REFORMA 12/2/01

Il Comandante Tacho: "Vogliamo rispetto"

Chiapas, Messico - (11/feb/2001) -A continuazione presentiamo una lunga, lunghissima conversazione che abbiamo avuto con il Comandante Tacho, molto vicino a La Realidad, in Chiapas.

Nonostante il suo passamontagna, ci è sembrato sempre molto vicino e, soprattutto, sincero. Sicuramente grazie all'intensità del suo sguardo ed alla sua voce tranquilla e calda.

Dopo averlo ascoltato per più di una ora, siamo arrivati alla conclusione che il Comandante dell'EZLN, con il Subcomandante Marcos, è molto ottimista rispetto ai risultati della Carovana della Pace.

"Chi è Tacho?" è stata la prima domanda che abbiamo formulato.

"Tacho è un indigeno, un contadino analfabeta. Non ho avuto la fortuna di nascere in una comunità dove ci fosse un maestro. Perciò non ho né la quarta, né la quinta. Però ho imparato a lavorare da molto piccolo. Vivo con la mia famiglia e, da alcuni anni a questa parte, sono diventato il 'Comandante Tacho'. Sono membro del Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno.

"Il compagno Subcomandante Marcos è il capo delle truppe insurgenti dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Il mio lavoro è quello organizzativo, è un lavoro di organizzazione interna dei popoli e delle regioni dove ci troviamo geograficamente. Questo è il mio ruolo, un ruolo organizzativo dentro al Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno.

"Al compagno Maggiore Insurgente Moisés compete la gerarchia del comando dell'esercito. Lui viene dopo il compagno subcomandante Marcos. Poi vengono un compagno capitano, un tenente e un sottotenente. Questa è la gerarchia reale dell'Esercito Zapatista".

La Carovana della Pace

"Per la prossima Carovana per la Pace (che arriverà l'8 marzo al Distretto Federale), abbiamo chiesto alla società civile e agli altri popoli indigeni, in particolare al Congresso Nazionale Indigeno, che uniti costruiamo la strada, il cammino, l'accompagnamento, la ricerca di quei diritti che non abbiamo ottenuto e che ci hanno negato da più di 500 anni.

"Sono gli stessi diritti dei popoli originari che sono rimasti nell'oblio. Per questo partiamo: per parlare, per chiarire, per dire ciò che vogliamo come popoli indigeni di tutto il territorio nazionale.

"Andiamo per comunicare che non vogliamo la guerra. Andiamo a chiedere la pace, però una pace che sia giusta, degna, dove si riconoscano i diritti di tutti gli indigeni, degli uomini e delle donne, però anche dove ci riconoscano come siamo, con tutte le differenze che esistono per i nostri dialetti, costumi e tradizioni. Vogliamo che tutto ciò sia incluso.

"Non vogliamo dividere il paese. Quello che vogliamo è che ci si assuma la responsabilità. Che riconoscano che siamo parte del Messico. Vogliamo dire: Qui siamo. Siamo noi. Siamo messicani. Siamo indigeni.

"Vogliamo, soprattutto, chiedere rispetto. Rispetto per quello che siamo. Rispetto per le nostre norme organizzative come popoli indigeni. Rispetto per i modi di eleggere le nostre 'autorità'. Per le nostre modalità che hanno dimostrato che sì, è possibile continuare ad organizzarsi come abbiamo fatto.

"Lungo questi 500 anni abbiamo dimostrato che sappiamo dirigerci da soli. Non abbiamo bisogno di nessuno che venga a dirci che cos'è che dobbiamo fare. No. Noi indigeni sappiamo risolvere i nostri problemi giorno per giorno. Per esempio, quando abbiamo fame, sappiamo che fare. Sappiamo pure quando una 'autorità' non sta funzionando bene. Allora la cambiamo. La togliamo. Mettiamo un'altra 'autorità' che noi stessi eleggiamo. Sappiamo le necessità che ha l'altro, l'altro fratello, l'altro compagno, l'altra compagna, perché non stiamo parlando degli interessi di una singola persona, ma dei bisogni di tutto il popolo".

"Esistono 36/38 municipi zapatisti"

"Mi viene in mente quando in San Cristóbal i coletos non ci permettevano di camminare sul marciapiede. Queste cose succedevano come niente in quella città, e non solo questo. Allora non c'era solo questo problema, c'era il problema dell'oblio, quello della morte, il fatto che non si poteva dire nulla, che eravamo fuori dal sistema.

"Da quando siamo riapparsi esistono 36/38 municipi zapatisti sui 410 istituzionali. Siamo molti: i compagni delle basi d'appoggio, uomini, donne, bambini, giovani, anziani e tutti viviamo qui, in nessun altro luogo. Viviamo in municipi autonomi. Quello che c'è è che noi zapatisti formiamo un Consiglio, che è l'autorità nominata dai popoli indigeni. Loro decidono che compagni eleggere. Questo succede non soltanto fra noi zapatisti, ma anche in altre parti del paese, perché i popoli indigeni hanno i loro usi e costumi.

Vale a dire che, per loro, questo è importante: alzare la mano perché un altro compagno diventi la 'autorità'. È importante perché conta la sua partecipazione diretta. E può dire: 'Io sono d'accordo, eleggo questo compagno perché ci rappresenti. Lui ci rappresenterà per tre anni'. Questa è la differenza con un municipio istituzionale che invece dice: 'Questo è il programma, guardalo e questo è il Presidente Municipale ed è lui che dirà quello che si va a fare'. Qui è differente. Le autorità autonome sono quelle che discutono con questa assemblea di 'autorità' dei villaggi, che a loro volta sono rappresentati da un commissario, un agente municipale o da quello che nominano nella loro assemblea tutti i villaggi. Ci sono altri indigeni che non si identificano come basi d'appoggio zapatiste, che però partecipano lo stesso nel municipio autonomo.

"Questi municipi autonomi non sono solo creati dalle basi d'appoggio, ma anche da altri villaggi. Per esempio, quando qualcuno commette un reato, la prima cosa che fa l'autorità istituzionale è quello di metterlo in carcere. Lì sta per giorni o per anni. Quello che si fa in un municipio non istituzionale è di dire: "A secondo del reato, va a pagare il suo castigo". E così il colpevole va a lavorare a beneficio del villaggio o del municipio dove ha commesso il reato. Queste sono le differenze. Non si accetta che un reato venga cancellato con un pagamento, che si aggiusti con 5 mila pesos. Sarebbe troppo comodo. Da noi, questo non esiste. Noi vogliamo che impari, che non lo faccia un'altra volta, che riconosca che quello che ha fatto sta producendo del male e che è stato male. Il giudizio pubblico è la vita quotidiana dei villaggi indigeni. Abbiamo appreso questo molti anni fa. È un modo di governare che esiste dentro i popoli indigeni. Abbiamo imparato il rispetto che si deve dare all'essere umano e quello che si deve ricevere. Questo è ciò che ci permette vivere in comunità, di vivere in un villaggio dove si decide.

"Dipendendo dalla regione dove viviamo, come indigeni, esistono diverse tradizioni. Ci sono altri compagni indigeni di altri stati della Repubblica che hanno un altro modo di nominare le autorità che li rappresentano.

"Questo tipo di organizzazione è quella che ha reso possibile che sopravviviamo dopo 500 anni. Questa esperienza ci sta dicendo che: Sì, possiamo organizzarci, sì possiamo eleggere, sì ci ascoltiamo e sì, è possibile andare avanti".

Cercando il rispetto culturale

"Quello di cui abbiamo bisogno è che si riconosca che tutto ciò esiste, perché per ora non c'è una legge che riconosca questo nostro modo di governarsi, questo nostro modo di eleggere e di riconoscersi...

"Quello che noi vogliamo è che si rispetti questa modalità di governo. Però non basta, perché sia valido, deve esistere una legge nella Costituzione. Allora sì, sarà considerata legale e non ci tratteranno più come secoli fa.

"Appena un anno or sono ci trattavano da delinquenti. Ci trattavano come se stessimo violando le leggi. Quanti compagni sono detenuti nelle carceri solo perché sono stati eletti come 'autorità' o perché simpatizzavano con il movimento zapatista o per qualche altro motivo simile? Dato che non c'è una legge nella Costituzione, allora risulta un reato.

"Noi non vogliamo separarci dal nostro Messico. Vogliamo esser parte di questo paese. Vogliamo che ci trattino bene. Vogliamo che ci rispettino come esseri umani con tutto ciò che siamo, con la nostra forma di organizzazione, con la nostra cultura, con le nostre credenza, con tutto ciò che siamo".

Tacho si dimostra ottimista nella ricerca della pace

"Anteriormente (prima del 1° gennaio del 1994) non avevamo speranza come oggi. Adesso speriamo che arriveremo ad una pace giusta, degna e autentica. Prima morivamo per una diarrea, per un po' di febbre, per infermità curabili. Con la pace tutto ciò cambierà!

"Il fatto che esista l'EZLN dà un altro senso alla nostra vita. Per ora come popoli indigeni non possiamo dire che le cose siano già cambiate. Quello che sì è cambiato un poco è l'atteggiamento. Sotto questo aspetto, io credo che nei popoli indigeni, soprattutto tra gli zapatisti, ci sia stato un cambiamento. Prima, per esempio, le compagne, le donne, che adesso hanno già degli incarichi, non partecipavano neanche ad un'assemblea. Non potevano proporre qualcosa, né prendere decisioni. Però adesso hanno dimostrato che sì, è possibile, che ne hanno la capacità... quello che serve loro è che le tengano in conto.

"In ogni villaggio ci sono promotori e promotrici di salute e ciò ha reso possibile che a poco a poco le donne vadano assumendo delle responsabilità e che lo facciano già nella pratica. Questa è una delle cose in cui abbiamo potuto vedere il cambiamento all'interno dei villaggi.

"Abbiamo pensato perciò che la pace sarà possibile".

"Il passamontagna è il meno"

"Quello che noi vogliamo è parlare con il Potere Legislativo. Vogliamo dargli dei chiarimenti, dirgli che vogliamo che ci riconoscano.

"Non è importante se andiamo con o senza passamontagna. Quello che importa è che si riconoscano i diritti degli indigeni messicani.

"Il problema non è il passamontagna, il problema è un altro, quello che gli accordi vengano sanciti dalla legge e che siano scritti nella Costituzione perché noi indigeni possiamo essere rispettati. Non stiamo chiedendo altro.

"Vogliamo solo che ci riconoscano. Perciò, quando adempiano le nostre richieste vogliamo solo toglierci il passamontagna. Non vogliamo rimanere così. Vogliamo avere una vita normale.

"Noi abbiamo questa disponibilità e non solo la disponibilità, lo desideriamo. Noi abbiamo già fatto una guerra, sappiamo già che cos'è una guerra e non la vogliamo più. Vogliamo vivere.

"Se stiamo lottando è per vivere, perché viva il nostro popolo, perché viva il Popolo del Messico e perché gli indigeni siano rispettati.

"Quello che vogliamo è poter vivere una vita degna, giusta, autentica e che ci tengano in conto. Perciò, chiediamo alla società civile il suo appoggio morale. Uniti possiamo riuscire molto meglio ad ottenere la pace. Perciò andiamo a Città del Messico, perché ci appoggino e ci riconoscano".


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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