LA STAMPA - 27 febbraio 2001

Marcos: mi tolgo il passamontagna

di Ignacio Ramonet

CHIAPAS. Tutto cominciò con una lettera del "subcomandante" Marcos, nella quale mi annunciava la marcia dei dirigenti zapatisti su Città del Messico, dal 25 febbraio all'11 marzo, e mi invitava ad accompagnarlo. Gli risposi che non mi era possibile seguire la marcia, ma che sarei andato volentieri a trovarlo nel suo quartier generale clandestino nel Chiapas. Marcos accettò.

Così, dopo sette ore di cammino su per la montagna, lo raggiunsi nel cuore della foresta pluviale dei Lacandon. Lui aveva letto i miei libri, io tutti i suoi scritti, così cominciammo a chiacchierare come vecchi amici.

Pensi che sia stato lo zapatismo, nelle elezioni presidenziali del 2 luglio 2000, a dare il colpo risolutivo al Pri, il Partito rivoluzionario istituzionale?

"Noi siamo stati parte delle forze che hanno battuto il Pri. Come a livello mondiale ci consideriamo un sintomo, così a livello messicano c'erano resistenze contro il Pri, qualcuna più combattiva di altre, e una di quelle era l'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln). Fondamentalmente però a battere il Pri è stata la società non organizzata. Questa società indefinita ha approfittato di un'apertura (le elezioni presidenziali) e ha deciso di dire: No! Resta da sapere che cosa dicesse in positivo, questa società. Il "no" probabilmente non è un avallo alla destra, né al Pan (Partito d'azione nazionale) né a Vicente Fox, il presidente della repubblica uscito dalle sue file".

Il Messico è ancora sotto lo choc della sconfitta storica del Pri. In quale misura questo momento molto particolare permette all'Ezln di lanciare nuove iniziative politiche, come questa marcia?

"Il Paese vuole costruire, a partire dalla caduta del Pri, qualcosa di nuovo. Da parte nostra noi pensiamo che in questo momento, insieme alla società civile, noi, popolo indigeno, possiamo costruirci uno spazio. Senza voler dare un posto egemonico a questo nuovo progetto per il Paese, ma anche senza più accettare che la storia si ripeta e che noi restiamo in coda.

Siamo fieri di esserci ribellati. Non soltanto contro un regime ingiusto, ma anche contro un sistema che ci assegna un ruolo di mendicanti e che non ci tende la mano se non per farci l'elemosina. Pensiamo che sia il momento di costruirci un posto degnitoso e di servire, nella nostra qualità di popoli indigeni, la costruzione di uno Stato nazionale del Messico, più giusto e più solidale. In questo progetto non c'è nessun motivo per cui il nostro posto debba essere l'ultimo. Non vogliamo essere ancora una volta l'ultima ruota del carro, ma una parte dignitosa di questa geografia della ricostruzione.

Nell'attuale globalizzazione, si assiste alla suddivisione del mondo e le minoranze ribelli si vedono assegnare gli angoli. Ma, sorpresa!, il mondo è rotondo. E una delle caratteristiche della rotondità è che non ci sono angoli. Noi vogliamo che non ci siano mai più angoli per sbarazzarsi degli indigeni, della gente che dà fastidio, per metterla in un angolo come si mette una pattumiera, perché nessuno la veda".

Uscire, per la prima volta dal 1994, dalla foresta dei Lacandon, dal Chiapas, e marciare su Città del Messico, rappresenta per lo zapatismo la fine di un ciclo. Alcuni pensano che questa marcia sia un'idea geniale, altri che tu e gli altri comandanti corriate un rischio mortale.

"La marcia è una follia. Ma noi pensiamo che, a partire dal 2 luglio, ci sia un altro Paese, un altro Messico. E non possiamo più comportarci come prima. Il Paese si è messo in discussione. Abbiamo analizzato i risultati delle elezioni, e questi rivelano che la società messicana è più politicizzata, meglio informata e più desiderosa di partecipare alla vita politica. Noi crediamo che tutta la società messicana, come la comunità internazionale, sia convinta che l'attuale condizione dei popoli indigeni sia insostenibile e che vi si debba porre rimedio. E' il momento giusto perché la nazione messicana saldi il suo debito nei confronti del suo popolo indio, capisca che la nazione messicana non è meticcia ma è fatta di diversi popoli".

Al momento tutti sembrano sostenere questa marcia. Perfino il presidente Fox, che ha chiamato "l'intera nazione" ad appoggiarla. Come credi che reagirà la società al passaggio della carovana zapatista?

"La società risponderà. Capisce che gli indigeni lottano per occupare il loro spazio. Non vogliamo mai più essere spettatori né che sia qualcun altro a risolvere i problemi per noi. La marcia apre la porta agli zapatisti, ai guerriglieri armati e incappucciati, offrendo loro la possibilità di fare politica senza il muro del passamontagna e delle armi. Per noi, finché restiamo così e qui, il progetto politico ha questo limite. Adesso noi vogliamo qualcosa che ci proietti in avanti, non qualcosa che ci limiti.

Ma vediamo la reazione della destra messicana. Dicono: "Non sappiamo che fare di loro quando usciranno allo scoperto e faranno politica. Il problema non è il passamontagna, il problema è che noi non vogliamo che escano allo scoperto. Non vogliamo trovare un accordo di pace. Facciano pure le loro conferenze stampa, ma non vengano a Città del Messico a fare politica, perché il loro progetto disturba il nostro gioco. Eliminarli militarmente costa molto, ma possiamo scommettere che alla lunga si esauriranno politicamente".

Il tuo rapporto con la violenza è singolare. In un certo modo tu incarni l'antiterrorismo. Lo zapatismo è un movimento armato, ma non ha mai fatto un attentato. Non reclama l'indipendenza né la secessione; al contrario, esige che il Chiapas sia meglio integrato nello Stato messicano. Che genere di guerriglia fa l'Ezln?

"Sebbene gli indigeni siano i più dimenticati, l'Ezln ha impugnato le armi per reclamare democrazia, libertà e giustizia per tutti i messicani, e non solo per gli indigeni. Non vogliamo l'indipendenza, vogliamo essere degli indigeni messicani. L'Ezln è organizzato come un esercito e ha sempre rispettato le convenzioni internazionali e le leggi di guerra. Dichiariamo le ostilità all'interno delle regole, abbiamo delle uniformi, dei gradi e delle insegne riconoscibili, rispettiamo la popolazione civile e gli organismi neutrali. L'Ezln ha le armi ma non ha mai fatto un attentato. L'Ezln lotta perché non sia necessario essere clandestini e armati per combattere per la giustizia, la democrazia e la libertà. Ecco perché noi diciamo che lottiamo per sparire".

In uno dei tuoi scritti avevi annunciato, molti anni fa, la tua intenzione di marciare su Città del Messico dove lo zapatismo, così come lo conosciamo oggi, potesse sparire e convertirsi in un partito normale. Stai realizzando questo progetto?

"Sì. Vogliamo trasformarci in organizzazione politica. Noi facciamo una differenza tra partito e organizzazione. Il nostro progetto politico non è la presa del potere, né con le armi né con le elezioni né per altre vie. Nel nostro progetto politico noi diciamo che occorre sovvertire i rapporti di potere, anche perché il centro del potere non è più negli Stati nazionali. Per questo conquistare il potere non serve a niente. Un governo può essere di sinistra, di destra o di centro ma comunque non potrà prendere le decisioni fondamentali. Si tratta di costruire un'altra relazione politica, di andare verso una "cittadinizzazione" della politica. Chi dà un senso a questa nazione siamo noi, i cittadini, non lo Stato. Faremo una politica senza passamontagna, ma con le stesse idee".

Dopo l'arrivo della marcia a Città del Messico, domenica 11 marzo, Marcos sparirà?

"Quello che cambierà, una volta firmata la pace, è che un'organizzazione politico-militare come l'Ezln cesserà di esistere, non avrà più i rapporti di comando che esistono all'interno di una struttura politico-militare. Fondamentalmente la figura di Marcos si è costruita attorno a questo movimento. Quando parla Marcos, è un movimento, un collettivo che parla. Ed è questo che dà forza e interesse a ciò che lui dice. Se questo movimento si trasforma e, cessando di essere un esercito, diventa una forza politica, più nulla sarà come prima. Quando sparirà, la figura di Marcos, con tutto ciò che la circonda, sarà smitizzata. Questo non significa che Marcos smetterà di lottare e si metterà a coltivare l'orto. Ma tutto ciò che ha reso possibile Marcos e l'esercito zapatista sarà radicalmente modificato".

Il subcomandante Marcos, leader dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale, ha lasciato domenica scorsa il suo rifugio nella jungla e, con altri 23 comandanti della formazione guerrigliera, alla testa di circa diecimila sostenitori, ha cominciato la marcia per "la pace e la dignità degli indios di tutto il pianeta".

La carovana zapatista è partita da San Cristobal de las Casas, nel Chiapas, e attraversando gli undici Stati della confederazione messicana, giungerà a Città del Messico l'11 marzo. La marcia è una sfida al presidente messicano Vicente Fox, che non è riuscito a riportare i ribelli al tavolo negoziale. "Fox parla molto e ascolta poco - ha detto Marcos - quindi dovremo fare più chiasso che possiamo". Per Marcos la pace che offre il governo è menzognera: "Quel signore dalla lingua lunga e dalle orecchie ottuse, che ci governa, mente. Da sette anni la dignità indigena chiede un posto dentro questa bandiera". E così, "per risolvere i problemi degli indios", ma anche per avere la possibilità "di fare politica", Marcos ha lanciato lo "zapatour".

La marcia è partita dalla piazza della chiesa di San Cristobal. Marcos e i suoi uomini si sono presentati con il volto coperto da un passamontagna. Hanno deciso di marciare disarmati, ma le autorità del Chiapas hanno messo a disposizione 1.600 agenti della sicurezza, che accompagneranno i dimostranti per tutto il percorso. Pubblichiamo una parte dell'intervista che Marcos ha rilasciato a Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde Diplomatique.


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