LA JORNADA - GIOVEDÌ 8 NOVEMBRE 2001

Juan Villoro

Globalizzazione e terrorismo

Ogni terrorismo è un crimine. Niente può giustificarlo. Però se vogliamo eliminarlo dobbiamo tentare di spiegarlo. Nessun male può essere combattuto se ci rendiamo ciechi di fronte alle cause. Comprendere il perché del terrorismo non è giustificarlo.

Partendo dall'ipotesi che attribuisce a gruppi arabi la responsabilità dell'attuale terrorismo, si adotta una prima spiegazione causale. Da secoli l'Islam è stato vittima della persecuzione violenta dell'Occidente. Però non è necessario rimandare al passato. Basta fermarci al XX secolo e ricordare i tanti episodi nei quali i paesi arabi sono stati ingannati, sfruttati dalle potenze occidentali, da quelle europee prima di tutto, da quella statunitense dopo: la promessa e il tradimento degli arabi del Medio Oriente dopo la Prima Guerra Mondiale (ricordate Lawrence d'Arabia), la guerra del canale di Suez, la colonizzazione violenta della Palestina, i 500 mila bambini morti in Iraq per l'embargo, la Somalia, la Libia, il sostegno a regimi tirannici, il disprezzo ad un popolo credente. Il sentimento costante di essere umiliati può dar luogo al rancore ed alla disperazione che solo si soddisfa con la distruzione di chi ci umilia.

Questa spiegazione può essere corretta però, secondo me, è insufficiente. Una comprensione più chiara del fenomeno dovrebbe andare fino alle radici e le radici stanno nella situazione globale del pianeta, preso nel suo insieme.

I processi di globalizzazione hanno avuto un risultato: il 50 per cento della umanità sopravvive con un'entrata minore ai due dollari quotidiani (60 mensili), mentre pochi individui sfruttano una fortuna uguale a questo 50 per cento della umanità (sono cifre della Banca Mondiale). Il mondo è diviso in due parti. Una metà è esclusa da qualsiasi beneficio dello sviluppo, sprovvista delle condizioni che permettano una vita umana con un minimo di dignità. E questa metà si concentra nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo.

La disuguaglianza mondiale deriva da un potere doppio: economico, in primo luogo; potere nuovo che non obbedisce a nessuna norma nazionale né internazionale e si esercita al di sopra di tutti gli stati; potere militare, in secondo luogo, con un solo centro dopo la fine della guerra fredda: Stati Uniti ed i suoi alleati europei. Il doppio potere serve a mantenere la disuguaglianza mondiale per esistere. Non è questo il brodo di coltura perfetto per atteggiamenti disperati contro l'oppressione e l'ingiustizia?

Di fronte alla disuguaglianza globale, il terrorismo prende un carattere ugualmente globale. Fino ad ora conoscevamo solo un terrorismo diretto contro un potere nazionale specifico. Ricordiamo gli attentati anarchici del secolo scorso o le attività di gruppi che si proclamano rivoluzionari o patrioti, come l'IRA in Irlanda o l'ETA in Spagna. Tanto il terrorismo come il suo nemico si scontrano all'interno del sistema di potere di uno Stato. A partire dall'11 settembre il terrorismo non può essere ridotto all'interno di uno Stato nazionale. Può capitare in qualsiasi paese ed il suo obiettivo può essere in qualsiasi luogo. Il subcomandante Marcos segnalava che la "quarta guerra mondiale" inizia con il potere globale dell'economia e delle comunicazioni; di conseguenza - diceva -, l'opposizione violenta alla globalizzazione ha anche una manifestazione globale; la guerra si libra tra soggetti che non hanno un volto né una identità nazionale. L'atto dell'11 settembre gli dà ragione.

Un segnale chiaro della globalizzazione del terrorismo è la sua direzione contro i due simboli del doppio dominio mondiale: il Centro Mondiale di Commercio, nelle Torri Gemelle, espressione del potere economico globalizzato, e il Pentagono, testa del potere militare dominante nel mondo.

Al terrorismo globale risponde una guerra ugualmente globale. Non è una guerra dichiarata da uno Stato contro un altro né si può precisare contro che comunità è diretta; all'inizio, potrebbe dirigersi contro qualsiasi paese che è in relazione con un gruppo accusato di terrorismo. Azione e reazione hanno la stessa caratteristica: avvengono al margine di qualsiasi regola che marchi le relazioni tra Stati sovrani.

Come concepire uno scenario nel quale avvengono questo genere di azioni e reazioni violento non soggetto a nessuna regola? Il primo teorico dello stato moderno, Thomas Hobbes, immaginò uno scenario simile. Quale sarebbe la situazione in cui molti uomini conviverebbero senza essere soggetti a nessuna regola statale? Questo scenario corrisponde a quello denominato, ai suoi tempi, "stato di natura". In quello stato, precedente a qualsiasi regola giuridica, ognuno si fa giustizia con le proprie mani, ognuno tenta di imporre la sua volontà agli altri e di rispondere alla violenza altrui con la propria violenza. Il risultato è uno stato di guerra di tutti contro tutti. Tutti vivono sotto la paura di soccombere per mano dell'altro. È il regno del terrore assoluto.

Bene allora, il terrorismo globalizzato e la sua risposta di guerra generalizzata sono un ritorno allo "stato di natura", però questa volta a livello mondiale.

C'è solo una via d'uscita dallo stato di terrore permanente: rimpiazzare la guerra universale con l'accordo. Nell'accordo si stabilisce l'ordine legale e con esso può nascere la giustizia. Questo processo, nel quale Hobbes vedeva la nascita dello stato, si riproduce adesso su scala mondiale. Di fronte alla barbarie generalizzata ci sono solo due possibilità reali: la prima è prolungare lo "stato di natura" sotto il domino di un solo potere egemonico che imponga il suo arbitrio agli altri. È la soluzione del dispotismo su scala planetaria. Questa via non sopprime le cause della guerra di tutti contro tutti, solo la riduce ad una guerra diretta da un unico potere. L'alternativa è l'equivalente al trattato che ha dato origine allo stato nazionale: l'accordo razionale su un ordine normativo al quale si sottometta l'arbitrio dei poteri in guerra.

Da cinque secoli si annuncia la possibilità della convergenza di tutte le culture in una cultura universale. Nel secolo XX si è arrivati all'unificazione parziale di tutte le culture sotto certi aspetti: nella conoscenza scientifica e tecnologica, nelle reti di comunicazione, in primo luogo. Però ciò che non si raggiunto è stato lo stabilirsi di un ordine giuridico coattivo, a livello mondiale, che propiziasse la diminuzione dell'ingiustizia. Questo è stato il nostro grande fallo.

Le soluzioni dell'assemblea generale dell'ONU contro interventi, guerre e genocidi, non possono andare avanti perché si scontrano col veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Per simili ragioni, i trattati su di un nuovo ordine economico più giusto rimangono senza effetto. Non esiste un potere giudiziario internazionale effettivo. Il Tribunale Internazionale di Giustizia, con sede a L'Aja, solo agisce su richieste di parte ed i governi non sono costretti a eseguire le sentenze. Il progetto di un tribunale penale internazionale, proposto nella riunione di Roma, non si è potuto realizzare per il rifiuto dei paesi sviluppati, in particolare degli Stati Uniti.

Lo stato di terrore mondiale non potrà essere evitato finché non esiste un ordine giuridico internazionale, con facoltà coattive, capace di perseguire e giudicare i terroristi e di processare le azioni arbitrarie di qualsiasi Stato che danno luogo al terrorismo. Si potranno eliminare molti terroristi, però se sussiste la situazione di disuguaglianza atroce nel mondo permarrà intatta la fonte dalla quale spunteranno altri uomini disposti a morire ed a uccidere. Il circolo della violenza si accrescerà.

Un ordine giuridico internazionale potrà solo arrestare la guerra di tutti contro tutti nella misura in cui conti su un accordo generale. Solo così potrà avanzare nell'eliminazione progressiva della causa della guerra: la situazione d'ingiustizia tra le nazioni.

L'instaurazione di un ordine mondiale che permetta la diminuzione della disuguaglianza, l'uso razionale delle risorse del pianeta, nel riconoscimento reciproco di tutte le culture, è un'esigenza morale. Kant, nel secolo dell'illuminismo, vedeva già che lo stabilirsi di una "pace perpetua", basata su un ordine giuridico mondiale, era un requisito della ragione pratica. Però, per disgrazia, i dettami della ragione non sono sufficienti per muovere, da soli, le nazioni. È l'ansia di potere e il bisogno di sopravvivere che li smuove. Un'esigenza della ragione morale può realizzarsi quando risponde forse ad un bisogno egoista. Nel momento attuale questo bisogno è liberarci dal terrore e dal ciclo mortale della violenza.

Così come lo stato è potuto nascere dalla paura alla morte violenta per mano d'altri, come pensava Hobbes, così anche un nuovo ordine razionale potrebbe nascere nel mondo dal bisogno di eliminare il terrore. Perché la via verso un ordine etico superiore passa sempre, nella storia, per cammini contorti.

Siamo di fronte ad un momento decisivo. Da un lato, la complicità con la guerra che, di fatto, acutizza lo stato globale di terrore, dall'altro, l'edificazione di un ordine mondiale capace di farvi fronte. Alternativa tra il ritorno alla barbarie o la scommessa per edificare un ordine di convivenza razionale.

Tutti i paesi si confrontano in questo momento con questo dilemma. Tutti hanno la responsabilità di scegliere. Il Messico deve decidere da quale lato dell'alternativa deve collocarsi. Fino ad ora pare che il nostro governo soccombesse alla tentazione di seguire la scelta più facile: assommarsi all'alleanza mondiale che pretende di combattere il terrore con maggior terrore. Però il nostro paese fa assegnamento su una tradizione di cui possiamo andare orgogliosi. Anche nel periodo in cui imperava all'interno l'autoritarismo e la corruzione, la politica estera del Messico è stata orientata verso un'assicurazione di pace, verso l'opposizione alle ingiustizie degli Stati aggressori e la difesa dei deboli e, soprattutto, verso la collaborazione nella costituzione di un ordine giuridico mondiale che combattesse le disuguaglianze. Continuare con questa degna tradizione ci impedirebbe di agire da complici della guerra che prolunga il terrore.

In molti paesi cresce a poco a poco il clamore contro la guerra globale. Appoggiati dalla nostra tradizione, noi cittadini messicani dovremmo far ascoltare la nostra voce in ripudio del terrorismo, della guerra che lo alimenta e a favore della costruzione poco per volta di un ordine mondiale che elimini l'enorme disuguaglianza che si assomma alla disperazione di metà del pianeta.

[Testo letto alla Fondazione Heberto Castillo]


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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