DETRAS DE LA NOTICIA - 19 novembre 2001

Atenco: popolo ribelle

Ricardo Rocha

"Non siamo uno, non siamo 100... pinche governo, contaci bene!", gridano in coro gli abitanti di San Salvador Atenco nelle loro manifestazioni, lungo il loro cammino che si è già prolungato fino a Città del Messico.

Ed hanno ragione. Sono più di 30 mila gli abitanti di questo ed altri paesi vicini che sono stati colpiti dal recente decreto di espropriazione presidenziale, che vuole occupare le loro terre per la costruzione del nuovo aeroporto in Texcoco.

La loro lotta, man mano che passano i giorni, si indurisce nei metodi, ma si rafforza pure nella convinzione. E ancor di più, negli argomenti legali.

Nessuno può essere d'accordo con la violenza che il conflitto sta generando. Sono giorni di furia che tutti abbiamo potuto testimoniare, durante gli scontri degli ejidatari con i granaderos per le strade ed i viali della capitale, che è di tutti. Però non possiamo neanche essere d'accordo con le conclusioni elementari di numerosi mezzi di comunicazione e di diversi politici, che squalificano la lotta di questi contadini, per il fatto che usano machete e bastoni per lottare e manifestare.

Sembrerebbe che voglia ridurre tutto ad una visione moralistica, che è intollerabile che si permetta loro di fare così, "alterando il ordine pubblico". Se fosse davvero così, temo che dovremmo incarcerare un popolo intero, pure vecchi, donne e bambini.

Perché Atenco è sul piede di lotta ed i suoi abitanti sono furiosi contro tutto ciò che significhi governo.

Sono risentiti, si sentono colpiti, insultati e derubati. E non basta.

E le ragioni le hanno: su un totale di 13 municipi mexiquensi danneggiati dal rettangolo aeroportuale di 5 mila 300 ettari espropriati, Atenco viene ferocemente castigato, devastato, annientato; ci sono municipi - ejidi che hanno perso dai 30 ai 300 ettari, ma San Salvador Atenco è stato spogliato di mille 400 ettari, che significano il 90% del suo territorio.

In altre parole, il decreto li condanna all'estinzione come comunità, alla sparizione come cultura, alla disintegrazione famigliare, al cambiamento obbligatorio d'indirizzo.

È un genocidio.

Ecco perché la furia come imperativo di sopravvivenza, perché le grida e le canzoni esaltate di ribellione di ogni giorno: "Zapata vive... la lotta continua!", e alcune altre di un radicalismo tanto attuale, come preoccupante nei termini concreti: "Se non c'è soluzione, noi bambini contro Los Pinos, facciamo saltare un aereo!".

Questa furia inaudita ha una genesi: da aprile di quest'anno, gli abitanti di Atenco hanno intuito e poi saputo che l'aeroporto si sarebbe costruito lì. E ne hanno le prove. Perciò si sono sentiti traditi dal loro presidente municipale priista, che hanno espulso e ripudiato.

Inoltre nessuna autorità federale o statale si è presa mai il fastidio di prepararli ad assimilare la decisione e di far loro capire la famosa "causa di pubblica utilità" ed i presunti vantaggi e benefici che a loro deriveranno - se davvero poi ci saranno - con la costruzione dell'aeroporto.

Tutto si è deciso con freddezza sul tavolo dell'ambizione del gran affare, con impersonali programmi al computer e nel migliore dei casi, dalle altezze degli elicotteri che "hanno fatto ricognizioni" sulla zona. Inoltre, si è deciso di pagar sette pesos al metro quadrato la loro terra.

Quindi, la totale ed assoluta ignoranza delle autorità che dall'alto hanno dimenticato quelli in basso, ha concluso insultandoli irreparabilmente: hanno detto: che si trattava di terre salnitrose inutili e improduttive per l'agricoltura, che non c'erano altro che casupole e che gli abitanti sarebbero stati ben felici di convertirsi in tassisti e portabagagli, con la consolazione addizionale di mettere i loro figli in qualche scuola tecnica, per poi trovare qualche impiego stagionale negli hotel, che sicuramente sarebbero sbocciati come funghi.

Perciò non c'è marcia indietro. Ancora una volta l'ignoranza, la superbia e la codardia hanno ereditato il compito di governare e hanno acceso la miccia della violenza.

Il dado è tratto. Quelli di Atenco dovranno portarli via morti dalle loro terre.

Lo so perché ho visto la determinazione nei loro volti. Ho percorso con loro i loro campi quasi pronti per il raccolto. Ho visto le loro mucche, i loro agnelli e le loro lacrime. Mi hanno parlato delle loro battaglie di decenni contro il sale per lavare e fecondare la terra. Mi hanno mostrato le tombe dei loro morti, la dignità delle loro case e la permanente generosità del loro comportamento. E mi hanno invitato a provare il sapore del loro mais, cucinato sul comal.

Raccontano che nelle sfere ufficiali dicono che gli atenquensi sono politicizzati e manipolati; che li manipolano il PRD e il CGH.

Non capiscono, e i nuovi insulti alla capacità di comprendere e di gestione non fanno altro che esacerbare ancora di più gli animi e serrare ancora di più le fila fraterne del popolo contro la spoliazione.

Dicono anche che alcuni geni stanno preparando un'offerta spettacolare per moltiplicare abbondantemente gli insultanti sette pesos, troppo tardi: proprio non lo capiscono.

Atenco è oggi una fiera ferita nella sua dignità e nel suo orgoglio. Attenzione a continuare a provocarla. È un avvertimento che bisogna tener ben presente. Se si vuole evitare il sangue.

"Da qui, non ce ne andiamo nemmeno per tutto l'oro del mondo", mi ha detto una bambina scura di pelle con occhi molto grandi.

E io le ho creduto.


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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