PARLA MARCOS

Gabriel García Márquez, Città del Messico

Gabriel García Márquez e Roberto Pombo lo intervistano in Messico

Il subcomandante Marcos era arrivato nel 1984 nella selva Lacandona del Chiapas, nel sudest del Messico, nel 1984, e lì ha vissuto per 17 anni con le comunità indigene tzotziles e tzeltales fino all'11 marzo scorso, quando la marcia che guidava e che ha attraversato mezzo paese si è conclusa con una gigantesca manifestazione nella Piazza della Costituzione - meglio nota come lo Zócalo - di Città del Messico.

In questo luogo, carico di enorme peso storico, il capo dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, senza un'arma addosso, ha reso ufficiale la decisione del suo movimento di fare politica con le buone maniere. Da quel giorno, i messicani stanno in sospeso perché sanno che in gran parte il futuro del paese dipende dal successo o dal fallimento di come porteranno avanti la situazione questo misterioso uomo incappucciato e il pugno di comandanti che compongono il suo stato maggiore. La sua missione è di ottenere l'approvazione di una legge sui diritti degli indigeni e di sedersi al tavolo dei negoziati, faccia a faccia, col Governo di Vicente Fox.

Marcos si è installato con la sua gente, nel sud della città, nella Scuola Nazionale di Antropologia e Storia (ENAH), le cui aule trasformate in fretta in dormitori e in luoghi di riunione sono passate al centro di attenzione dell'opinione pubblica mondiale, per l'importanza dei suoi inquilini attuali e per la cateratta di notizie di implicazioni definitive che nascono lì di minuto in minuto.

Il subcomandante degli zapatisti non aveva ottenuto che il Parlamento gli permettesse di esporre il suo pensiero sulla legge degli indigeni davanti ai deputati in plenum, dato che la diversità di opinioni fra i vari partiti politici impediva di raggiungere un qualsiasi accordo sul tema. Ma alla fine, giovedì, si era accesa la luce della speranza quando il Parlamento aveva approvato con una votazione un po' stretta la proposta di ascoltarlo. Intanto, Marcos e il presidente Fox cercavano senza successo di mettersi d'accordo per fare il primo passo, per iniziare davvero il dialogo di pace fra la guerriglia ed il Governo.

La scorsa settimana è finita in una tremenda suspense. Di fronte alla decisione del Parlamento, gli zapatisti avevano annunciato la loro determinazione a ritornare in Chiapas dato che valutavano che la classe politica si stava chiudendo al dialogo e per fermarli Fox aveva risposto con l'ordine di togliere i posti di vigilanza militare nella zona di conflitto e con l'annuncio che avrebbe liberato quei guerriglieri che ancora rimanevano in prigione. Il timore per l'arrivo zapatista in Città del Messico per richiedere i diritti degli indigeni sembrava essere stato superato dall'inquietudine prodotta dalla possibilità che ritornassero nelle loro terre con le mani vuote.

Attraverso una sfilza di messaggi tramite amici comuni, il subcomandante Marcos aveva accettato di parlare con i giornalisti del CAMBIO. L'appuntamento era alle 9 e 30 di sera, la scorsa settimana. L'entrata principale della Scuola di Antropologia era protetta da agenti di polizia e da un gruppo di studenti che fanno la guardia 24 ore su 24, vigilano sulle aule dove stanno gli zapatisti. Dopo aver attraversato i due cordoni di sicurezza, siamo arrivati sul posto, dove c'erano solo un tavolo e tre sedie. Cinque minuti più tardi è arrivato Marcos.

"L'11 marzo ci ha detto che è stato giusto lasciare le armi da parte, che la scommessa di una mobilitazione pacifica era corretta"

CAMBIO: Dopo sette anni da quando l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha annunciato che un giorno sarebbe entrato trionfalmente in Città del Messico, lei arriva alla capitale e trova lo Zócalo completamente pieno. Che ha pensato salendo sul palco e vedendo quello spettacolo?

Subcomandante Marcos: Seguendo la tradizione zapatista dell'anticlimax, il posto peggiore per vedere una manifestazione nello Zócalo è il palco. C'era molto sole, molto smog, avevamo mal di testa ed eravamo molto preoccupati per le persone che stavano svenendo davanti a noi. Commentavo col mio compagno, il comandante Tacho, che dovevamo sbrigarci perché se no quando avremmo cominciato a parlare noi, non sarebbe rimasto nessuno nella piazza. Non riuscivo a vedere tutta l'estensione. La distanza che c'era di sicurezza tra noi e la gente, era pure una distanza emotiva e non ci siamo resi conto di ciò che era successo nello Zócalo fino a quando abbiamo letto la cronaca e visto le foto sui giornali il giorno dopo. In questo senso, e valutando ciò che hanno detto gli altri di noi, pensiamo proprio che è stato il culmine di una tappa, che il nostro discorso, la nostra parola, quel giorno sono stati appropriati e i più azzeccati, che abbiamo disorientato il settore di quelli che si aspettavano che saremmo andati ad occupare il Palazzo o che avremmo lanciato un appello all'insurrezione generalizzata. Ma anche quelli che pensavano che il nostro discorso si sarebbe limitato ad una questione poetica o lirica. Credo che il bilancio ottenuto sia sufficiente, perché in un modo o nell'altro l'Ezln stava parlando nello Zócalo l'11 marzo, ma non del 2001, perché stava parlando di qualcosa che era ancora da completare: di questo sentimento che significa che la sconfitta definitiva del razzismo si trasformerà in una politica di Stato, in una politica educativa, in un modo di sentire di tutta la società messicana. Come se questo fosse già concluso lì, ma mancano ancora dei tratti. Come diciamo noi militari: la battaglia è vinta ma ci sono ancora alcuni scontri da fare. Credo, insomma, che lo Zócalo dell'11 marzo ci dicesse che era ormai giusto lasciare le armi da parte, che la scommessa di una mobilitazione pacifica era corretta e che dava risultati. Manca che lo Stato messicano lo capisca, che il Governo concretamente lo capisca.

Se l'Ezln arrivasse al potere e s'installasse come un esercito rivoluzionario, per noi sarebbe un fallimento

Lei ha usato l'espressione "come diciamo noi militari". Per noi colombiani che abbiano sentito parlare la nostra guerriglia, il suo non suona come un discorso militare. Che cosa ha di militare lei ed il suo movimento e come descrive la guerra che ha combattuto?

Noi siamo cresciuti dentro un esercito, quello Zapatista di Liberazione Nazionale. La struttura è militare. Il subcomandante Marcos è il capo militare di un esercito. In ogni caso il nostro esercito è un esercito molto diverso perché ciò che sta proponendo è smettere di essere un esercito. Il militare è una persona assurda che deve ricorrere alle armi per poter convincere l'altro che le sue ragioni sono quelle giuste e in questo senso il movimento non ha futuro se il suo futuro è quello militare. Se l'Ezln si perpetua come una struttura armata militare, va al fallimento. Al fallimento come opzione di idee, come posizione di fronte al mondo. E la cosa peggiore che potrebbe succedere, a parte questo, sarebbe che arrivasse al potere e si installasse come un esercito rivoluzionario. Per noi sarebbe un fallimento. Ciò che poteva essere un successo per una organizzazione politico-militare dei decenni '60 o '70, che era nata con i movimento di liberazione nazionale, per noi sarebbe un fallimento. Noi abbiamo visto che quelle vittorie erano alla fine dei fallimenti o delle sconfitte nascoste dietro la loro propria maschera. Che il problema che rimaneva in sospeso era il posto della gente, della società civile, del popolo. Che alla fine è una disputa tra due egemonie. C'è un potere oppressore che dall'alto decide per la società e c'è un gruppo di illuminati che decide di condurre il paese in una direzione migliore e scalza l'altro gruppo dal potere, prende il potere e poi decide pure lui per la società. Per noi questa è una lotta tra egemonie e ce n'è sempre una buona e una cattiva: quella che sta vincendo è quella buona e quella che sta perdendo è quella cattiva. Ma per il resto della società le cose in fondo non stanno cambiando. Nell'Ezln arriva un momento in cui si vede surclassato da ciò che è lo zapatismo. La E della sigla rimane rimpicciolita, con le mani legate, in modo che per noi non solo non è un peso muoverci senza armi, ma anzi in un certo senso è anche un sollievo. Di fatto lo zaino pesa meno di prima e sentiamo che pesa meno anche la parafernalia militare che necessariamente porta con sé un gruppo armato nel momento del dialogo con la gente. Non è possibile ricostruire il mondo, né la società, né ricostruire gli stati nazionali ora distrutti, su una disputa che consiste in chi va ad imporre la sua egemonia sulla società. Il mondo, e in concreto la società messicana, è composto da diversi e il rapporto che si deve costruire tra questi diversi deve avere la base nel rispetto e nella tolleranza, cose che non appaiono in nessuno dei discorsi delle organizzazioni politico-militari dei decenni '60 e '70. La realtà è arrivata a presentare i conti come succede sempre e per i movimenti armati di liberazione il costo del conto è stato molto alto.

"Credere che possiamo parlare per altri aldilà di noi è masturbazione politica"

Lei sembra essere differente dalla sinistra tradizionale anche per i settori sociali che quei gruppi rappresentano. È così?

Vorrei segnalare a grandi linee due vuoti della sinistra latino-americana rivoluzionaria. Uno di questi vuoti è quello dei popoli indios, di cui siamo partecipi, e l'altro è quello dei gruppi considerati minoritari. Anche se tutti noi ci togliessimo il passamontagna non saremmo così minoritari come lo sono gli omosessuali, le lesbiche, i transessuali. Questi settori non solo sono stati evitati dalla sinistra latino-americana di quei decenni, ma non la vincono neanche nel presente, ma anzi si è proposto il quadro teorico di quello che allora era il marxismo-leninismo: trascurarli e vederli come parte del processo che deve essere eliminato. L'omosessuale, per esempio, è sospettato di poter essere un traditore, è un elemento nocivo per il movimento e per lo Stato socialista. E l'indigeno è un elemento di sottosviluppo, che impedisce che le forze produttive... bla, bla bla. Allora ciò che succede è che si devono eliminare quei settori, alcuni in centri di reclusione o di rieducazione ed altri invece si possono assimilare nel processo produttivo e trasformarli in mano d'opera qualificata. In proletari, per dirlo nel loro linguaggio.

I guerriglieri sono soliti parlare in nome della maggioranza. Sorprende che nei suoi discorsi lei parli in nome delle minoranze, quando potrebbe parlare del popolo povero o sfruttato. Perché lo fa?

Tutte le avanguardie pensano di essere rappresentanti della maggioranza. Nel nostro caso, pensiamo che non solo sia falso, ma che nel migliore dei casi non va aldilà d'essere un pio desiderio e, nel peggiore dei casi, è un chiaro esercizio di scavalcamento. Quando entrano in gioco le forze sociali, ci si rende conto che l'avanguardia non è così tanto avanguardia e che quelli che rappresenterebbe non si riconoscono in lei. Quando l'Ezln sta rinunciando ad essere un'avanguardia, sta riconoscendo il suo orizzonte reale. Credere che possiamo far questo, che possiamo parlare per degli altri aldilà che per noi, è masturbazione politica. È il piacere che si può ottenere dal rileggere i volantini a consumo degli stessi che li hanno scritti. Stiamo cercando di essere onesti con noi stessi e qualcuno può dire che è una questione di bontà umana. No. Possiamo essere pure cinici e dire che essere onesti ci ha dato dei risultati quando abbiamo detto che rappresentiamo soltanto le comunità indigene zapatiste di una zona del sudest messicano. Ma il nostro discorso è riuscito a toccare le orecchie di molta altra gente. Fino a lì siamo arrivati. Non oltre. In tutti i discorsi che abbiamo fatto lungo questa marcia stavamo dicendo alla gente, e lo stavamo dicendo anche a noi stessi, che non potevamo né dovevamo iniziare a dirigere o a targare le lotte che stavamo vedendo. Noi credevamo che nel Messico del basso ci fosse molto a fior di pelle, ci fossero molte ingiustizie, molti reclami, molte ferite... Nelle nostre teste avevamo l'immagine che, quando le nostra marcia fosse iniziata, avremmo dovuto portarci dietro un aratro per andare avanti sollevando la terra e tutto questo sarebbe nato. Noi dovevamo essere onesti e dire alla gente che non venivamo per dirigere nulla di tutto questo. Siamo venuti per portare avanti questa rivendicazione e sulla base di questa potevamo collegarne altre. Però questa è un'altra storia.

I discorsi della sua marcia si sono costruiti paese dopo paese fino ad arrivare a Città del Messico, oppure li ha disegnati fin dall'inizio per essere pronunciati così, e in modo che l'ultimo non fosse necessariamente il più forte?

Guardi, c'è la versione ufficiale e quella reale. Quella ufficiale è che ci siamo resi conto in quel momento di ciò che dovevamo fare e la versione reale è che il discorso è andato man mano costruendosi in questi sette anni. Arriva il momento che lo zapatismo dell'Ezln è già superato da molte cose. Non stiamo rispondendo a ciò che eravamo prima del 1994. Nemmeno a ciò che eravamo nei primi giorni del 1994 mentre stavamo combattendo, ma ciò che sentiamo è che abbiamo man mano acquisito una serie di impegni etici lungo questi sette anni. Ciò che è successo è che pur pensando di portarci dietro un aratro, che alla fine non abbiamo trovato all'ultimo momento, è bastato il combattere della pianta dei piedi mentre stavamo camminando perché tutto questo si mettesse a sbocciare. In ogni piazza abbiamo ripetuto a tutti. "non siamo venuti a dirvi che fare, ma a chiedervi aiuto". Ma anche così, lungo la marcia abbiamo ricevuto fascicoli di reclami che arrivavano da prima della rivoluzione messicana in attesa di qualcuno che risolva il problema. Se potessimo riassumere il discorso della marcia zapatista fino ad oggi, potrebbe essere: "Nessuno lo farà per noi". Si devono cambiare le modalità organizzative e anche rifare il che fare politico perché questo sia possibile. Quando diciamo "no" ai leader, in fondo stiamo dicendo pure "no" a noi.

Voi zapatisti siete al culmine del vostro prestigio, è appena caduto il PRI, c'è un progetto di legge al Parlamento che crea uno statuto delle comunità indigene e può cominciare il negoziato che lei propone. Come vede il panorama?

Come una lotta e una disputa tra un orologio che controlla l'orario d'ingresso degli impiegati in una azienda, che sarebbe l'orologio di Fox, e il nostro che è un orologio a sabbia, una clessidra. La sfida è se noi ci regoleremo su questo orologio timbra-cartellini o se Fox si regolerà sulla nostra clessidra. Non accadrà né una cosa né l'altra. Dobbiamo capire, lui e noi, che bisogna costruire un altro orologio di comune accordo e quello sarà l'orologio che segnerà il ritmo del processo di dialogo e alla fine quello della pace. Siamo sul loro terreno, quello della sede del potere politico, dove la classe politica è nel mezzo di dove le cose vanno avanti. Siamo con un'organizzazione completamente inefficace se è ora di fare politica, o almeno questa politica. Siamo maldestri, balbettanti ma di buona volontà. Dall'altra parte ci sono coloro che maneggiano bene quei codici. È, un'altra volta, una disputa se il che fare politico dev'essere quello che detta la classe politica o quello di cui noi siamo portatori. Penso ancora una volta che non sarà né l'uno né l'altro. Quando abbiamo fatto la guerra abbiamo dovuto sfidare il Governo e ora per costruire la pace dobbiamo sfidare non solo il Governo ma tutto lo Stato messicano. Non c'è un tavolo per sedersi a dialogare con il Governo. Dobbiamo costruirlo. La sfida è che dobbiamo convincere il Governo che è necessario costruire questo tavolo, che deve sedersi con noi e che vincerà. E che, se non lo fa, perderà.

Chi deve stare a questo tavolo?

Da una parte il Governo e dall'altra noi.

Noi non abbiamo fra i nostri sogni proibiti una foto con Vicente Fox

Il processo non si costruisce con foto, ma dando segnali, sedendosi e dedicandosi a questo

Fox non sta di fatto accettando questo tavolo quando dice che vuole parlare con lei e che la riceverà nel Palazzo o che parlerete in qualsiasi altro luogo che lei scelga?

Quello che lui sta dicendo è che vuole la sua parte della torta mediatica, perché questo non è diventato un processo di dialogo e di negoziato, ma una corsa alla popolarità. Quello che vuole Fox è ottenere la foto per garantire la sua presenza sui mezzi di comunicazione. Il processo di dialogo non si costruisce con un evento congiunturale ma col dialogo. Questo processo non si costruisce con foto, ma dando segnali, sedendosi e occupandosi di questo. Noi siamo disponibili a parlare con Fox, se lui si prende la responsabilità del dialogo e del negoziato fino a che termini. Però noi gli domandiamo: allora, chi governerà il paese durante i periodo in cui lui è in riunione con noi, che sarà un processo arduo? Bene, quello che voglio dirvi e voi colombiani lo sapete bene che i processi di negoziato e di dialogo di un conflitto armato sono scabrosi e quindi non è possibile che il capo dell'Esecutivo si dedichi a questo a tempo pieno. Quindi nomini un commissario e con questo commissario possiamo costruire. Non c'è fretta. Noi non abbiamo tra i nostri sogni proibiti una foto con Vicente Fox.

In questo processo così lungo, lei continuerà così, vestito da guerrigliero dentro un auditorio universitario? Com'è una sua giornata?

Mi alzo, concedo interviste ed arriva l'ora di tornare a dormire (risate). Dialoghiamo con vari i questi gruppi di cui le ho parlato. Un mucchio di mondi o di submondi - dipende da come sono perseguitati ed emarginati - che il discorso zapatista ha toccato. Quello che stiamo facendo è stare a due tavoli con una di quelle sedie girevoli con le ruote piccole che avevo quando io ero giovane. Siamo in questo momento ad un tavolo con il Parlamento e all'altro tavolo con le comunità di Città del Messico. Ma ci preoccupa che il Parlamento ci sta trattando come qualsiasi altro che chieda un po' d'attenzione e gli rispondono di aspettare perché si stanno occupando d'altro. Se è così, sono molte le cose che vanno a male perché non c'è solo in gioco il riconoscimento dei diritti indigeni. La gente non accetterà che i deputati si voltino a guardarla solo all'ora delle elezioni. Inoltre sarebbe un segnale per gli altri gruppi politico-militari più radicali, che sono cresciuti sotto la bandiera che il negoziato politico è un cedimento.

Fra parentesi, lei dice che c'erano sedie girevoli quando era giovane. Quanti anni ha?

Io ho 518 anni... (risata)

Il dialogo che voi proponete ricerca la creazione di nuove modalità di partecipazione popolare per prendere le decisioni o vanno dietro alle decisioni di Governo che considerano necessarie per il paese?

Il dialogo significa semplicemente concordare le regole che la sfida fra loro e noi sia su un altro terreno. Quello che c'è sul tavolo del dialogo non è il modello economico. Quello che è in gioco è come ci confrontiamo. È qualcosa che Vicente Fox deve capire. Noi non intendiamo diventare foxisti al tavolo. Quello che il tavolo deve costruire è che questo passamontagna ne esca con dignità e che né io né nessun altro debba ritornare con tutta questa parfernalia militare. La sfida è che non solo dobbiamo costruire questo tavolo, ma dobbiamo costruirci anche l'interlocutore. Dobbiamo costruirlo come un uomo di Stato e non come un prodotto della tecnica del mercato o del disegno degli specialisti dell'immagine. Non è facile. Era più facile la guerra. Però con la guerra il problema è che l'irrimediabile è molto di più. In politica si può sempre rimediare.

I suoi vestiti sono curiosi: un fazzoletto liso legato al collo e un berretto da buttare. Però a volte porta una pila di cui qui non ha bisogno, una radio che si vede molto sofisticata e un orologio per polso. Sono simboli? Che cosa significano?

La pila c'è perché ci tengono in un buco dove non c'è luce e la radio è per chiedere consiglio ai miei consiglieri d'immagine perché mi dettino le risposte alle domande dei giornalisti. No. Sul serio.

Questo è un walkie-talkie che comunica con la sicurezza e con la nostra gente nella selva perché ci comunichino se si presenta qualche problema. Abbiamo ricevuto varie minacce di morte. Il paliacate (fazzoletto) era rosso e nuovo quando abbiamo occupato San Cristóbal de Las Casas, sette anni fa. E il berretto è quello con cui sono arrivato nella Selva Lacandona 18 anni fa. Con un orologio sono arrivato alla selva e l'altro da quando è incominciato il cessate il fuoco. Quando le due ore coincideranno vorrà dire che lo zapatismo è finito come esercito e che è iniziata un'altra stagione, un altro orologio e un altro tempo.

"Non è etico che tutto sia valido per l'obiettivo del trionfo della rivoluzione, incluso levarsi dai piedi i civili"

Come vede la guerriglia colombiana e in generale il conflitto armato del nostro paese?

Da qua vedo molto poco. Quello che lasciano filtrare i mezzi di comunicazione: il processo di dialogo e negoziato che c'è adesso, le difficoltà che nascono in questo processo. Per quello che riesco a vedere è un processo di dialogo molto tradizionale, non è nuovo. Sono seduti i due al tavolo e nello stesso momento stanno mettendo in campo le loro forze militari per costruirsi una posizione di vantaggio al tavolo. O invece non è così, perché non sappiamo che cos'hanno ognuno in testa. Magari il tavolo sta producendo situazioni che vanno a vantaggio degli scontri militari. Non facciamo molto caso alle accuse di legami col narcotraffico perché non sarebbe la prima volta che qualcuno dice questo e poi viene fuori che non è vero. Lasciamo il beneficio del dubbio. Non diciamo che sia buono o cattivo, però prendiamo le distanze come facciamo con gli altri gruppi armati in Messico dato che pensiamo che non è etico che tutto sia valido con l'obiettivo del trionfo della rivoluzione. Tutto, incluso levarsi dai piedi i civili, per esempio. Non è etico che la presa del potere nasconda alla buona le azioni di qualsiasi organizzazione rivoluzionaria. Non crediamo che il fine giustifichi i mezzi. Insomma noi pensiamo che il mezzo sia il fine. In questo senso, il valore che diamo alla parola, all'onestà e alla sincerità è grande, anche se a volte possiamo peccare di ingenuità. Per esempio, il 1° gennaio del 1994, prima di attaccare l'Esercito, noi gli abbiamo detto che l'avremmo attaccato. Non ci hanno creduto. A volte ci ha dato dei risultati, altre volte no. Però noi siamo contenti che, come organizzazione, ci stiamo costruendo un'identità.

"Perché il negoziato abbia successo le parti devono partire dal presupposto che non possono vincere"

Lei pensa che sia possibile negoziare la pace in mezzo alla guerra come succede in Colombia?

È molto comodo ed irresponsabile dire la propria da qui su ciò che succede là. Un processo di dialogo e di negoziato non ha successo se le parti non rinunciano a vincere. Se una delle parti utilizza il processo di dialogo come un tour de force per vedere se distrugge l'altro, presto o tardi il processo di dialogo fallirà. In questo caso, il terreno del confronto militare sta trasferendo il tavolo. Perché il dialogo ed il negoziato abbiano successo è necessario che al contrario i due partano dal presupposto che non possono vincere. C'è da costruire una via d'uscita che porti alla vittoria per tutti e due, o nel peggiore dei casi una sconfitta per tutti e due. Però non può continuare lo scontro così. Chiaro che è difficile, soprattutto in movimenti che hanno molti anni dietro le spalle come è il caso della guerriglia colombiana. Ci sono molte ferite da una e dall'altra parte e molti debiti in sospeso, però penso che non sia mai tardi per tentare.

E, nonostante tutti questi problemi, ha il tempo per leggere?

Sì, perché altrimenti... che facciamo? Negli eserciti di prima, il militare approfittava del tempo libero per pulire le sue armi e curarsi le ferite. Nel nostro caso, dato che le nostre armi sono le parole, dobbiamo stare attenti al nostro arsenale in ogni momento.

Tutto ciò che dice, il modo in cui lo dice e il contenuto, dimostrano una formazione letteraria molto seria e molto antica. Come se l'è fatta e da dove è venuta fuori?

Ha a che vedere con ciò che è stata la nostra infanzia. Nella nostra famiglia la parola aveva un valore molto speciale. Il modo di affacciarsi al mondo era attraverso il linguaggio. Non abbiamo imparato a leggere a scuola ma leggendo i giornali. Mio padre e mia madre ci hanno messo prestissimo a leggere libri che ti permettevano di affacciarti ad altre cose. In un modo o nell'altro abbiamo acquisito la coscienza del linguaggio come un modo non per parlarci ma per costruire qualcosa. Come se fosse un piacere più che un dovere. Quando arriva le tappa delle catacombe, di fronte agli intellettuali borghesi, la parola è quella che vale di meno. Rimane in secondo piano. È quando arriviamo nelle comunità indigene, che il linguaggio arriva come una catapulta. Ti rendi conto che ti mancano le parole per esprimere molte cose e questo ti obbliga ad un lavoro sul linguaggio. Tornare e una volta ed un'altra sulle parole per armarle e per disarmarle.

Non sarà il contrario? Non sarà che questo uso delle parola è quello che permette questa nuova tappa?

Succede come in un frullatore. Non sai che cosa ci hai messo dentro per primo e ciò che ottieni è il cocktail.

Possiamo parlare di quella famiglia?

Era una famiglia di classe media. Mio padre, il capofamiglia, era maestro di una scuola rurale nell'epoca del cardenismo quando, come diceva lui, ai maestri tagliavano le orecchie se pensavano che fossero comunisti. Mia madre, anche lei maestra rurale, cambia di posto e la mia diventa una famiglia di classe media. Voglio dire che era una famiglia che non aveva difficoltà. Tutto questo in provincia, dove l'orizzonte culturale è la pagina degli incontri di società del giornale. Il mondo di fuori o il gran mondo era Città del Messico e le sue librerie, perché era quello che ci attraeva venendo qui. A volte c'erano delle fiere del libro in provincia e lì era dove potevano trovare qualcosa. García Márquez, Carlos Fuentes, Monsiváis, Vargas Llosa (indipendentemente da come la pensino) per ricordarne qualcuno, arrivano attraverso i miei genitori. Ce li danno da leggere. Cento anni di solitudine serviva a spiegare ciò che allora era la provincia. La Morte di Artemio Cruz, ciò che era successo con la rivoluzione. Giorni da ricordare, ciò che stava succedendo nella classe media. In qualche modo era il nostro ritratto però nudo, La città ed i cani. Tutte queste cose erano lì. Stavamo arrivando al mondo allo stesso modo con cui stavamo arrivando alla letteratura. E penso che questo ci abbia segnato. Non ci siamo affacciati al mondo attraverso una notizia d'agenzia ma attraverso una novella, un saggio o una poesia. Questo ci ha reso molto diversi. Quello è stato lo specchio che i nostri genitori ci hanno dato, come altri possono dare lo specchio dei mezzi di comunicazione, o un vetro nero perché non si veda ciò che sta succedendo.

"Quello che sono arrivati a dirmi è stato che ero un ravanello: rosso fuori e bianco dentro"

Dov'è il Don Chisciotte in mezzo a tutte queste letture?

Me lo hanno regalato quando ho compiuto 12 anni, bello, cartonato. Era un Don Chisciotte della Mancha. Io l'avevo già letto ma in quelle edizioni per ragazzi. Era un libro caro, un regalo molto speciale di quelli che non ti aspetti. Shakespeare è quello che arriva dopo. Però se potessi fare ordine, direi che nella letteratura arriva per primo quello che si chiamò il boom latino-americano, poi Cervantes, poi García Lorca e poi viene la fase della poesia. Quindi lei (indica García Márquez) è corresponsabile di tutto questo.

Gli esistenzialisti e Sartre passarono di lì?

No. Siamo arrivati più tardi a tutto quello. Alla letteratura esistenziale e prima di lei alla letteratura rivoluzionaria, siamo già arrivati molto corrotti, come direbbero gli ortodossi. Cosicché a Marx e ad Engels siamo arrivati molto viziati dalla letteratura, dal suo sarcasmo e dal suo humour.

Non c'erano letture di teoria politica?

Nella prima fase no. Dall'abcd siamo passati alla letteratura e da lì ai testi teorici e politici mentre stavamo per passare alla preparatoria.

I suoi compagni pensavano che fosse o che potesse essere comunista?

No, credo di no. Qualche volta quello che sono arrivati a dirmi è stato che ero un ravanello: rosso fuori e bianco dentro.

"Non c'è modo migliore per capire il sistema politico messicano nel suo lato tragico e nel suo lato comico che Amleto, Macbeth e Don Chisciotte"

Che sta leggendo adesso?

Il Don Chisciotte è quello che sta al posto d'onore e poi normalmente mi porto dietro il Romancero Gitano di García Lorca. Il Don Chisciotte è il miglior libro di teoria politica, seguito da Amleto e Macbeth. Non c'è modo migliore per capire il sistema politico messicano nel suo lato tragico e in quello comico: Don Chisciotte, Amleto e Macbeth. Meglio di qualsiasi articolo d'analisi politica.

Lei scrive a mano o al computer?

Al computer. Solo durante questa marcia ho dovuto scrivere molto a mano perché non c'era tempo di lavorare. Faccio una bozza, poi un'altra e un'altra e un'altra. Può sembrare una battuta ma in genere è verso la settima che mi viene.

Che libro sta scrivendo?

Stavo provando a scrivere uno sproposito, quello di cercare di spiegarci a noi stessi a partire da noi stessi, il che è quasi impossibile. Quello che noi dobbiamo raccontare è il paradosso che siamo. Perché un esercito rivoluzionario non pianifica la presa del potere, perché un esercito non combatte se questo è il suo lavoro.

Tutti i paradossi che abbiamo affrontato: che siamo cresciuti e siamo diventati forti in un settore della società che è completamente separato dai canali culturali.

Se tutto il mondo sa chi è lei, perché il passamontagna?

Per civetteria. Non sanno chi sono, però intanto non gli importa. Quello che si sta giocando qui è ciò che è e non ciò che era il subcomandante Marcos.

[fonte: EZLN al DF - http://www.ezlnaldf.org

link per altre informazioni: http://www.cambio.com.co/web/interior.php?idp=21&ids=1&ida=898]


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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