un articolo per il manifesto del 13 settembre

IL RIENTRO DALL'ESODO

Gianni Proiettis

San Cristóbal de Las Casas - Alla fine di agosto, negli Altos del Chiapas, è cominciato il rientro dall'esodo. Più di sessanta famiglie di desplazados hanno lasciato i campi profughi di Chenalhó, in cui vivevano da quasi quattro anni, per fare ritorno a casa. O meglio, a quello che rimane delle loro case, distrutte e saccheggiate dai paramilitari.

"Questo ritorno va visto come una dimostrazione di pace e di speranza", ha detto il vescovo Samuel Ruiz, denunciando al tempo stesso di non sentire abbastanza garantite le condizioni di sicurezza dei rifugiati. Le sofferenze di questa gente - 361 persone appartenenti all'organizzazione cattolica Las Abejas, che condividono la sorte di migliaia di desplazados in Chiapas - hanno realmente una profondità biblica.

La mattanza di Acteal, nel Natale del 1997, in cui 45 fedeli in preghiera, in maggioranza donne e bambini, furono trucidati da una banda paramilitare, marca uno dei punti più bassi della barbarie contemporanea. Ma segna anche l'inizio di un'odissea, per gli scampati alla strage.

Costretti ad abbandonare le case, le modeste proprietà, i pochi animali, hanno vissuto da allora sotto teli di plastica, scarsamente nutriti, esposti alle intemperie. Chi ha visitato in questi anni i campi profughi di Chenalhó, accampamenti fangosi e insalubri che "ospitano" quasi la metà dei 13mila profughi del Chiapas, capisce perché né l'Unione europea né la Croce rossa internazionale si vantano dell'assistenza data. La Cri, poi, in questi anni in Chiapas ha perso molto del suo lustro ed è sembrata più impegnata a compiacere il governo di turno che a mettere in pratica la sua tradizionale politica di neutralità. Il fatto che non abbia scortato la marcia zapatista alla capitale nella primavera scorsa, rifugiandosi dietro pretesti burocratici, è solo l'ultima prova di un lungo deterioro.

A quasi quattro anni dalla strage, le vittime di Acteal reclamano ancora giustizia: nessuno dei mandanti è dietro le sbarre. E i sopravvissuti tornano a casa sfidando le minacce dei paramilitari, che nessuno ha ancora disarmato. Il ritorno è stato accompagnato dal governatore Pablo Salazar Mendiguchia, dal vescovo di San Cristóbal, Felipe Arizmendi, e da circa duemila osservatori.

"Oggi in Chiapas, si vive un momento di grande tensione", dice Marina Jimenez, che dirige il Centro di diritti umani Fray Bartolomé de las Casas. "E le prossime elezioni statali del 7 ottobre, per rinnovare il parlamento locale e i municipi del Chiapas, accentueranno la polarizzazione già in atto."

Sulla ley indigena votata dal Parlamento e definita "una beffa" dagli zapatisti e dal Congreso Nacional Indigena, Marina Jimenez non ha dubbi: "Con l'approvazione di quella legge, che ha addirittura ridotto dei diritti accordati in precedenza, il potere legislativo ha perso il treno per riparare un'ingiustizia storica, che dura da 500 anni. In molte comunità si è passati dall'aspettativa allo sconforto."

L'alta marea

Lenta e inarrestabile, come tutte le marce che cambiano la storia, l'avanzata del movimento indigeno verso il pieno riconoscimento dei propri diritti è ancora lontana dalla meta. Intanto, sta percorrendo i canali della controversia legale.

Accalcati su una dozzina di pullman, scortati da un manipolo di deputati statali, i sindaci di 247 municipi dello stato di Oaxaca hanno presentato alla Corte suprema una serie di eccezioni costituzionali alla ley indigena. Per portarsi dietro le pratiche, diligentemente duplicate in 20 copie come prescrive la legge, hanno utilizzato un camion da cinque tonnellate. Lunedì scorso, dopo una passeggiata simbolica per le strade di Città del Messico, hanno consegnato gli incartamenti alla Suprema Corte de Justicia de la Nación.

Se si sommano ai 49 ricorsi presentati da altri municipi, enti pubblici e governi statali, sono già 296 le controversie costituzionali sottoposte al tribunale supremo fino a questo momento. E sono destinate ad aumentare.

"È una legge che non soddisfa molte comunità indigene", dice lo scrittore Carlos Fuentes, "ma il fatto che sia stata approvata non implica che non sia modificabile, oggetto di dibattito, di movimenti sociali, di critiche, al fine di modificarla."

Di fatto, è stata proprio la ley indigena, pubblicata frettolosamente dall'esecutivo sul Diario Oficial de la Federación senza aspettare il parere della Corte suprema, a mostrare l'insanabile divorzio fra il Messico legale e quello reale. Tutti e due in movimento, è vero, ma in direzioni opposte.

La finta disponibilità mostrata dal governo Fox nel permettere la marcia zapatista della primavera scorsa rivela oggi, dopo pochi mesi, il suo reale cinismo. Dei tre segnali richiesti allora dall'Ezln - liberazione dei detenuti politici zapatisti, ritiro di sette accampamenti militari, approvazione della ley Cocopa - nessuno è stato compiuto interamente.

Le intimidazioni alle comunità che simpatizzano con gli zapatisti non sono affatto diminuite, le violazioni dei diritti umani e i soprusi sono una triste routine, non un solo soldato è uscito dal Chiapas, nessun gruppo paramilitare è stato smembrato o disarmato.

E, in questo clima, il governo ha lanciato un nuovo invito al dialogo, per bocca del commissario per la pace Luis H. Alvarez. Chi è disposto a credergli?

Informe a la Nación

La settimana scorsa Vicente Fox, prima di partire per gli Stati Uniti, sebbene sia in carica da soli nove mesi, ha dovuto presentare il suo primo rapporto annuale alla nazione di fronte alle due Camere riunite. Un rituale, che ai vecchi tempi rappresentava l'omaggio incondizionato di una classe politica al suo capo supremo, si è trasformato in un deludente rendiconto.

Fox, il presidente che incarna "un governo di e per industriali", ha dovuto penare con le carte false della macroeconomia. Per chi aveva promesso una crescita economica del 7% e la creazione di un milione di posti di lavoro non è facile spiegare il mezzo milione di impieghi perduti e una crescita zero.

Dopo aver spezzato con la vittoria elettorale del luglio 2000 il regime del Partido Revolucionario Institucional, il partito-stato che aveva dominato il Messico per 71 anni, a Vicente Fox, primo presidente dell'opposizione, sono bastati nove mesi per deludere l'elettorato. Lui stesso ha dichiarato, nel discorso dell'Informe, che "alternanza non significa cambiamento". Ma come? Non era lui che, in campagna elettorale, aveva fatto del cambiamento la sua parola d'ordine?

La nuova realtà, scaturita dalle elezioni dell'anno scorso, è l'associazione fra il Pri e il Pan, il partito della destra cattolica che sostiene Fox, per difendere gli interessi di sempre.

Lo si è visto con la ley indigena, votata di spalle alla nazione dopo aver finto di ascoltare i rappresentanti dei popoli originari nel Congresso. Con una riforma fiscale che vorrebbe imporre l'Iva a medicine e alimenti. Con l'insperato aiuto dato al Pri, quando tutti lo davano per spacciato. E, soprattutto, con una subordinazione canina all'amministrazione Bush.

Dal viaggio di Fox a Washington, che si è concluso sabato, si sperava che scaturisse un accordo migratorio per regolarizzare i tre milioni di messicani che vivono e lavorano illegalmente negli Stati Uniti. Ma il presidente Bush, fiutando l'opposizione del Congresso a un'amnistia agli immigranti illegali, ha già imposto una brusca frenata alle trattative.

L'amministrazione statunitense oscilla fra la prudenza e il bisogno di conquistare gli otto milioni di voti messicani per le elezioni legislative dell'anno prossimo: una percentuale di gran lunga superiore a quella che permise la vittoria di Bush su Gore e che consentirebbe ai repubblicani di conquistare l'anelata maggioranza nelle due Camere.

In ogni caso, i congressisti nordamericani, che sono quelli che hanno l'ultima parola in materia, convergono su un solo punto: ritardare il più possibile la regolarizzazione degli illegali e concederla poco a poco per settori, privilegiando l'agricoltura e i servizi.

Mentre Fox ripeteva ossessivamente la parola "fiducia" - per ben 32 volte - di fronte al Congresso Usa e il suo ministro degli esteri, Jorge Castañeda, cercava di vendere l'idea di una nuova grandeur messicana sulla scena internazionale, ci ha pensato Carlos Fuentes a riscattare l'onore nazionale, definendo George W. Bush "un energumeno ignorante".

"È un presidente che in soli sei mesi ha buttato a mare tutti i trattati internazionali sull'ambiente, di tipo sociale, tutti i programmi umanitari, per la pace. Ha creato una situazione di tensione innecessaria, di rottura".


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