LE MONDE diplomatique - Marzo 2001

- edizione italiana a cura de il manifesto -

La marcia di Marcos

dal nostro inviato speciale IGNACIO RAMONET

Per la prima volta, il subcomandante Marcos, leader dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) è uscito dalla clandestinità.

Il 24 febbraio scorso ha infatti lasciato, con il suo passamontagna sul volto, la Selva Lacandona del Chiapas per una marcia pacifica verso Città del Messico, dove è giunto l'11 marzo, dopo aver percorso più di 3.000 chilometri, attraversato 12 stati tra i più poveri del paese, e partecipato, tra il 1° e il 4 marzo, al Congresso nazionale indigeno di Nurio, nello stato di Michoacan.

Accompagnato da altri 23 comandanti dell'Ezln e scortato da varie personalità amiche venute dal mondo intero (tra cui il Premio Nobel José Saramago, il cineasta Oliver Stone, il sindacalista José Bové, lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, Danielle Mitterrand, ecc.), il subcomandante è entrato trionfalmente a Città del Messico dopo aver seguito, in maniera simbolica, lo stesso itinerario che aveva percorso, nella rivoluzione messicana del 1911, il celebre leader ribelle Emiliano Zapata. Qualche giorno prima di cominciare la sua marcia, Marcos ci ha ricevuto, insieme al comandante Tacho e al maggiore Moisés, a La Realidad, un piccolo villaggio (450 abitanti) mille chilometri a sud della capitale, aggrappato sul fianco piovoso di una montagna ricoperta di uno spesso manto di giungla, nei pressi del suo quartier generale segreto.

Con il volto coperto dall'immancabile passamontagna, un auricolare di telefono satellitare, un berretto logoro in testa dal colore indefinibile, e la vecchia mitraglietta sulla schiena, il subcomandante ci ha spiegato il perché della marcia zapatista su Città del Messico: "Questa non è la marcia di Marcos, né quella dell'Ezln, è la marcia di tutte le popolazioni indigene. Vuole mostrare che è finita l'epoca della paura. Il nostro obiettivo principale è che i popoli indigeni siano riconosciuti dal Congresso messicano come un soggetto giuridico collettivo. La Costituzione messicana non riconosce gli indios. Vogliamo che lo stato riconosca che il Messico è costituito da diversi popoli. Che questi popoli indigeni abbiano una propria organizzazione politica, sociale ed economica. E che stabiliscano una relazione forte con la terra, con la loro comunità, le loro radici e la loro storia.

"Non domandiamo un'autonomia esclusiva. Non rivendichiamo nessun tipo di indipendenza. Non vogliamo proclamare la nascita della nazione maya, o frammentare il paese in innumerevoli piccoli stati indigeni. Vogliamo solo che vengano riconosciuti i diritti di una parte importante della società messicana, che ha già le proprie forme di organizzazione e chiede solo che esse siano legittimate.

"Il nostro obiettivo è la pace. Una pace fondata su un dialogo che non sia un simulacro. Un dialogo che getti le basi per la ricostruzione del Chiapas e favorisca il reinserimento dell'Ezln nella vita politica ordinaria. Si può fare la pace solo se verrà riconosciuta l'autonomia dei popoli indigeni. Questo riconoscimento è una condizione importante perché l'Ezln deponga definitivamente le armi e esca dalla clandestinità, partecipi apertamente alla vita politica e possa anche dedicarsi alla lotta contro i perniciosi progetti della globalizzazione".

Dopo nove mesi di silenzio, l'annuncio di questa marcia in un comunicato di Marcos, il 2 dicembre scorso, all'indomani dell'entrata in carica del nuovo presidente messicano, ha avuto l'effetto di una bomba.

Tutta la classe politica è stata colta alla sprovvista da questa iniziativa audace, sopraggiunta in un momento assai particolare.

Il 2 luglio scorso, infatti, il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri), al potere da 70 anni, è stato sconfitto alle elezioni presidenziali da Vicente Fox, candidato del Partito d'azione nazionale (Pan), di destra. Contrariamente a quanto era avvenuto nelle elezioni dei due presidenti precedenti - Carlos Salinas (1988-1994) e Ernesto Zedillo (1994-2000) - su cui pesavano pesanti sospetti di brogli e corruzione, la vittoria di Vicente Fox è stata universalmente riconosciuta come espressione genuina della volontà popolare. Fox, entrato in carica il 1° dicembre 2000, è il primo presidente da lungo tempo che sembra poter godere di una legittimità incontestabile.

Lo stesso Marcos lo ha riconosciuto in una lettera aperta al nuovo presidente: "Signor Fox, a differenza del suo predecessore Zedillo (arrivato al potere per via criminale e con il sostegno di quel mostro di corruzione che è il sistema del partito-stato), lei giunge alla guida dell'esecutivo federale grazie al sentimento di rifiuto che il Pri ha saputo coltivarsi con cura tra la popolazione. Lei ha vinto le elezioni ma - come sa bene - non è stato lei a sconfiggere il Pri. Sono stati i cittadini. E non solo quelli che hanno votato contro il partito-stato, ma anche le generazioni precedenti e attuali che, in un modo o nell'altro, hanno resistito e combattuto la cultura dell'autoritarismo, dell'impunità e del crimine che i governi del Pri hanno costruito per 71 anni (1)".

Durante la campagna elettorale, Vicente Fox aveva promesso che avrebbe pacificamente risolto il problema zapatista, per via politica, "in un quarto d'ora". La marcia del subcomandante Marcos lo ha colto nel pieno del periodo di "grazia" e lo ha costretto ad affrontare, a caldo, la spinosa questione indigena.

"L'idea della marcia è stata un colpo di genio - ci dice lo scrittore Carlos Monsivais, che si è intrattenuto anche lui a lungo con Marcos (2) -, il potere è costretto ad adeguarsi ad un calendario di negoziati fissato da Marcos, che riprende così in mano la situazione. E Fox è costretto ad accettarlo, non solo a causa delle pressioni nazionali e internazionali, ma perché sa bene che Marcos, venendo a Città del Messico per discutere con le nuove autorità, ne riconosce la legittimità, mentre non riconosceva la legittimità né di Salinas né di Zedillo, considerati dagli zapatisti, e da gran parte dei messicani, degli impostori, dei truffatori, degli usurpatori".

"Dopo tutto - aggiunge l'antropologo André Aubry, responsabile degli archivi diocesani di San Cristóbal de Las Casas e vicino all'ex vescovo Samuel Ruiz - Marcos non chiede la luna. Con questa marcia, costringe il nuovo presidente Fox a dire che tipo di nazione messicana vuole costruire. Marcos vuole semplicemente che gli indigeni facciano parte di questa nazione". Mostrando indubbie doti di giocatore, il presidente Vicente Fox, una volta passato l'effetto sorpresa, si è mostrato favorevole al progetto di marcia zapatista. Dopo aver calmato i più esaltati del suo stesso partito che, come il governatore dello stato di Querétaro, avevano accusato i comandanti zapatisti di "tradimento", e li avevano minacciati di morte, Fox ha infine affermato che la marcia costituiva "una speranza per il Messico". D'altronde, poteva forse essere da meno del suo omologo colombiano Andrés Pastrana che, l'8 febbraio scorso, è andato nella zona controllata dalla principale formazione di guerriglia per incontrare di persona il mitico capo ribelle Manuel Marulanda "Tirofijo"? Per tranquillizzare eventuali investitori inquieti, Fox ha poi dichiarato, il 26 gennaio scorso, a Davos: "Non c'è nulla da temere dalla marcia dell'Ezln su Città del Messico. Non dobbiamo avere paura di inserire tutti i messicani in un progetto in cui ognuno deve trovare le condizioni per il proprio sviluppo. La marcia sarà pacifica e alla fine dovremo concludere un accordo di pace in Chiapas (3)".

In seguito, il presidente Fox si è addirittura trasformato in vero e proprio propagandista della marcia: "Il mio governo è a favore della marcia. Dobbiamo dare fiducia all'Ezln e fornirgli l'occasione di dimostrare che veramente vuole la pace. È in gioco la nostra democrazia nascente, dobbiamo dimostrare che essa è abbastanza elastica per assorbire diversi pensieri, anche i più radicali (4)". Fox non ha poi esitato, riprendendo le argomentazioni degli zapatisti, a ricordare le scandalose condizioni di vita degli indigeni: "Cinque secoli di infamia sono abbastanza! Bisogna smetterla di ignorare gli indigeni e mostrarsi capaci di integrare i poveri e le popolazioni emarginate! Gli indios del Messico sono stati sottoposti ad umiliazioni razziste, a politiche pubbliche e private che hanno portato alla loro esclusione e al loro allontanamento dal sistema educativo e dallo sviluppo e che hanno impedito loro di esprimersi come cittadini liberi con diritti propri (5)".

"Un debito vecchio di due secoli" Lo zelo di Fox in favore della marcia ha finito per infastidire il subcomandante Marcos: "Il presidente cerca ora di appropriarsi della marcia zapatista; potrebbe addirittura arrivare a presentarla come una marcia foxista. Questa strategia mira a fare pressioni sull'Ezln cercando di diffondere la convinzione che la pace è ormai un dato acquisito e che, se non dovesse essere firmata, sarebbe solo colpa degli zapatisti. È una specie di ricatto, con cui Fox mira alla resa incondizionata dell'Ezln. Mentre sa perfettamente che noi chiediamo, prima di iniziare i veri e propri negoziati, tre piccoli segni di buona volontà da parte sua: la liberazione di tutti i detenuti zapatisti, il ritiro dell'esercito da sette postazioni militari e la ratifica degli accordi di San Andrés sui diritti degli indigeni, firmati dal governo nel 1996, e rimasti da allora lettera morta".

Al momento in cui è cominciata la marcia, il 24 febbraio, le autorità avevano liberato solo sessanta dei circa cento detenuti zapatisti, e le forze armate si erano ritirate solo da quattro delle sette postazioni reclamate da Marcos. Infine, gli accordi di San Andrés non erano stati ratificati. "Se Fox non può soddisfare le tre condizioni richieste dagli zapatisti - spiega André Aubry - , vuol dire allora che non è lui a detenere il potere, che non comanda, che non è il leader e che in realtà deve sottostare al volere dell'esercito. Dopo tutto, la tradizione messicana, fin dal 1920, risolve ogni controversia con mezzi militari. È quello che hanno cercato di fare, prima di lui, i presidenti Salinas e Zedillo con gli zapatisti. Hanno fallito.

Se Fox non vuole a sua volta fallire e vuole veramente la pace, come non smette di ripetere in ogni occasione, deve dimostrare che è lui il presidente, che è lui a comandare l'esercito e che pertanto, come segno di buona volontà, accetta le tre condizioni degli zapatisti. Questi ultimi, dal canto loro, dimostrano la loro volontà di pace uscendo dalla clandestinità e andando disarmati a Città del Messico.

Marcos ha detto che il presidente aveva tempo fino all'11 marzo e alla fine della marcia per accettare le tre condizioni. Viste le poste in gioco, il presidente dovrebbe fare uno sforzo. In gioco vi sono le condizioni degli indios, nei confronti dei quali il Messico ha un debito immenso".

Le popolazioni indigene, in effetti, sono state, negli ultimi 500 anni, parzialmente sterminate, cacciate, sfruttate, umiliate, e hanno vissuto un'esistenza miserabile. Proprio le sofferenze di questi indios del Chiapas, sottoposti all'oppressione brutale dei conquistadores, sono state evocate dal celebre domenicano Bartolomé de Las Casas, vescovo di San Cristóbal, nel libro Breve relazione della distruzione delle Indie (1522). Una testimonianza schiacciante che ci permette di immaginare cosa fu, per gli indios, l'incubo della conquista.

Dopo l'indipendenza del Messico nel 1810, e anche dopo la Rivoluzione del 1911, che pure fu scandita dal grido "Terra e libertà!", le condizioni di vita degli indios non sono migliorate. L'emarginazione, lo sfruttamento, il disprezzo sono continuati, così come è continuato il loro lento sterminio effettuato ormai dai latifondisti proprietari di campi di caffè e cacao, con l'ausilio di bande di sicari e di milizie paramilitari. La Costituzione, in effetti, ancora non riconosce l'esistenza dei gruppi indigeni (10% della popolazione). Con il pretesto che la maggioranza è meticcia, il Messico esalta ufficialmente la figura del meticcio, ma ignora, se non disprezza, i suoi indios.

"Di tutti gli abitanti del Messico - spiega il subcomandante Marcos - gli indios sono quelli più abbandonati a se stessi. Sono considerati cittadini di seconda classe, quasi un imbarazzo per il paese. Ma noi non siamo dei rifiuti. Siamo uno di quei popoli con una storia e una tradizione millenarie. Popoli che, per quanto oppressi e dimenticati, non sono ancora morti. Aspiriamo a diventare cittadini come gli altri, vogliamo far parte del Messico senza perdere la nostra specificità, senza rinunciare alla nostra cultura. Insomma, senza smettere di essere indios. Il Messico ha un debito nei nostri confronti. Un debito vecchio di due secoli, che potrà saldare solo riconoscendo i nostri diritti".

Gli indios continuano ad essere vittime di una specie di etnocidio silenzioso. Dimenticati da tutti, "invisibili", sono condannati ad assistere all'inesorabile estinzione della loro lingua e dei loro valori ultramillenari. È contro una simile fatalità che l'Ezln e il subcomandante Marcos si sono ribellati.

Radicati tra le verdeggianti montagne del Chiapas e le foreste umide dell'estremo sud messicano, vicino alla frontiera col Guatemala, gli zapatisti denunciano da sette anni le drammatiche condizioni in cui versano le comunità indigene. "Essere indio, in Messico, non vuol dire solo avere un certo aspetto fisico - ci spiega lo scrittore e saggista Carlos Montemayor, autore di un libro indispensabile per capire le cause della rivolta zapatista (6) - ma vuol dire anche parlare una lingua indigena, occupare un territorio ancestrale, svolgere rituali tradizionali e aderire ai valori millenari della comunità d'appartenenza. In Chiapas, un terzo della popolazione, ossia più di un milione di persone, è costituito da indigeni... Ad eccezione degli zoques, imparentati con i popolucas e i mixes, la maggior parte dei gruppi indigeni appartengono al ceppo maya del Messico: tzotzil, tzeltal, chol, tojolabal, lacandoni, mami, mochi, kakchikel, per un totale di dodici gruppi linguistici. Ma le consistenti migrazioni avvenute di recente hanno profondamente modificato la composizione sociale, ideologica e politica delle varie sub-regioni della cosiddetta Selva Lacandona, che costituisce la principale base sociale dell'Ezln. Possiamo dire che almeno 200mila indigeni di diverse etnie, in Chiapas, appoggiano in un modo o nell'altro l'Ezln".

Stato ricchissimo, il Chiapas possiede i più importanti giacimenti di petrolio e le maggiori riserve di gas del Messico, e fornisce al paese il 40% della sua energia idroelettrica; il che consente al Messico di esportare negli Stati Uniti quell'elettricità venuta clamorosamente a mancare in California nel dicembre scorso... "Nonostante le sue enormi ricchezze - constata il sociologo Herman Bellinghausen, uno dei maggiori esperti dell'insurrezione zapatista - in Chiapas un terzo dei bambini non riceve istruzione e solo uno studente su cento riesce ad iscriversi all'università. Tra gli indigeni, l'analfabetismo supera il 50% e il loro tasso di mortalità è superiore del 40% a quello degli abitanti della capitale..." Per protestare contro questo stato di cose ed attirare, in modo drammatico, l'attenzione della comunità internazionale sul destino di questi gruppi - tra i più disagiati del mondo - il sub-comandante Marcos e l'Ezln sono quindi insorti il 1° gennaio 1994. Dopo una serie di combattimenti con decine di morti, gli zapatisti hanno occupato quel giorno quattro importanti città del Chiapas, fra cui San Cristóbal de Las Casas (50mila abitanti).

"Ma allo stesso tempo, ed è la grande peculiarità di questo movimento - commenta Herman Bellinghausen -, Marcos capisce che non è più l'epoca dei movimenti di guerriglia tradizionali che hanno attraversato l'America latina per tutta la seconda metà del XX secolo. Che la fine della guerra fredda, la caduta del muro di Berlino nel 1989, la scomparsa dell'Unione sovietica nel 1991 e l'offensiva della globalizzazione hanno radicalmente mutato la situazione geo-politica e stravolto le strutture di potere. Che il destino degli stati non è più determinato dai politici, ma da altre forze, fra cui soprattutto: i mercati finanziari e le logiche di libero scambio, di cui è espressione l'Accordo nord-americano di libero scambio." Per questo gli zapatisti hanno scelto la data del 1° gennaio 1994, giorno in cui entrava in vigore l'Accordo nord-americano di libero scambio (Nafta) tra Messico, Stati Uniti e Canada, per irrompere sulla scena politica messicana. Prendendo le armi in difesa degli indios, Marcos quel giorno ha anche sancito, in qualche modo, la prima rivolta simbolica contro la globalizzazione. Bisognerà aspettare la mobilitazione internazionale contro l'Accordo multilaterale sugli investimenti (Ami) nel 1998, le manifestazioni di Seattle contro il vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 1999 e quelle di Davos contro i "padroni del mondo" nel 2000, per veder diffondersi le rivolte contro la globalizzazione. Marcos è il primo ad aver cercato di teorizzare l'articolazione tra le logiche della globalizzazione e l'emarginazione dei poveri del Sud del mondo.

"Dopo la caduta del muro di Berlino - analizza Marcos - è comparso e si è sviluppato un nuovo super-potere, sotto la spinta delle politiche neo-liberiste. I grandi vincitori della guerra fredda - che possiamo definire la terza guerra mondiale - sono gli Stati Uniti. Ma, dietro questa potenza egemonica comincia a comparire quello che potremmo definire un super-potere finanziario, che comincia a dare direttive a tutti. Il che produce ciò che, a grandi tratti, chiamiamo globalizzazione.

L'ideale della globalizzazione è un mondo trasformato in una grande azienda e amministrato da un consiglio di amministrazione costituito dal Fmi, la Banca mondiale, l'Ocse, l'Omc e il presidente degli Stati Uniti. In un tale contesto, i governanti di ogni stato non sono altro che i rappresentanti di questo consiglio di amministrazione, dei delegati locali. Quello che voi di Le Monde diplomatique avete definito - in modo pregnante - "pensiero unico" serve a fornire il collante ideologico per convincere il mondo intero che la globalizzazione è ineluttabile e che ogni altro tipo di protesta sarebbe chimerica, utopistica, irrealistica. Su scala mondiale, la grande lotta che si combatte attualmente - che potremmo definire Quarta guerra mondiale - vede fronteggiarsi i sostenitori della globalizzazione e tutti coloro che, in un modo o nell'altro, cercano di osteggiarla. Tutto ciò che impedisce la diffusione della globalizzazione è minacciato ormai di distruzione".

Che rapporto ha tutto ciò con la drammatica situazione degli indigeni?

"Nella sua furia egemonica - continua Marcos - la globalizzazione rivolge la sua attenzione agli elementi culturali, aspira ad omologare culturalmente il mondo. In una certa misura, globalizzazione economica significa globalizzazione dello stile di vita degli Stati Uniti.

I valori del mercato si impongono ovunque. Ormai determinano non solo il funzionamento dei governi ma anche quello dei media, della scuola e persino della famiglia. L'individuo ha un proprio ruolo nella società solo nella misura in cui produce e consuma. I criteri del mercato eliminano quindi tutta quella fetta dell'umanità che non è produttiva. Questo riguarda tutti gli indigeni dell'America latina. La globalizzazione esige la loro eliminazione: mediante una guerra aperta o una guerra silenziosa, a seconda delle situazioni.

Il pretesto addotto è che gli indios non sono utili alla sua dinamica, che non possono aderirvi e che potrebbero anche finire per costituire un grave problema a causa del loro potenziale di ribellione".

Nel condurre la sua concreta lotta tra le comunità indigene del Chiapas, Marcos analizza la propria pratica di combattimento ricollocandola nel quadro geopolitico internazionale e nel contesto della globalizzazione in corso... (7)È una sorta di idealista pratico, uno stratega mediatico che si serve di Internet come di un'arma, inondando il pianeta di comunicati, testi, analisi, racconti, parabole e poesie. Stringe relazioni solidali con centinaia di associazioni civiche e decine di personaggi impegnati nella tutela dei diritti delle minoranze.

La sua strategia di impatto mediatico si rivela in definitiva più originale ed efficace di quella dello stato messicano. Il 12 gennaio 1994, cioè appena undici giorni dopo l'inizio dell'insurrezione, Marcos decide di abbandonare l'opzione armata. Gli zapatisti non spareranno più neanche un colpo e, da allora, adotteranno una strategia di non violenza per portare dalla propria parte, con la mente e col cuore, un'opinione pubblica internazionale che è sempre più convinta che quella della tutela degli indios è una causa "sacra".

A volto scoperto "Noi indigeni messicani - ha ricordato il sub-comandante Marcos al momento di iniziare la marcia a San Cristóbal de Las Casas, il 25 febbraio scorso, servendosi del suo linguaggio così particolare, in cui si intrecciano poesia e politica, messaggi e metafore, - siamo indigeni e siamo messicani. Vogliamo essere indigeni e vogliamo essere messicani. Però il signore dalla lunga lingua e dallo scarso udito, colui che governa, ci offre menzogne invece della bandiera.

La nostra è la marcia della dignità indigena. La marcia di noi che siamo del colore della terra e la marcia di tutti quelli che sono di tutti i colori del cuore della terra. Sette anni fa la dignità indigena chiese a questa bandiera di avere un posto dentro di lei.

E noi, che siamo del colore della terra, l'abbiamo reclamato allora con il fuoco. Con menzogne e fuoco rispose lo dzul, il potente, colui che possiede il denaro il cui odore appesta il colore della terra.

È allora che abbiamo visto altre voci ed ascoltato altri colori.

Oggi camminiamo perché questa bandiera messicana accetti d'essere nostra e invece ci offrono il drappo del dolore e della miseria.

Oggi camminiamo per un buon governo e ci offrono la discordia. Oggi camminiamo per la giustizia e ci offrono elemosina. Oggi camminiamo per la libertà e ci offrono la schiavitù dei debiti. Oggi camminiamo per la fine della morte e ci offrono una pace di menzogne assordanti.

Come i nostri antenati resistettero alle guerre di conquista e di sterminio, noi abbiamo resistito alle guerre dell'oblio. La nostra resistenza non è terminata, però non è più sola. Ci accompagnano ora i cuori di milioni, nel Messico e nei cinque continenti. Noi marciamo insieme con lo stesso passo. Con loro andremo alla capitale della nazione che sulle nostre spalle si innalza e ci disprezza. Con loro andremo. Con loro e con questa bandiera messicana".

Capo carismatico e promotore di un nuovo stile di azione politica, per nulla arrogante e supponente, Marcos ha mostrato anche di essere uno scrittore di talento, dotato di grande spirito e ironia, con continue citazioni dei suoi autori preferiti che, come Gramsci, si caratterizzano per il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà: Cervantes, Lewis Carroll, Bertolt Brecht, Julio Cortazar, Borges...

Si capisce bene perché, con la sua marcia verso Città del Messico, Marcos non va alla ricerca del potere. "Il problema non è ottenere il potere - afferma sorridendo - sappiamo che le stanze del potere sono ormai vuote. E che la lotta per il potere è una lotta per la menzogna. Quello che dobbiamo fare, nell'era della globalizzazione, è costruire un nuovo rapporto tra il potere e i cittadini. Se verrà firmata la pace, l'Ezln smetterà di fare politica come ha fatto fino ad ora. Farà politica in modo diverso, senza passamontagna, senz'armi, ma al servizio delle stesse idee. Perché abbiamo capito che siamo una specie di specchio e che riflettiamo, a modo nostro, altri movimenti di resistenza nel mondo. Ecco perché ci sentiamo solidali con altre lotte. Quelle, ad esempio, degli omosessuali e delle lesbiche, vittime di discriminazioni e persecuzioni di ogni sorta. O quelle degli immigrati, contro i quali un po' ovunque si innalzano barriere razziste. Si vuole che la gente rinneghi le proprie particolarità, il colore della propria pelle, la propria origine o il paese natale. Si vuole far sentire alla gente che essere nati così, in questo luogo e con questo colore, è un crimine. E che devono perciò essere puniti".

Quando si toglierà il passamontagna?

"Il giorno - aveva risposto nel 1996 a Régis Debray, che gli aveva rivolto la stessa domanda (8) - in cui un indigeno potrà godere degli stessi diritti di un bianco in qualsiasi parte della Repubblica; il giorno in cui il sistema del partito-stato sarà finito e le elezioni non saranno più sinonimo di brogli". La seconda condizione, per quanto incredibile possa sembrare, è stata soddisfatta, e la prima, se la marcia ha successo e Fox mantiene le promesse date, dovrebbe esserlo presto.

Gli pongo quindi di nuovo la domanda mentre scende la pioggia e cala lentamente la sera, e La Realidad, ancora priva di elettricità, si copre di ombre. "Quel che è certo - risponde Marcos - è che vogliamo sbarazzarci al più presto del passamontagna e delle armi. Perché vogliamo fare politica a volto scoperto. Ma non toglieremo il passamontagna in cambio di semplici promesse. I diritti degli indigeni devono essere riconosciuti. Se il potere non lo farà, non solo noi riprenderemo le armi, ma lo faranno anche altri movimenti, ben più radicali, intolleranti, disperati e violenti di noi. Perché la questione etnica, qui come altrove, può dar vita a movimenti fondamentalisti capaci di compiere ogni tipo di follia omicida.

"In compenso, se tutto va come speriamo e i diritti degli indios saranno finalmente riconosciuti, Marcos smetterà di essere il subcomandante, o il leader, o il mito. Si capirà allora che la principale arma dell'Ezln non è stato il fucile, ma la lingua, la parola. E quando la polvere sollevata dalla nostra rivolta si poserà, la gente scoprirà una verità fondamentale: in tutta questa lotta, questa resistenza e questa riflessione, Marcos non è stato altro che un combattente in più. Ecco perché dico sempre: se vuoi sapere chi è Marcos, chi si nasconde dietro il passamontagna, prendi uno specchio e guardati: il viso che si riflette è quello di Marcos. Perché siamo tutti Marcos".

Sulla Realidad è calata la notte. Galassie di lucciole scintillano nel buio. Assillati dall'organizzazione della marcia, Marcos e i suoi due compagni zapatisti si perdono nella selva, rapidamente inghiottiti dalla vegetazione, dalla pioggia e dalle ombre. Dal successo di questa marcia dipende in larga misura il destino delle popolazioni indigene del Messico.

Ma sarà davvero un successo? Ci giunge, a dissipare i dubbi e rilanciare l'ottimismo generale, una frase dello scrittore José Saramago: "Gli zapatisti si sono coperti il viso per essere visibili e, in effetti, alla fine li abbiamo visti. Ora stanno marciando sulla capitale del Messico. Quando la raggiungeranno, Città del Messico sarà la capitale del mondo".

note:

(1) Il testo integrale in italiano della lettera indirizzata dal subcomandante Marcos al neo presidente Vicente Fox il 16 dicembre 2000 si può leggere sul sito www.yabasta.it/comunicati/letterafox.htm

(2) La Jornada, Città del Messico, 8 gennaio 2001

(3) Proceso, Città del Messico, 4 febbraio 2001

(4) Excelsior, Città del Messico, 18 febbraio 2001

(5) La Jornada, 15 febbraio 2001

(6) Carlos Montemayor, Chiapas: la rivoluzione indigena, Marco Tropea Editore, 1999

(7) Si legga in particolare, sub-comandante Marcos, Desde las montañas del Sureste mexicano, Plaza y Janés, Città del Messico, 1999

(8) Régis Debray, "La guérrilla autrement", Le Monde, 14 maggio 1996

(Traduzione di S.L.)


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