahumara o gli apache lottarono, combatterono per i loro diritti, concordarono la pace e consegnarono le armi, però sul lungo periodo finirono in un angolo.

È che noi zapatisti non solo abbiamo costruito un esercito, abbiamo costruito una forma di vita e di resistenza. Da sette anni, dal 12 gennaio del 1994 non usiamo le armi e siamo riusciti a resistere. A parte l'esercito, noi popoli zapatisti abbiamo costruito una forma di organizzazione sociale che ha a che vedere sia con esperienze ancestrali che con il contatto con la società.

In questo senso, l'EZLN è poco militare e molto organizzativo dentro le comunità. Perché? Perché dall'inizio proponemmo un processo di pace, perché ci stavano facendo fuori senza neanche vederci e non perché arrivassero soldati nelle comunità, ma perché ci stavano ammazzando di fame. Non volevamo fare un altro paese, ma essere messicani, conservando le nostre differenze e così abbiamo pensato: "Abbiamo bisogno di alzarci in armi perché si voltino a guardarci, perché ci ascoltino".

Nel 1995, il "subcomandante Marcos" scrisse nel libro "Io, Marcos" che il passamontagna era una forma per non individualizzare la lotta. Di fronte al suo viaggio al DF, è ancora vigente questa idea?

La nostra presenza là è per segnalare il paradosso di questo paese: non si è voltato a vedere i popoli indigeni fino a che non si sono tappati il volto e non li ha ascoltati fino a che non si sono alzati in armi, ossia li hanno sentiti solo quando hanno smesso di parlare e hanno iniziato a lottare. Oggi, se continuano a voltarsi a guardarci solo perché abbiamo i volti nascosti e se ci scopriamo non ci guardano più, significa che la storia continua uguale, che il primo gennaio del 1994 è stato inutile e questo è quello che non permetteremo.

"Tacho" deputato

Pensando che si raggiunga la pace, come si trasformerebbe l'EZLN? come creare un'alternativa politica consolidando lo spazio che voi avete costruito? Sappiamo che ci stanno cercando i "head hunters" - risponde il capo insurgente e una risata in coro rompe l'armonia della selva.

Le hanno già chiesto il suo curriculum?

No, però se mi proponessero "una segreteria di stato", credo che andrebbe bene - risponde nuovamente tra le risate.

Vi trasformerete in un partito politico?

No. Né aspiriamo a incarichi di elezione popolare, per una semplice ragione: abbiamo già detto di no; ossia, da subito ci legheremmo le mani.

"Tacho", ti piacerebbe essere deputato?

No, no, che orrore! - risponde il "comandante Tacho" dalla profondità del suo passamontagna nero. Tutto il mondo ride.

Quali sono allora i cammini?

Abbiamo pensato che è possibile costruire un altro modo di fare politica e, pertanto, un altro modo di organizzarsi. Potremmo costruire un raggruppamento politico che si decida ad organizzare i cittadini senza preoccuparsi della presa del potere. È qualcosa di difficile da capire per molta gente... si tratta di sovvertire il rapporto col potere, la relazione tra governante e governato, di ottenere che la società si organizzi e faccia sì che il governante comandi obbedendo: così si inverte il rapporto di potere. È qualcosa di più che la democrazia elettorale. Si suppone che hai potere decisionale, che ciò che dice la Costituzione è vero: dice che la tua parola deve essere tenuta in conto e invece la stanno ignorando. Se possiamo organizzare la società proprio in questo modo, inizierà a funzionare meglio... Sarebbe la costruzione di una cittadinanza reale.

In tutti i sensi, si tratta di questo e non di qualcosa di altruista.

L'EZLN è l'unica opzione vitale che resta alla sinistra?

Proprio no, qui siamo più modesti. Possiamo rivitalizzarla, però ci sono molti spazi della sinistra che non potremmo riempire. Per non andare molto lontano, quelli della sinistra elettorale: dato che non ci presentiamo come partito politico, non potremmo mai essere un'opzione elettorale di sinistra.

La nostra forza sta fondamentalmente nel terreno indigeno e qualche volta un po' in quello culturale, perché lo zapatismo è stato anche un movimento culturale. Però nell'attivismo operaio, contadino, studentesco o degli insegnanti non siamo un'opzione: ci sono altri movimenti di sinistra. Quello che sì potremmo arrivare a fare, se abbiamo fortuna, è riuscire a rivitalizzare quelle forze di sinistra che stanno ognuna per conto proprio, in modo che tornino a prendere auge.

E il futuro del "subcomandante Marcos", cioè del simbolo che è?

Prima dobbiamo terminare quello che abbiamo iniziato e ci riusciremo. Dopo, si aprirà un nuovo spazio dove dovremo ridefinire ognuno il nostro spazio. "Marcos" è, tra le altre cose, parte di una struttura militare. Che succederà di lui se sparisce questa struttura? È qualcosa che si definirà più avanti. Se una organizzazione per fare la guerra arriva alla pace, si trasforma e lo spazio di ognuno deve essere ripensato.

Se c'è pace sparisce "Marcos" e basta, oppure ci sarebbe continuità con la persona che sta dietro il passamontagna?

Certo che finisco. Il simbolo di una lotta termina con la lotta. Rimarrà per la storia. Si dirà: "C'era uno che si chiamava 'Marcos'". Per la verità, alla gente non interessa chi sia.

Inoltre, ciò che dà forza al personaggio sparirebbe. Onestamente, "Marcos" non sarebbe "Marcos" senza le comunità e senza l'EZLN. In concreto, nessuno mi leggerebbe se non fosse per ciò. Io potrei dire: "Io sono stato il 'subcomandante Marcos'". "Certo che sì, lo f - o - s - t - i, ragazzo, però adesso non lo sei più, perché non c'è più ciò che ti ha reso il 'subcomandante Marcos'". E allora, dove posso 'saltare' se "Marcos" sparisce?

Continueremo la lotta politica in altri modi; continueremo a disturbare, se ci lasceranno, senza passamontagna né armi. Questo... non vedo un futuro per la mia carriera letteraria, per la mia mancanza di pratica nel mestiere e di pazienza; però lì dove si possa e ci siano dei compagni, lì saremo, organizzando gente, parlando...


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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