PROCESO - Semanario di Informazione e Analisi - N.1271

11 marzo 2001

La intervista insolita

- Carismatico? No, è solo venuto a riempire un vuoto

- Tutti i militari, compreso il sottoscritto, sono uomini assurdi ed irrazionali

- La violenza è sempre inutile

- Fox deve convincersi che governare non è un rating

Si prospetta un fatto insolito. La televisione messicana Televisa, che 20 anni or sono si era alleata con i golpisti del presidente Luis Echeverrìa per far espellere dal giornale Excèlsior il suo direttore Julio Scherer Garcìa ed il gruppo di giornalisti che lo appoggiavano in quel momento aspramente storico, arriva oggi con le sue telecamere per trasmettere le conversazioni tra il fondatore di Proceso ed il subcomandante Marcos.

Si intravede, ed è un fatto insolito, ma anche un segnale di apertura. L'intervista di Julio Scherer Garcìa, pubblicata su queste pagine e trasmessa la notte di sabato 10 attraverso il Canale 2, indica una volontà giornalistica comune di fronte ad un avvenimento che entrambe le parti giudichiamo importante.

Ai lettori, e adesso anche agli spettatori di Proceso, interessa più di tutto capire meglio la nostra realtà. Siamo nati per ottenere questo. Viviamo per raggiungere questo.

Alle 11 di notte di venerdì 9 marzo è squillato il telefono alla Direzione del Proceso.

- Rafael? Parla Marcos...

- Come stai Marcos? Che succede? Ci tieni nell'incertezza, che è peggio della delusione. Sei disponibile adesso?

- Certo, andiamo avanti. Per quando sarebbe?

- Anche subito, se puoi...

- A che ora?

- Bene, vediamo. All'una, quanto ci basta per arrivare, con tutta l'apparecchiatura di "Televisa"...

- Accidenti, anche con "Televisa" e tutto...

- Non ti stupire... Te lo avevo detto nella lettera...

- D'accordo, non te la prendere...

E fu così che alle due precise della mattina di sabato 10 iniziava l'intervista di Julio Scherer Garcìa al subcomandante Marcos nel cortile del convento annesso alla Parrocchia della Assunzione di Maria, dove pernottava la carovana dell'EZLN, nella delegazione di Milpa Alta. Si compiva così lo sforzo di varie settimane per mettere uno di fronte all'altro il fondatore di Proceso ed il leader ribelle, in una intervista che ha avuto come insolito complemento la presenza delle telecamere di Televisa, che condivide con questo settimanale la diffusione di questo avvenimento giornalistico.

L'intervista è durata esattamente un'ora e 15 minuti, in una fredda notte di luna piena nel cortile del convento, con arcate e una fontana come scenario e con il comandante Tacho nel ruolo di silenzioso lontano spettatore.

Qui, un Marcos completamente rilassato, ha conversato, scherzato, distribuito autografi, rispondendo a qualsiasi domanda.


Qualcuno gli ha chiesto: "Quali sono gli incubi che più ti provocano insonnia?".

- Sognare che ascolto quel programma... Come si chiama?... Fox con te, Fox... non so che cosa.

Comunque, ecco qui di seguito la versione integrale dell'intervista di Marcos a Proceso.

- Che si fa, che si dice, chi si prega quando si è arrivati al punto in cui lei è arrivato, tanto contrastato, tanto temuto, tanto ammirato, tanto unico?

- Pensiamo che si sia costruita una immagine di Marcos che non corrisponde alla realtà, che ha solo a che vedere con il mondo che si gestisce nei mezzi di comunicazione, che ha smesso di interloquire con la gente e che ha deciso di renderlo solo interlocutore della classe politica. In questo senso, i mezzi di comunicazioni non sono più preoccupati di quello che chiede la maggioranza della gente, bensì, in un modo o nell'altro, si retroalimentano, perché nel processo di transizione il grande elettore si è trasformato in mezzo di comunicazione. La sua capacità di influenzare nel momento di prendere delle decisioni, la sua capacità di decidere la rotta che il paese deve seguire, perfino definendo i ritmi nei periodi di transizione, tutto ciò ha dato ai mezzi di comunicazione un potere sul quale non hanno neppure riflettuto e, in questo senso, i mezzi di comunicazione trasformano quello che toccano...

- Marcos, lei non può negare la sua figura carismatica...

- Si, certo che posso, come no?

- Non deve farlo, perché lo è. Non m'immagino lei che fa vedere cose consapevole che non sono vere. Lei non può smettere di riconoscere ciò che è, una figura che attrae moltissima gente.

- C'è un vuoto. Il fatto è che c'è un vuoto nella società. C'è un vuoto che si cerca di riempire in un modo o nell'altro. Il vuoto che ha riempito Fox, nel campo della politica, non significa che sia ciò che avrebbe potuto o dovuto essere. La stessa cosa accade con Marcos.

- Con chi si paragona lei come carismatico? Nell'Esercito Zapatista, chi è alla sua altezza?

- All'interno dell'Esercito Zapatista?

- Chi si può paragonare a lei, della gente che lei conosce?

- All'interno, nessuno credo, ma questo non ha nulla a che vedere con...

- E all'esterno?

- All'esterno? Sempre nessuno.

- Ossia, lei è carismatico...

- No, la verità è che l'immagine di Marcos risponde ad alcune aspettative romantiche, idealistiche. Ossia, l'uomo bianco, in mezzo agli indigeni, più vicino a ciò che l'incosciente collettivo ha come punto di riferimento: Robin Hood, Juan Charrasqueado, ecc.

- Cos'è che la rende carismatico?

- Si provocano molti equivoci nella presunta capacità letteraria, nella presunta capacità di manovrare il timing politico, anche se in realtà si sta piuttosto rispondendo alle necessità interne e, nello scompiglio della classe politica nazionale, tutto viene interpretato come se stessimo meditando ogni passo che facciamo. Mi creda, siamo molto più mediocri di quello che pensa la gente; soprattutto, non siamo così brillanti come ci pensa la classe politica.

- Lei non può dire questo...

- Sì che posso.

- La mediocrità non ha nulla a che vedere con lei, neppure come espressione verbale...

- No... Non sto negando ciò che sono, sto solo cercando di spiegare le circostanze nelle quali ci troviamo e così si cancella o si perde la prospettiva reale di ciò che è il personaggio. La maggioranza delle nostre dichiarazioni sono discutibili e non vengono poste in discussione solo perché sono inserite in un contesto sociale che implica altre cose. Mettere in discussione le posizioni di Marcos significa mettere in discussione la legittimità di una causa e questo è sempre problematico, soprattutto a livello intellettuale. In un modo o nell'altro questo ci ha danneggiato, perché, mi creda, ci fa bene il dibattito, lo scambio di idee. In effetti, noi siamo stati pronti a questo scambio di idee e ci dispiace che per varie ragioni non si sia verificato.

- Vedo il paese pericolosamente diviso: da una parte, le ombre vive di Juan Rulfo; dall'altra, i corpi ben nutriti dal potere e dal denaro. Con tutte le sfumature che si voglia, mi sembra che lei ed il Presidente Fox siate oggi le immagini di questi due mondi. Se è così, c'è tra di voi l'intesa, la fiducia che si possa dar vita alla comprensione?

- Sì. Pensiamo proprio di sì. Noi stiamo continuamente progettando la possibilità di un dialogo. Tutta questa mobilitazione ha l'obiettivo di convincere questa persona - che non ha nulla da perdere ma solo molto da guadagnare - a sedersi davanti a noi con la seria volontà di risolvere il conflitto. Questo non è facile, perché intorno alla figura di Fox sono in gioco molte forze, tra le quali la sua stessa forza: una persona che ha scelto di costruirsi un'immagine intorno ad complesso mercato-tecnico che gli ha dato dei risultati, dei buoni risultati nel periodo elettorale, ma che non può estendersi al periodo di governo. Allora, ecco che abbiamo bisogno di convincerlo che il problema non è un problema di rating, bensì di governabilità ed è questo che noi stiamo offrendo: non una rivolta sociale, ma il riconoscimento di questo settore sociale (gli indigeni), della sua capacità e, infine, della sua differenza...

Mondi opposti

- A parte il fatto che entrambi esercitate una forma di potere, una forma di influenza, c'è qualcos'altro che vi accomuna?

- Il fatto che tutti e due raccontiamo male le barzellette... Però, a parte questo, non solo rappresentiamo due mondi diametralmente opposti, ma anche quello che vogliamo fare è diametralmente opposto. Noi siamo dalla parte del mondo che cammina verso il riconoscimento delle differenze, lui sta camminando verso il mondo che va ad egemonizzare e omogeneizzare non solo la nazione ma l'intero pianeta. In questo caso si cerca di far sì che il concetto di uguaglianza abbia come riferimento la legge di mercato: siamo uguali quando abbiamo lo stesso potere di acquisto. Noi invece stiamo sottolineando proprio le differenze: la differenza culturale, la differenza del rapporto con la terra, del rapporto tra le persone, della relazione con la storia, della relazione con l'altro. Proponiamo un mondo completamente opposto a quello che Vicente Fox rappresenta e andiamo ancora più in là, perché noi affermiamo che nel mondo che proponiamo c'è posto anche per Vicente Fox, mentre, al contrario, nel mondo che lui propone ci risulta molto chiaro che non c'è posto per gli zapatisti.

- Come potrebbe trovare posto Fox nel vostro mondo, dal momento che è un leader, nella dimensione che si voglia, della libera impresa?

- Imparando. Siamo convinti che la libera impresa può imparare a relazionarsi con noi. Non pensiamo che tutti gli impresari siano dei ladri, dato che alcuni di essi hanno costruito la loro ricchezza per mezzo di lavoro onesto ed onorato. Il fatto che alcuni dei personaggi che arrivano alla ribalta pubblica siano invischiati con la criminalità non vuol dire certamente che sia uguale per tutti. Noi non auspichiamo il ritorno del comunismo primitivo, né della cosiddetta uguaglianza "a tavola rasa", che in fin dei conti nasconde una differenza tra la élite politica - di sinistra o di destra che sia- e la grande maggioranza impoverita. Chiediamo che qualunque settore sociale abbia la possibilità di farsi sentire come tale; non vogliamo elemosine, ma solo l'opportunità di realizzarci, in questo paese, come una realtà diversa. Nel Tephè la popolazione sta portando avanti un progetto turistico. Tutti i guadagni vengono divisi collettivamente e l'impresa comunitaria può competere nel mercato, per quel che riguarda la sua efficienza, con qualsiasi dei grandi hotel. E allora, perché non riconoscere a questo gruppo la sua capacità imprenditoriale dandogli i vantaggi e le possibilità di mercato che vengono concesse ai grandi imprenditori proprietari di hotel? È questo che sta in gioco: la possibilità di costruire un altro tipo di relazioni, anche all'interno del mercato stesso, che non rappresentino il capitalismo selvaggio, dove tutti si divorano tra di loro. I potenti di questo paese non si accorgono che i loro giorni sono contati e non a causa di una rivoluzione sociale, bensì proprio per l'avanzamento del grande potere finanziario. Nel Messico, i Garza Sada, gli Slim, gli Zambrano, i Romo e tanti altri delle loro dimensioni non hanno più un futuro assicurato, non per il pericolo che il popolo si sollevi ed instauri una repubblica socialista, ma perché le loro fortune sono ormai nelle mire del grande capitale di altre latitudini.

E allora noi sosteniamo: nel governo non si stanno più prendendo le decisioni fondamentali. E allora, perché preoccuparci se il governo è di sinistra, di destra o del centro, sempre che esista un centro?

Pensiamo che in Messico debba essere ricostruito il concetto di Nazione e che ricostruire non vuol dire tornare al passato, non è un tornare a Juarez, né al liberalismo contrapposto al conservatorismo. Non è quella la storia che dobbiamo riscattare. Dobbiamo ricostruire la nazione su basi ben diverse e queste basi poggiano sul riconoscimento della differenza.

Quando diciamo che il nuovo secolo ed il nuovo millennio rappresentano il secolo ed il millennio delle differenze, sottolineiamo una rottura fondamentale con quello che è stato il secolo XX: la grande lotta delle egemonie. L'ultima che ricordiamo, tra il campo socialista e quello capitalista, ha dato luogo a due guerre mondiali. Se non ci si rende conto di questo, il mondo finirà per essere un arcipelago in guerra continua all'interno e all'esterno. E così non sarà possibile vivere.

Il Progetto Puebla-Panama

Ciò nonostante, il mercato può adattarsi a questa realtà; è possibile che operi in uno scenario di destabilizzazione o di guerra civile e continui ad avere quotazioni nella borsa valori. Alla gente di tutto questo non si dice nulla ma, al contrario, viene offerto un mondo idilliaco nel quale apparentemente non esistono frontiere per comprare o per vendere... Però in realtà le frontiere non solo continueranno ad esistere, ma addirittura si moltiplicheranno, proprio come avverrà con la realizzazione del progetto Puebla-Panama, che sarà un grande crimine: gli Stati Uniti estenderanno la frontiera fino a qui, fino a Milpa Alta, dove ci troviamo adesso. E il resto del Paese, verso il Sud, sarà Centro-America, e "OK", che convivano con le loro guerriglie, con i loro governi dittatoriali, con i loro cacique, come in Yukatan e in Tabasco -il Chiapas fortunatamente ha avuto un break sotto questo aspetto- , che continuano a seguire la logica delle repubbliche delle banane. Nel resto del territorio messicano, da qui fino al nord, incomincia ad essere attuato un brutale processo di eliminazione dei grandi settori sociali. Inoltre, tutti gli indigeni che resteranno da questa parte dovranno sparire, perché non verranno accettati da questo modello neoliberale, dato che non rendono. Nessuno farà investimenti su di loro.

Solo se Fox è una persona seria, ci saranno dei risultati

-Marcos, questo non è uno scherzo. Dal punto di vista del suo modo di vedere le cose, io credo che il presidente Fox stia dicendo: quanto tempo ci vorrà perché tutto questo venga approvato?

- Noi stiamo cercando di aiutarlo il più possibile. Ovviamente, il nostro modo di attuare non è politico. Lui deve capire, tutti devono capire che non siamo una forza politica nel vero senso della parola: siamo un gruppo armato che sta facendo politica e, in questo senso, ci portiamo dietro carenze, errori di criterio, un orizzonte molto limitato, camminando sul filo del messianismo e del realismo politico, tutte cose molto difficili per noi. Ci proponiamo di cercare di convincere questo governo, non soltanto Fox, che può sedersi con noi con la certezza di ottenere buoni risultati se lo fa seriamente. Noi non siamo assolutamente impegnati a danneggiare o far fallire in qualche modo il suo programma di governo - che però fallirà, non perché sia un cattivo governo, ma semplicemente perché non esiste -. Ciò in cui siamo impegnati - lo abbiamo dichiarato in tutta questa marcia e lo vediamo riflesso in tutti i mezzi di comunicazione- è che si riconosca il consenso assoluto al fatto che questo è il momento di saldare il debito storico.

Il Messico compie quasi 200 anni come nazione indipendente ed in ogni momento gli indigeni hanno rivestito un ruolo fondamentale, ma in nessun momento questo è stato loro riconosciuto. Non possono continuare a cercare di farci scomparire, perché su questo fronte già hanno fallito. Non potranno mai far scomparire il mondo indigeno con qualsiasi campagna, con qualsiasi bomba, con qualsiasi arma che vogliano usare, dato che, in un modo o nell'altro, il movimento indigeno resiste e si protegge. Hanno fallito gli spagnoli, i francesi, gli statunitensi e tutti i regimi liberali, da Juarez a quello di oggi. E allora, perché non ammettere che gli indigeni sono qui e che è necessari dar loro delle opportunità? Noi, quello che chiediamo, è una opportunità. E se poi sbaglieremo, lo riconosceremo, dato che non staremo peggio di come stavamo prima...

Vocazione di morte, persa

- Marcos, continuo a far paragoni tra lei ed il presidente. Entrambi parlate di pace. Può darsi che il presidente lo faccia per la propaganda e lei perché è sotto lo sguardo e la voce adirata degli emarginati. Ho una certa qual percezione di violenza, ancora sopita, ma che già si respira nell'aria. Lei ha detto a Carlos Monsivàis che se non ci saranno accordi "scoppierà qualche cosa". Ha parlato di gruppi sovversivi e ha detto che ce ne saranno di più numerosi e di più intransigenti se non si arriverà a degli accordi. Queste parole mi riportano alla "guerra sporca" degli anni settanta, ma ancora più estesa. Su questo tema, dove va il suo pensiero?

- Guarda, ciò che noi pensiamo è che questa guerra è persa. La "guerra sporca" ormai è persa. In un modo o nell'altro, la nostra presenza e la persistenza dei processi nell'America Latina significano una realtà che nessuno si azzarda a riconoscere: la "guerra sporca" l'anno persa i promotori, quelli che l'hanno incominciata e che alla fine non hanno potuto smettere con i movimenti armati, proprio per il fatto che continuano a rinascere. Se noi falliremo in questo cammino del dialogo - e ci stiamo riferendo all'EZLN e a Fox - il segnale sarà molto chiaro per i movimenti più radicali, per tutto ciò che avrà riferimento alla loro posizione di fronte al dialogo ed al negoziato, dato che queste cose per loro significano ammainare bandiere, significano vendersi, significano tradire. Qualsiasi contatto con il nemico, che non sia per chiedere una resa, è proprio una resa. Se questo segnale in questo caso viene mandato dal PAN, dal governo di Fox e dall'EZLN, questa possibilità avrà in effetti molte probabilità di successo. Non stiamo parlando di gruppi radicali isolati, solitari, che non hanno nessun consenso sociale...

- Come negli anni settanta?

- Lo zapatismo è un movimento sociale che, di fronte alla possibilità della lotta armata, ha preferito scegliere il dialogo e il negoziato e, per ora, ha fallito. Quando ci sono movimenti di ribellione, vince chi non muore, chi persiste, non chi vince. Dal punto di vista del governo, può vincere solo se annienta l'avversario. Ma sarebbe una guerra a lungo termine, durante la quale il terrorismo arriverebbe alla strada in cui vivi, nella tua casa, nel tuo televisore, un po' come è successo nei primi giorni della guerra del 1994, quando hanno incominciato a verificarsi alcuni atti terroristici che non avevano niente a che vedere con noi, quando già si diceva, in altro modo: la guerra non è soltanto in Chiapas, può essere qui, in una via qualunque, in un centro commerciale, nella nostra casa. È tanto grave per la nazione, e io oserei dire per il mondo intero, quello che qui è in gioco, che non si tratta soltanto della Legge Indigena, non si tratta soltanto del successo mediatico di Fox o del rating alto o basso di Marcos, o di quello che lui rappresenta o non rappresenta come simbolo, come mito, come leader sociale o come futuro dirigente della sinistra. Quello che qui è in gioco è la stessa possibilità della soluzione del conflitto. Noi andremo a sederci ad un tavolo e ad annullarci, nel senso che già abbiamo detto: aiutateci a perdere. Quello che stiamo dicendo a Fox e soprattutto al Parlamento è proprio questo: che ci aiutino a perdere. Se abbiamo successo in questa mobilitazione pacifica, che senso ha per l'EZLN o per i movimenti armati continuare ad imbracciare le armi? Però non vogliamo rinnovare le stesse sconfitte del passato.

Noi non vogliamo dare a questo paese un altro corrido, un altro eroe frustrato nel lungo elenco di sconfitte che già abbiamo. Vogliamo scomparire, e che la gente che ti sta vedendo ed ascoltando in questo momento, o che leggerà il tuo articolo nel tuo giornale, sappia che può essere partecipe di tutto questo.

Non chiediamo che votino per noi, né che ci mandino un assegno, né che ci paghino una parcella, niente di tutto questo: chiediamo solo che si risolva una questione storica e che la persona x, chiunque sia, riconosca che occupa un posto, che è parte della propria storia. Non andiamo verso la sinistra, né verso la sinistra più radicale, perché qualche personaggio canti corrido. Non lo faremo, perché proprio non abbiamo questa vocazione. L'abbiamo persa in qualche momento, stando a contatto con le nostre comunità; abbiamo perso la vocazione di morte in questo senso. Tuttavia, questo non vuole dire che la temiamo, dato che non stiamo giocando. Il fatto è che noi non aspiriamo a questo, né vogliamo forzare il movimento per arrivare ad una sconfitta. Questo sarà difficile farlo comprendere alla controparte, perché i loro schemi sono solo schemi del passato. E non li accuso se non lo comprendono, dato che a volte neppure noi ci capiamo.

- Non li accusa di non comprendere?

- Certo, a volte, neppure noi ci comprendiamo. Però per lo meno siamo sinceri, siamo onesti e poco politici e tutti in Messico lo possono dire.

Gli errori di Marcos

- Dentro di lei, nella sua coscienza, quali sono gli errori che ha commesso l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e quali sono gli errori che ha commesso lei personalmente? Trascorsi 20 anni, quanti lei ne ha passati su queste montagne, si dice che non vi è stato alcun miglioramento fra gli indigeni. Lei stesso ha affermato, con ragione, che non vi è stato alcun miglioramento, ma che ora avete la speranza e avete la dignità e che questa è una luce, non una semplice fiammella; è necessario essere libero, scappare, vincere questo stato di miseria di anni... Quanta energia perde un uomo, Marcos, che non può provvedere a se stesso, che non può lavorare, che non può concentrarsi nella lettura di un libro? Ossia, la dignità e la speranza mi sembrano due valori fondamentali. Senza di esse la vita non ha senso, però nella miseria atroce, la dignità è molto difficile, la speranza è molto difficile...

- C'è qualche cosa ancora peggio di tutto questo, che è tramandare a quelli che verranno la mancanza di una speranza. In questo momento, sei cosciente che tutte le difficoltà che stai affrontando le passerai ai tuoi figli e non trasmetterai loro la possibilità di superarle. È questo sentimento di tenacia e di appartenenza alla collettività che ci ha dato la forza di continuare ad andare avanti. Tra gli errori che ha commesso l'EZLN come organizzazione c'è quello di non aver imparato più in fretta delle comunità. Quando si prospetta il fenomeno dei municipi autonomi, l'EZLN si trova tanto impelagato nelle comunità che, in un modo o nell'altro, permeano anche la presa di decisioni. Nel momento in cui le comunità incominciano ad organizzarsi come governo e a prendere delle decisioni, l'EZLN incomincia a scontrarsi con questo. Ed è così che ci rendiamo conto che le comunità hanno imparato, più in fretta di noi, non soltanto a vivere in situazione di resistenza di fronte ad un potere che stanno sfidando, ma anche perché stanno costruendo una alternativa; tu stai pensando alla situazione in cui siamo e loro invece stanno già pensando a quelli che verranno. Loro stanno pensando alle generazioni che verranno, per non tramandare loro questa mancanza di speranza.

L'errore fondamentale di Marcos è quello di non aver dedicato attenzione - ed io lo perdono perché sono io e se non lo perdono io, chi lo perdona? non è così?-, di non aver previsto questa personalizzazione e questo protagonismo che spesso, se non quasi sempre, impedisce di vedere ciò che sta dietro. Tutto questo non ci procura un grande dispiacere come organizzazione, dato che noi sappiamo bene cosa c'è dietro, e vediamo tutta una organizzazione che può continuare a sopravvivere, anche senza guerra... Questo molta gente non lo ha percepito; ha molto a che vedere con il fatto che Marcos abbia offuscato, ostacolato la vista di ciò che sta dietro. Che, in un modo o nell'altro, Marcos sia responsabile anche di questo, bene, può darsi che la sua dose di vanità, di protagonismo o di buffoneria o come si voglia definire, abbia contribuito... Però la causa principale è che la maggioranza della gente - vale a dire, dei giovani- non ha aspettative nello spettro politico, ed è quindi logico che si afferri a quello che c'è a portata di mano; e dall'altro lato, c'è il rilievo che a tutto questo è stato dato nella vita nazionale, in modo particolare nei mezzi di comunicazione, dato che questi ultimi non solo decidono quale protagonista si trasforma in politico, ma anche che posto occupa questo protagonista politico...

- O che il politico si trasformi in comico...

- E al contrario: che il comico si trasformi in politico ed arrivi ad essere presidente... questo taglialo. Sto parlando bene di Fox (...) o ne sto parlando male? Se adesso ne parlo bene, pensa come sarà quando ne parlo male... Ecco come va la pubblicità.

La non esistenza

- Gli indigeni sopportano secoli di sfruttamento, però la loro fame è la stessa fame degli emarginati. Lei ha affermato che la sua lotta è nazionale e chiapaneca, naturalmente. Qualche volta, Marcos, negli incubi e nei sogni, ha ascoltato il clamore di tutti gli oltraggiati?

- Soprattutto in questa marcia. Abbiamo previsto che questo sarebbe successo e le comunità, quando ce lo ordinano, delimitano, o "pongono il laccio", come diciamo noi, affinché si proceda solo verso un certo obiettivo. In un modo o nell'altro, ad ogni passo della marcia, non solo nasce l'ascolto di questo grido, ma anche la tentazione di fargli eco. E niente è più facile, né più irresponsabile. Perché è facile procedere allo stesso passo e dire: "Anche io rivendico la tua lotta e quindi torniamo indietro". Noi abbiamo cercato di resistere a tutto questo e di rispondere alla gente: "Riconosciamo che la tua protesta è giusta, ma per ora andiamo avanti su questo". Non possiamo occuparci d'altro.

- La preoccupa la possibilità che gli emarginati si uniscano a lei?

- Magari. Non mi spaventa e lo vorrei. Quello che non vorrei è che si creino false aspettative su una persona o su un movimento che non è nato il 1° di gennaio del 1994. Noi avevamo alle spalle un lavoro di molti anni e fatto di tanti sacrifici. Non è facile raggiungere la coesione, la omogeneità e la unità che hanno gli zapatisti, che hanno resistito a tanti assalti, a tanti attacchi. E all'improvviso, per i mezzi di comunicazione, sembra che l'EZLN sia nato il 1° di gennaio del 1994. Questa può essere una tentazione: che un movimento possa incominciare così, che il primo passo sarà la legittimità, e questo non è vero. Perché il primo passo della legittimità è il riconoscimento proprio.

- Ma pensi agli emarginati, tanti milioni...

- Questo conflitto non ha rimedio, ed è quello che abbiamo detto a Fox. Su questo punto non ci sono alternative. Quello che adesso è in gioco qui, nel nostro movimento, avvicinandoci alla capitale, è il modo in cui si vuole affrontare questo conflitto. Però non si può pensare che questo conflitto resterà latente o che sarà controllato. Scoppierà. Ciò che adesso dovranno dire è se questo conflitto lo affronteranno per mezzo del dialogo o del negoziato, oppure se preferiranno ricorrere alle armi, ricorrere alla violenza. Dovranno scegliere tra la via politica e la via armata per affrontare questo conflitto.

- La miseria è molto più che un corpo affamato. È la bambina che Heberto Castillo ha visto abbracciata ad una pietra, sua figlia e sono le 50 bambine di un istituto che giocano con la stessa bambolina ridotta ad uno straccio. Lei, Marcos, come vede la miseria?

- Anch'io con l'immagine di una bimba. Una bambina che mi è morta fra le braccia, di meno di 5 anni, morta di febbre, nella comunità di Las Tazas, perché non avevo nessuna medicina per abbassarle la febbre è così mi è morta fra le braccia. Abbiamo cercato di farle scendere la febbre con l'acqua, con panni bagnati, l'abbiamo immersa nell'acqua e tutto, suo padre ed io. Se n'è andata. Non aveva bisogno di un intervento chirurgico, né di un ospedale. Aveva solo bisogno di una pastiglia, di una piccola medicina... E ridicolo, perché quella bambina in un certo senso neppure era nata, non esisteva un atto di nascita. Che c'è di più miserevole di nascere e morire senza che nessuno lo sappia?

- Lei che ha provato?

- Impotenza, rabbia. Ti cade tutto il mondo addosso, pensi che tutto quello in cui pensavi e che tutto quello che hai fatto fino ad allora è inutile, e che se non posso riuscire ad evitare questa morte ingiusta, assurda, irrazionale, stupida...

- E se queste terribili emozioni si ripetono in moltissime occasioni, è possibile una lotta che si intravede nel fondo, anche se non dichiarata, di vendetta?

- Questo è il pericolo. Se questo rancore sociale non si organizza, arriva necessariamente la vendetta. E nel caso dei gruppi indigeni, può tendere al fondamentalismo, e allora non c'è dialogo che tenga... Per questo noi abbiamo detto che è meglio che questo malcontento si organizzi. In ogni caso, che la saggezza e la sapienza di questo movimento scelga.

- Marcos, quante vittime hanno vissuto senza sapere cos'è la vita?

- È proprio questo che non vogliamo che si ripeta. Non vogliamo che si ripetano casi di gente che non nasce e che non muore. Gente che non esiste. Non esiste per te, non esiste per il pubblico, non esiste per Fox e per nessuno. Al di fuori dello loro famiglie, non sono esistiti per nessuno. Adesso, nel periodo di resistenza delle comunità indigene, abbiamo abbassato il tasso di mortalità fino a 200-300 all'anno. Ne avevamo, prima del 1994, 15.000 all'anno. La maggioranza, minori di 5 anni, mai registrati con un atto di nascita...

- Vivere senza esistere, Marcos...

- E non soltanto questo. Se vivi esistendo, è con vergogna. Cercavi di smettere di vergognarti per essere accettato nei capoluoghi municipali e nei centri di lavoro. Con la faccia indigena, eri oggetto di burle ed inganni. Il solo fatto di aver la pelle scura e parlare un altro idioma, già voleva dire che il prodotto del tuo lavoro aveva un prezzo inferiore.

- Lei è un ribelle che esige cambiamenti profondi o un rivoluzionario che lotta per trasformazioni radicali, un altro modo di fare la patria?

- Noi ci consideriamo soprattutto dei ribelli che vogliono cambiamenti sociali. Come dire che la definizione classica del rivoluzionario non ci sta bene. Nel conteso in cui siamo nati, cioè nelle comunità indigene, non c'era questa aspettativa. Perché il soggetto collettivo è tale anche nel processo rivoluzionario ed è proprio questo che indica le regole da seguire.

- Se lei dovesse fallire come ribelle, sceglierebbe la strada della rivoluzione?

- È un obiettivo diverso. Il rivoluzionario tende a convertirsi in un politico ed il ribelle sociale non smette di essere un ribelle sociale. Nel momento in cui Marcos o lo zapatismo dovessero trasformarsi in un progetto rivoluzionario, cioè, in qualche cosa che lo trasformi in un attore politico all'interno della classe politica, lo zapatismo fallirebbe come proposta alternativa.

- Perché un rivoluzionario si trasforma in politico?

- Perché un rivoluzionario si propone fondamentalmente di cambiare le cose dall'alto e non dal basso, proprio all'opposto di un ribelle sociale. Il rivoluzionario si propone: formiamo un movimento, prendo il potere e cambio le cose dall'alto. Il ribelle sociale no. Il ribelle sociale organizza le masse e dal basso cerca di trasformare senza porsi il problema della presa del potere.

- Quando dice tutto questo pensa alla Rivoluzione Messicana?

- Si, penso a Zapata e a Carranza, soprattutto. Carranza, che si propone i cambiamenti nel momento di prendere il potere. E Zapata, che pensa alle rivendicazioni e al momento di farsi fotografare neppure si alza dalla sedia. Noi ci identifichiamo con lo zapatismo. C'è bisogno di politici, disgraziatamente, ma soprattutto di leader sociali. Credo che lo zapatismo debba fare delle scelte e che opterà per i leader sociali.

La Repubblica di TV

- Forse il termine "politico" è adeguato o forse no. Lei me lo potrà chiarire. Io penso che lei sia un politico. Non ho dubbi sul fatto che sia uno scrittore di prosa rimata. Che poeta la ispira? Che statista l'attrae? Che guerrigliero le dà forza?

- Incominciamo dal fondo: come capo militare, Villa. Come movimento sociale armato, Zapata. Come leader sociale, non vedo nessuno nell'attuale orizzonte che risponda al concetto di uomo di Stato. Non c'è. I grandi uomini di Stato appartengono ormai alla preistoria. Adesso vi sono dei mercatologi, buoni o cattivi... Oggi come oggi non metterei la mano sul fuoco per nessuno come leader politico, perché non vedo nessuno che risponda al concetto di uomo di Stato, dal momento che l'uomo di Stato è quello che ha la capacità di guardare avanti e adesso non conosco nessun leader politico che sappia guardare oltre il proprio naso, in tutti i sensi.

- A proposito di Villa, Marcos, nel suo incontro con Vicente Leñero nel 1994 lei già aveva espresso la sua ammirazione per questo personaggio; guerrigliero implacabile, buon soldato e uomo di governo in Chihuahua, secondo la monumentale biografia di Friedrich Katz. Lei s'identifica con El Centauro?

- Vorrei poterlo fare. Era un uomo che aveva la visione di corpo, un uomo preoccupato per le sue truppe e non mi riferisco soltanto alle sue truppe regolari, ma anche ai territori che andava conquistando. Non si preoccupava solo di combattere, ma anche di organizzare. Disgraziatamente, questa parte della sua vita è la meno conosciuta. Ma disgraziatamente, Villa è quello dei corridos, quello del cavallo Siete Leguas.

- Di fronte a queste capacità, quanto pesa la violenza inutile?

- La violenza sempre si rivela inutile, però uno non se ne rende conto finché non la pratica o la subisce

- E lei non se ne è reso conto, Marcos?

- Non lo so. Penso che alla lunga capiterà anche a noi, perché sempre si arriva ad avere dei vuoti o dei buchi al momento di valutare una persona... In definitiva, tutti i militari, compreso il sottoscritto, sono uomini assurdi ed irrazionali perché hanno la possibilità di ricorrere alla violenza per riuscire a convincere. In fin dei conti è proprio questo che fa un militare quando impartisce un ordine. Convince con la forza delle armi. Per questo noi sosteniamo che i militari non debbono mai governare, noi compresi, ovviamente. Perché chi ha dovuto ricorrere alle armi per far valere le proprie idee, è molto povero di idee.

- Voglio farle un'osservazione: le armi non convincono, s'impongono.

- Sì. In fin dei conti è proprio così. Per questo noi sosteniamo che i movimenti armati, per tanto rivoluzionari che siano, sono fondamentalmente dei movimenti arbitrari. Ad ogni modo, ciò che deve fare un movimento armato è sollevare il problema e mettersi da parte. È ciò che adesso stiamo riuscendo a fare con successo, dopo sette anni nelle comunità. Fra gli errori che abbiamo commesso vi è quello di non aver imparato più rapidamente come districarci da ciò. Ci siamo messi da parte per davvero. I municipi autonomi sono tanto autonomi che non ci fanno più neppure caso.

- Il comandante Germàn non è popolare. Dà disposizioni, dirige, dà ordini, sale per primo sul camion, scende per ultimo, riceve i documenti, li distribuisce, parla con la forza del comando. Pesano sospetti su di lui e nessuno parla del suo umanitarismo. Non me lo spiego Germàn, tanto diverso da voi e tanto diverso dagli indigeni, in qualità di portavoce centrale di quello che fa l'EZLN. Nei gradi dell'Esercito Zapatista lui è il comandante e lei il sub. Germàn è quello che dà ordini, è quello che dispone. Lei, in qualche modo, obbedisce, riceve o esegue le istruzioni o gli ordini...

- No! L'architetto Fernando Yañez, che è conosciuto come il comandante Germàn, rappresenta, quando lo convoca l'EZLN, il collegamento con il Potere Legislativo ed i partiti politici; rappresenta un segnale che, come i tanti che abbiamo dato, il governo non ha saputo leggere. Attraverso di lui, sta dicendo l'EZLN, siamo disposti a compiere il passo dalla clandestinità alla vita pubblica. Questo è fondamentale. L'architetto Yàñez sale e scende dal camion perché gli è stato affidato l'incarico della sicurezza. Quelli che comandano, nell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, sono i capi indigeni. Questa è la verità. Però, la percezione che hai tu e coloro che ci stanno vedendo adesso è che ci sono io e alle mie spalle deve esserci Tacho che mi protegge... Ma dalla parte delle comunità le cose sono al contrario: ci sono loro per prime e noi dietro... L'architetto Yañez non ha alcun comando né ascendenza militare all'interno dell'EZLN. Sta rispondendo ad una richiesta che noi gli stiamo facendo perché vogliamo dare questo segnale che nessuno sta percependo. E se un movimento armato sta dicendo che le cose vanno in un certo modo e che, guardate, siamo disposti a questo, ma nessuno ci fa caso, allora è chiaro che la classe politica ha bisogno di una bella lezione.

- Non mi sento coinvolto, perché questo segnale non è stato esplicito.

- Però si accompagna ad altri. Quello che il governo messicano si sta chiedendo è fino a che punto Marcos e l'EZLN non stiano giocando con una scommessa di popolarità e di logoramento di nervi, per guadagnare tempo. Prima, con Zedillo, noi eravamo disposti a firmare la pace con lui, che era un imbecille, un mediocre, e adesso ecco che si allora si può dire, perché non andiamo a farlo con Fox, che per di più è il prodotto di un processo elettorale legittimo. A noi non spaventa il fatto di firmare la pace con la destra, perché non è questo il nostro problema. Sarebbe lo stesso problema se al potere ci fosse ora la sinistra elettorale. Noi stiamo cercando di convincere la controparte, in questo caso il governo federale, del fatto che siamo disposti a risolvere tutto questo e a farlo in fretta, ma abbiamo necessità di una serie di segnali. Noi ne diamo uno. Non lo vedono, forse perché non lo facciamo nella maniera politica, ma è chiaro non ci è mancata la volontà. Se non riusciamo a fare in modo che tu veda questo segnale o che la classe politica veda questo segnale, questo è per noi un fallimento e allora andiamo a cercarne un altro, ma penso che questo paese deve saldare un conto aperto con tanta gente, non solo con Yàñez, ma con molte persone che sono rimaste lungo il cammino con tutti i movimenti clandestini, che sono molto più potenti in termini di patriottismo e di impegno sociale, nonché di sacrificio, di quanto possa dire qualsiasi corrido in onore di Lucio Cabañas o di Genaro Vàsquez. Quello che noi volevamo fare, ed è evidente che non ci siamo riusciti, è riunirci con il Potere Legislativo... Ciò che vogliamo dire è che noi non intendiamo fingere di fare la pace. Vogliamo sederci a negoziare e, se dall'altra parte c'è volontà, arrivare fino in fondo. Se siamo stati disposti a farci ammazzare, perché non dovremmo essere disposti a negoziare? Non abbiamo nessuna vocazione suicida.

- Quali saranno i suoi prossimi passi?

- Continua il processo di pace. Se noi otteniamo, e credo che lo otterremo, il riconoscimento dei diritti e della cultura degli indigeni nella Costituzione, se riusciamo quindi a convincere Fox che si segga al tavolo del negoziato, che dia i segnali richiesti e decida di lavorare con le comunità affinché questo processo di pace sia veloce e limpido, allora ci sarà bisogno di una attività molto intensa all'interno, perché l'EZLN deve ancora dare risposta ad una questione, ad una incognita, perché crede che non avrà più nulla da fare quando tutto questo abbia termine, però non sa che al contrario avrà molto da fare.

L'invito a Los Pinos... una trappola

- Fox dice che la vuole invitare a Los Pinos...

- È una trappola. In fin dei conti, sta cercando di trasformare un movimento serio e rivendicativo in un evento da massima audience. Cosa ha da guadagnare il paese, cosa hanno da guadagnare le popolazioni indigene, cosa ha da guadagnare il governo, come progetto politico, qualunque progetto abbia, sempre che lo abbia, con questa foto?

- Lei farebbe un servizio fotografico con Fox?

- E perché? Certo, penso che guadagnerebbe molto, però che...

- E lei perderebbe?

- No, io no, ma le comunità si, perché tutto il movimento che si è sollevato alla fine verrebbe oltraggiato. Sarebbe un fenomeno mediatico vuoto, tanto breve, tanto fugace, tanto solubile come è stato questo concerto di...

- Direbbe che sotto c'è qualche viltà, qualche perversione, Marcos?

- Sarebbe disonesto, distruttivo, vile. D'altronde, lo capisco. Lui sta facendo bene il suo lavoro, ha bisogno di costruirsi questa immagine di governabilità. Sa bene che fino a quando i mezzi di comunicazione parlano di lui, anche se in negativo, la sua presenza si rafforza sempre di più.

- Marcos, io dico a lei: Fox sta facendo bene il suo lavoro secondo lei...

- No, secondo lui.

- E secondo lei?

- No, perché ciò di cui ha bisogno questo paese è di un governo, non di un annunciatore televisivo. E lui invece pensa, al contrario, che la sua funzione sia quella di un annunciatore televisivo, perché questo gli crea prestigio con la gente, perché così tutti lo vanno a conoscere e lo fermano per la strada.

- Però, perché?

- È proprio questo che io mi chiedo... dato che alla fine gli andranno a dire: "Noi che abbiamo votato per te, o che non abbiamo votato per te però abbiamo votato contro il PRI, non ti abbiamo dato questo posto perché tu faccia questo". Perché una cosa è una campagna elettorale ed un'altra cosa è un programma di governo. E la responsabilità non è soltanto sua, è anche della sua équipe. Ma è anche sua, perché è lui che ha formato l'équipe, oppure è il contrario, non so come stiano le cose. Comunque prova a contare e avanzerai dita in una mano contando quelli che sono dei politici in questo gabinetto. Sono impresari, bene o male intenzionati. Anzi, non sono neppure impresari, sono semplici gerenti. Ossia, sono degli impiegati di un impresario. E con questa logica non si può dirigere un paese.

- Chi salverebbe di questo gabinetto?

- Sari Bermùdez, come scrittrice. Lei non ha scritto il libro, bene... (Voltandosi verso i cameraman della Televisa). Questo lo tagliate. Io faccio pause in modo che tagliate quello che vado a dire di Azcàrraga.

La favola della Carovana

- Marcos, a lei piacciono le favole. Perché non ce ne racconta una?

- Non le racconta il governo?

- No, perché non ce ne racconta una? Perché non ci racconta la favola della Carovana?

- Di com'è venuta l'idea?

- La favola della Carovana. Lei scrive una favola per fare in modo che si conosca la Carovana. Come lo farebbe in forma di favola? Così, nel linguaggio più semplice, più caldo, pieno di humour. Certo, Marcos, l'humour si esprime attraverso il dramma. Come racconterebbe lei questa favola?

- Bene, mettiamola così.

Noi eravamo rimasti senza vie d'uscita. L'unico modo per rafforzarci era quello di uscire, era quello di camminare. Ma non avevamo piedi. Eravamo menomati in questo senso. Avevamo la voce e lo sguardo, però dovevamo alzare questa voce e questo sguardo in un posto dove la voce potesse essere ascoltata e dove lo sguardo potesse spaziare in qualche direzione. Allora abbiamo dovuto chiedere ad altri di prestarci i piedi. Ma quando abbiamo dovuto chiedere ad altri di prestarci i piedi, questi altri li abbiamo dovuti costruire, perché non esistevano. Allora abbiamo incominciato a parlare a questo "altro", abbiamo incominciato a dargli un volto, che però non voleva, a spiegare che cosa è un numero, che cosa è una percentuale in una inchiesta, se è una fortuna far parte del campione, ed abbiamo incominciato a chiamarlo, a cercare di dargli un volto e a chiedergli che diventasse i nostri piedi. Ci siamo trovati alla fine con dei piedi molto disuguali. Ossia, il corpo che già avevamo, lo sguardo, gli occhi, le labbra che già avevamo, eravamo molto piccoli per dei piedi molto grandi. Alla fine, quando abbiamo iniziato la marcia, inizia a muoversi una specie di pupazzo grottesco. A prima vista, un gigante. Ad uno sguardo più attento, un pupazzo grande e deforme, con dei grandi piedi ed un corpo molto piccolo, il tronco e la testa. Questo pupazzo grottesco incomincia a muoversi inciampando ed incomincia a cercare di convincere i piedi, che non sono suoi, cosa che, in un modo o nell'altro, ha cercato di fare la Carovana in ogni occasione in cui si è fermata: spiegare che non siamo noi quelli che hanno reso possibile tutto questo, ma i piedi che ci stanno portando, che sono la stessa gente che ci sta ricevendo. È in questo momento che sorge il problema che i piedi dicono che chi comanda è la testa, perché così è stata fatta la storia e mai è successo che siano i piedi a dare ordini alla testa. E la testa, che continua a sostenere che quelli che debbono comandare sono i piedi. Arriva allora il momento in cui sia i piedi che la testa dicono quello che tutti stanno pensando e nessuno ha il coraggio di dire. Durante il percorso, si rendono conto che questo mondo è pazzo: che chi non ha bisogno è ricco e chi ha bisogno non ha nulla. Finalmente, arriva quel giorno, domani 11, arrivano nel posto in cui si può raddrizzare tutto da un lato e dall'altro, nell'ora in cui il mondo si può riaggiustare, quando i piedi si rendono conto che in realtà loro erano la testa e la testa si accorge di non aver mai cessato di essere un piede scalzo e per di più dalla pelle scura.

Come mi è venuta male questa storia!

- Ho uno scrupolo e una preoccupazione: di non aver fatto le domande più importanti.

- Non credo, dato che io ero atterrito, dato che non sapevo che cosa mi sarebbe stato chiesto...

- Una cosa che per lei ha moltissima importanza e che io non ho avuto la buona sorte di chiederle, Marcos...

- Credo che sia la domanda che si stanno facendo nella classe politica. Marcos è sincero quando dice che è disposto al dialogo e ad arrivare alla pace? La risposta è si. L'unica cosa che abbiamo per avallarlo è la nostra parola. Per davvero, se ci chiedono qualcosa d'altro, non sappiamo che altro offrire. Però abbiamo dalla nostra parte la storia di ciò che questa parola ha significato. Non possiamo cedere nelle tre condizioni richieste perché se cediamo manchiamo di parola e questo vorrebbe anche dire che ci troveremmo nella possibilità di aumentare le nostre richieste e la garanzia che ha il governo è che né le aumenteremo né le diminuiremo. Quando diciamo una cosa, è questa. È questo che io vorrei che capissero; ma non so come farlo, perché i segnali che ho dato non li capiscano. Forse se si tolgono le bende dagli occhi e vedono questo tuo programma, chissà che mi ascoltino; forse questo è proprio quello che ci vuole e mi credono una buona volta; comunque sia noi siamo veramente sinceri. E se non lo credono, ciò che ora stiamo cercando di fare con tutta questa gente di questo movimento è obbligarli a crederlo. Abbiamo assunto questo impegno.

- Molte grazie.

- A lei... Un annuncio pubblicitario. Il fatto è che siamo senza soldi e il camion è noleggiato fino al 16!


(tradotto da Beppe Costa - a cura del Comitato Chiapas di Torino)



logo

Indice delle Notizie dal Messico


home