Il manifesto 28 febbraio

A volto scoperto

Incontro, prima della marcia verso Città del Messico, con Marcos

"Il problema non è conquistare il potere, luogo ormai vuoto, ma la costruzione di un rapporto nuovo tra potere e cittadini"

"Se la pace sarà firmata deporremo le armi e toglieremo il passamontagna"

IGNACIO RAMONET * - LA REALIDAD (CHIAPAS)

Per la prima volta, il subcomandante Marcos, leader dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) esce dalla clandestinità. Il 24 febbraio ha lasciato, con il suo passamontagna sul volto, la Selva Lacandona del Chiapas per una marcia pacifica verso Città del Messico, dove conta di arrivare domenica 11 marzo, dopo aver percorso più di 3000 chilometri, attraversato 12 stati tra i più poveri del paese, e partecipato, tra il 1 e il 4 marzo, nello stato di Michoacan, al Congresso nazionale indigeno di Nurio. (...)

Qualche giorno prima di cominciare la sua marcia, Marcos ci riceve, insieme al comandante Tacho e al maggiore Moisés, a La Realidad, un piccolo villaggio (450 abitanti) mille chilometri a sud della capitale, aggrappato sul fianco piovoso di una montagna ricoperta di uno spesso manto di giungla, nei pressi del suo quartier generale segreto.

Il viso coperto dall'immancabile passamontagna, un auricolare di telefono satellitare, un berretto logoro in testa dal colore indefinibile, e la vecchia mitraglietta sulla schiena, il subcomandante ci spiega perché gli zapatisti marciano su Città del Messico: "Questa non è la marcia di Marcos, né quella dell'Ezln, è la marcia di tutte le popolazioni indigene. Vuole mostrare che è finita l'epoca della paura. Il nostro obiettivo principale è che i popoli indigeni siano riconosciuti dal Congresso messicano come un soggetto giuridico collettivo.

La Costituzione messicana non riconosce gli indios. Vogliamo che lo stato riconosca che il Messico è costituito da diversi popoli. Che questi popoli indigeni abbiano una propria organizzazione politica, sociale ed economica. E che stabiliscano una relazione forte con la terra, con la loro comunità, le loro radici e la loro storia. Non domandiamo un'autonomia esclusiva.

Non rivendichiamo nessun tipo di indipendenza. Non vogliamo proclamare la nascita della nazione maya, o frammentare il paese in innumerevoli staterelli indigeni. Vogliamo solo che vengano riconosciuti i diritti di una parte importante della società messicana, che già ha le proprie forme di organizzazione e chiede che esse siano legittimate. Il nostro obiettivo è la pace. Una pace fondata su un dialogo che non sia un simulacro. Un dialogo che getti le basi per la ricostruzione del Chiapas e favorisca il reinserimento dell'Ezln nella vita politica normale. Si può fare la pace solo se verrà riconosciuta l'autonomia dei popoli indigeni.

Questo riconoscimento è una condizione importante perché l'Ezln deponga definitivamente le armi e esca dalla clandestinità, partecipi apertamente alla vita politica e possa anche dedicarsi alla lotta contro pericolosi progetti di globalizzazione".

Dopo nove mesi di silenzio, l'annuncio di questa marcia in un comunicato di Marcos, il 2 dicembre scorso, all'indomani dell'entrata in carica del nuovo presidente messicano, ha avuto l'effetto di una bomba. Tutta la classe politica è stata colta alla sprovvista da questa iniziativa audace.

(...) Durante la campagna elettorale, Vicente Fox aveva promesso che avrebbe pacificamente risolto il problema zapatista, per via politica, "in un quarto d'ora". La marcia del subcomandante Marcos lo coglie nel pieno del periodo di "grazia" e lo costringe ad affrontare, a caldo, la spinosa questione indigena.

(...) Mostrando indubbie doti di giocatore, il presidente Vicente Fox, una volta passato l'effetto sorpresa, si è mostrato favorevole al progetto di marcia zapatista. Dopo aver calmato i più esaltati del suo stesso partito che, come il governatore dello stato di Queretaro, avevano accusato i comandanti zapatisti di "tradimento", e li avevano minacciati di morte, Fox ha infine affermato che la marcia costituiva "una speranza per il Messico".

(...) Lo zelo di Fox in favore della marcia ha finito per infastidire il subcomandante Marcos: "Il presidente - ci ha detto - cerca ora di impadronirsi della marcia zapatista; potrebbe addirittura arrivare a presentarla come una marcia foxista. Questa strategia mira a fare pressioni sull'Ezln cercando di diffondere la convinzione che la pace è ormai acquisita e che, se non dovesse essere firmata, sarebbe solo colpa degli zapatisti. una specie di ricatto, con cui Fox mira alla resa incondizionata dell'Ezln. Mentre sa perfettamente che noi chiediamo, prima di iniziare i veri e propri negoziati, tre piccoli segni di buona volontà da parte sua: la liberazione di tutti i detenuti zapatisti, il ritiro dell'esercito da sette postazioni militari e la ratifica degli accordi di San Andrés sui diritti degli indigeni, firmati dal governo nel 1996, e rimasti da allora lettera morta".

Al momento in cui è cominciata la marcia, il 24 febbraio, le autorità avevano liberato solo sessanta dei circa cento detenuti zapatisti, e le forze armate si erano ritirate solo da quattro delle sette postazioni reclamate da Marcos. Infine, gli accordi di San Andrés non erano stati ratificati.

(...) Per fare irruzione nella vita politica messicana, gli zapatisti hanno scelto a suo tempo la data del 1 gennaio 1994, giorno dell'entrata in vigore dell'Accordo di libero scambio nordamericano (Nafta) tra il Messico, gli Stati uniti e il Canada. Mentre difende la causa degli indiani, Marcos segna in qualche modo, quel giorno, la prima rivolta simbolica contro la globalizzazione.

(...) E' lui il primo ad aver tentato di teorizzare l'articolazione tra la logica della globalizzazione e l'emarginazione dei poveri del Sud.

"A partire dalla caduta del muro di Berlino, analizza Marcos, un nuovo superpotere è apparso e si è sviluppato, alimentato dalle politiche neoliberali. I grandi vincitori della guerra fredda - che si può definire come la terza guerra mondiale - sono gli Stati Uniti ma, subito dopo questa potenza egemonica comincia ad apparire quello che potremmo definire un super-potere finanziario che comincia a dare ordini a tutto il mondo. Tutto ciò produce quello che chiamiamo globalizzazione . L'ideale della globalizzazione è un mondo trasformato in grande impresa e amministrato da un consiglio di amministrazione costituito dal Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l'Ocse, l'Omc, il presidente degli Stati Uniti. In un tale contesto i governanti dei singoli stati sono solo i rappresentanti di questo consiglio di amministrazione, una sorta di gestori locali. E quello che voi di Le Monde diplomatique avete perfettamente definito come 'il pensiero unico' ha il ruolo di fornire il collante ideologico per convincere tutto il mondo che la globalizzazione è inevitabile e che ogni altra proposta sarebbe chimerica, utopica, irrealista. Su scala mondiale, la grande battaglia ora in corso - che si potrebbe chiamare la Quarta guerra mondiale - oppone i sostenitori della globalizzazione a tutti quelli che, in un modo o nell'altro, le fanno ostacolo. Tutto quello che impedisce alla globalizzazione di estendersi è ormai minacciato di distruzione".

(...) Capo carismatico e promotore di un nuovo stile di azione politica, privo di arroganza e sufficienza, Marcos si è rivelato anche scrittore di talento, pieno di umorismo e originalità, che cita volentieri i suoi autori preferiti tutti caratterizzati, come Gramsci, dal pessimismo della ragione e dall'ottimismo della volontà: Cervantes, Lewis Carroll, Bertolt Brecht, Julio Cortazar, Borges...

Si comprende dunque perché, anche se marcia sul Messico, Marcos non cerca il potere. "Il problema non è conquistare il potere, afferma sorridendo, sappiamo che il luogo del potere è ormai vuoto. E che la lotta per il potere è una lotta per la menzogna. Quello che, nell'epoca della globalizzazione, è necessario, è costruire un rapporto nuovo tra il potere e i cittadini. Se la pace sarà firmata, l'Ezln cesserà di fare politica come l'ha fatta finora. La farà in un altro modo, senza passamontagna, senza armi ma al servizio delle stesse idee.

Perché abbiamo imparato che noi siamo una sorta di specchio e riflettiamo, a modo nostro, gli altri movimenti di resistenza del mondo. Per questo ci sentiamo solidali con le altre lotte. Quelle, ad esempio, degli omosessuali e delle lesbiche, vittime di ogni genere di persecuzioni e discriminazioni. O di quelle dei migranti contro i quali, un po' ovunque, si innalzano barriere razziste. (...)

Quando si toglierà il passamontagna?

Gli pongo la domanda mentre la sera e la pioggia cominciano a scendere, poco a poco, e la Realidad si copre di ombre.

"Quel che è certo - risponde Marcos - è che noi vogliamo sbarazzarci al più presto del passamontagna e delle armi. Perché vogliamo fare politica a volto scoperto. Ma non toglieremo il passamontagna in cambio di semplici promesse. I diritti degli indigeni devono essere riconosciuti. Se il potere non lo farà, non soltanto riprenderemo le armi, ma altri movimenti ben più radicali, intolleranti e disperati, lo faranno".

* Quelli che pubblichiamo sono alcuni stralci di un articolo molto più lungo che troverete per intero nel prossimo numero di "Le Monde diplomatique/ il manifesto", in edicola il prossimo 15 marzo


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