REFORMA - 4 FEBBRAIO 2001

Se c'è la pace torniamo alla vita civile

Intervista col Subcomandante Marcos

MAYTÉ NORIEGA/ Gruppo Reforma

Città del Messico, Messico - La realtà politica del paese è cambiata. Come vive il subcomandante Marcos questa nuova realtà politica?

- Con molta speranza. Abbiamo pensato che il 2 luglio è la fine di un lungo processo che segna in modo impressionante l'inizio di qualcosa, che come tutti gli inizi non è ben chiaro ed è in discussione.

Ci sono molte lotte, non solo sul terreno politico, ma su quello dei diritti sociali, su quello della cultura, che in un modo o nell'altro vanno a coincidere col 2 luglio, scrivendo quella data, in cui il fatto sorprendente non è che la gente abbia votato per un candidato, in questo caso per il signor Vicente Fox, ma per il fatto che abbia votato contro un sistema in un modo così provocatorio. Quindi il 2 luglio ha già cancellato tutto ciò che l'ha preceduto, anche se tutti i giochi e le sozzure che facevano per ottenere l'elezione di Francisco Labastida sono stati molto forti, molto grandi ma pure così la gente ha detto "no" e noi abbiamo conseguito come popolo (messicano) di schierarci e di darci l'opportunità di seguire un altro destino che non includa questo gruppo autoritario come nostro padrone, nostro papà, nostro padrino, per decidere con altre modalità.

E a partire da lì si apre una terra di nessuno. Lì altre forze, quelle che sono già state eliminate, le nuove e quella che si agglutina intorno a Vicente Fox, però anche Azione Nazionale, iniziano a confrontarsi. Questo paese è rimasto senza direzione e la disputa è su come dirigerlo e in che direzione. In questo spazio che crea molte incertezze c'è il Tabasco, c'è lo Yucatán, non solo il Chiapas. C'è questo clima di effervescenza nel narcotraffico, nel crimine organizzato. Lì c'è la fuga del Chapo Guzmán, che adesso sappiamo che non è fuggito, ma che entrava ed usciva dal carcere di massima sicurezza, adesso ex massima sicurezza, e semplicemente un giorno non è tornato, è mancato all'appuntamento. C'è tutto questo clima pericolante, però ci sono anche le voci che dicono "stiamo rivedendo tutto, stiamo dando una possibilità di partecipazione in più alla gente".

In questo spazio aperto che è di speranza - e di angustia anche, di paura che torni a ripetersi una storia peggiore della precedente - decidiamo di scommettere qualcosa. Non sull'incertezza, ma sulla speranza. Su chi noi confidiamo, perché ha costruito uno spazio di fiducia in questi sette anni, ed è la società civile. Non sulla classe politica, non sul governo.

Siamo disposti al dialogo e alla pace. Apriamo il nostro cammino da questa parte con la gente in cui confidiamo. Con gli altri no, perché hanno costruito molte cose che ci fanno provare sfiducia.

Abbiamo pensato che potremo riuscire a far sì che questo paese per primo e il mondo dopo riconosca che ci sono i diversi, che non può proseguire a costruire il nuovo secolo e il nuovo millennio cercando di omogeneizzare coloro che sono differenti. "O ti fai uguale a noi", dice colui che sta in alto, "o sparisci". Non c'è nessuna scelta che ti riconosca come sei perché alla base delle nostre richieste non ci sono affanni secessionisti, quindi né vogliamo separarci né creare sacche di isolamento e di autonomia. Semplicemente vogliamo essere quello che siamo e abbiamo pensato che nella società messicana e nella società mondiale ci sono molti come noi che in qualche modo resistono e continuano ad essere diversi.

Concorrenza sui media

- Sappiamo che recentemente è venuto don Luis H. Álvarez e ha tentato di entrare in La Realidad. Che è successo? Aveva avvisato? Aveva buone intenzioni?

- Conosciamo bene don Luis H. Álvarez, lui ha costruito un rapporto con noi quando è stato nella Cocopa. Non è mai stato dalla nostra parte ma si è rivolto sempre a noi con rispetto. Né si è burlato di noi né ci ha voluto ingannare, ci ha sempre parlato da uguale. In questo senso abbiamo ricevuto come un buon segnale il fatto che fosse nominato lui come commissario di pace.

Il problema è che noi stiamo chiedendo al governo una risposta a una domanda. Se abbiamo la risposta allora possiamo dialogare. Ma se il governo dà segnali che non gli importa rispondere alla domanda, ma che gl'interessa condizionare coi media, seguendo quel criterio di popolarità che colui che esce di più sui media e quello che è più abile ed è quindi colui che sta vincendo. Allora, per l'ennesima volta il governo si sta ponendo su piano di concorrenza.

Noi stiamo domandando al governo: "Sei tu che comandi l'Esercito? Sei disposto a seguire la via del dialogo e a non usarlo per niente per proseguire l'opzione militare? Ci riconosci come una forza sociale: non siamo delinquenti per te? Riconosci che la nostra causa è giusta e farai il possibile perché non si ripeta il 1° di gennaio?". Se sì, dacci quei segnali.

Se è no, di che cosa possiamo parlare? Se non comandi, se userai il dialogo per poi scegliere l'opzione militare, se stai parlando con dei delinquenti, né tu né io né la società è d'accordo che tu parli con dei delinquenti.

Questo è il ricatto e tutto continuerà uguale.

Vale a dire che i popoli indigeni non si vedranno riconosciuti né nei loro diritti né nella loro cultura. Oggi siamo noi, domani saranno altri. Se abbiamo quelle tre risposte negative, che non è il caso che fissiamo un dialogo e che non possiamo fare quello, se alla fine succederà sempre lo stesso, la gente ci verrà a dire: "Perché? Se lo già sapevi - perché lo sappiamo -, perché ti sei prestato a questo inganno, perché ti sei prestato a questo dialogo?"

Se le risposte saranno positive, noi ci sediamo, dialoghiamo, arriviamo alla pace e lo zapatismo come forza armata finisce. Continuerà in un altro modo, orami non più col passamontagna. A questo siamo disponibili. Al governo stiamo chiedendo questo.

Il governo al momento vede che c'è una guerra mediatica e dice "è che i giornalisti danno molta voce agli zapatisti". Addirittura si dice che c'è una gara vedere chi è più popolare o chi manipola meglio i media. E si dice però che Fox spende molto denaro in immagine e che gli zapatisti hanno speso nient'altro che un 1° di gennaio. Quanti morti, quanta sofferenza in un 1° di gennaio perché la gente si voltasse a vederci. Come se tu firmassi un assegno e la tua firma non valesse niente. Come se il sangue, il dolore, tutto ciò che c'è stato non valesse. Allora il problema è già stato spostato. Allora, senza che ci abbiamo avvisato per nulla, sapendo che ci sono alcune condizioni che stiamo chiedendo, una risposta, all'improvviso arrivi dal governo e sia "desidero parlare con voi" e parliamo con lui come se non avessimo parola.

Il governo ha detto: "Non darò più altri segnali, con queste quattro basta già". Il governo così ci sta rispondendo: "Non comando completamente o non voglio completamente, forse solo a metà, qualche volta sì, qualche volta no". Ossia, non sta rispondendo alla nostra domanda. E Luis H. Álvarez ci dice: "Se vogliono che gli rispondiamo, queste sono le nostre condizioni".

E allora, che succederà lì? Noi davvero non stiamo ponendo condizioni. Stiamo facendo una domanda, abbiamo bisogno di una risposta per comunicarla ai popoli. Se no, per quanto possa uscire sui mezzi di comunicazione e per quante campagne facciano, i popoli non torneranno a dialogare e non vedrete mai gli zapatisti, i comandanti o il subcomandante a dialogare senza l'appoggio dei popoli, perché sarebbe un inganno.

Quando ci siederemo a dialogare parleremo per tutti gli zapatisti, solo per loro siamo seduti lì, per le più di mille 111 comunità che ci sono in Chiapas e per i molti zapatisti che sono sciolti dalle altre parti. E a che cosa ci impegniamo lì? Ci impegneremo per tutti, perché abbiamo questo appoggio. Se no, che succederà? Che fanno un accordo con alcuni e dietro ci sono altri che stanno facendo altro e si scindono e iniziano gli atti di terrorismo.

Se decidono di non dare più segnali è come se stessero rispondendo "no, non vogliamo il dialogo; desideriamo solo un alto indice di popolarità. Per questo mi sono serviti i quattro segnali e basta già". È in questo uso pubblicitario che si commettono errori, in questo caso del signore Fox. Lui vuole manipolare ciascun ritiro di una postazione militare come un gran evento mediatico e quello che sta facendo è mandare in malora il suo Esercito.

Se avesse proceduto a ritirare in silenzio, avrebbe risparmiato all'Esercito federale questo logoramento e si sarebbe risparmiato l'altro logoramento, quello che: "è stato sbagliato, è stato giusto, sta dando molto, sta concedendo poco..."

Non vogliamo essere un problema militare

- Però a loro è servito per lanciare una nuova sfida agli zapatisti: "Che vogliono ancora? Non possono chiedere altro al governo". C'è chi chiede: quanto è quello che si può chiedere al governo? E quelli che dicono: che vogliono ancora?

- Vogliamo questa risposta. Le postazioni che mancano (delle sette) sono quelle che accerchiano questa comunità. Quella del Rio Euseba e quella di Guadalupe Tepeyac e c'è anche La Garrucha. Però quello che ci stanno dicendo è: "Su di voi, sulla dirigenza zapatista, non c'è ritorno indietro. Possiamo levare tutte le altre se volete, però quelle che incombono su di voi no". Abbiamo pensato che abbiamo il diritto, perché quello che è in gioco è un dialogo, di fare una domanda al governo e che la gente conosca la risposta, non solo la nostra gente ma pure la società civile. Se è così bene, altrimenti il futuro sarà la ripetizione dei sei anni di Zedillo.

Non stiamo chiedendo molto. Ad un'ora di cammino c'è il più grande quartiere militare del sudest messicano, quello di San Quintín. Ha perfino dei sotterranei per far sparire e torturare. Lo so perché l'hanno costruito degli indigeni. Non vi si troverà niente perché faranno sparire i corpi e tutto quanto. Hanno altre sei o sette postazioni lungo la vallata di Patiwiz, altre quattro o cinque lungo la strada, hanno coperto tutta la frontiera col Guatemala. La Realidad così è chiusa.

Noi diciamo al governo "dacci questo segnale: non ti stiamo chiedendo di tirar via tutto l'Esercito dal Chiapas né di sguarnire la frontiera né di consegnarci tutto il territorio", perché così è come stanno presentando la situazione. Quale sarebbe questo territorio? Se abbiamo a 40 chilometri di strada un quartiere militare enorme, e in termini tattici e strategici possono arrivarci addosso quando vogliono e in mezz'ora tornano a rioccupare tutte le loro postazioni. Allora, è un problema militare o no? Se non siamo un problema militare, come dicono loro, allora perché tutte queste risorse militari? Non solo non siamo un problema militare, noi non vogliamo essere un problema militare.

Vogliamo sederci a dialogare e in fretta. Però abbiamo molte comunità che hanno coltivato la sfiducia perché così sono state seminate.

Non stiamo chiedendo altro, non stiamo dicendo "dacci quattro postazioni, dato che ce ne hai già date quattro, adesso dacci una quinta e quindi una sesta".

Abbiamo detto sette, niente di più, in quanto a postazioni militari. Non abbiamo detto tanti detenuti, abbiamo detto "il numero che è, tirateli fuori". Non abbiamo detto "riformate l'articolo 27 della Costituzione, che la proprietà della terra torni ad essere come era dopo il movimento di Zapata". No, abbiamo detto, "questi accordi firmati dal governo, vogliamo che siano sanciti. E' un progetto che non abbiamo fatto noi, che hanno fatto il PAN, il PRI, il PRD e il PT". Loro lo hanno fatto con l'appoggio delle loro frazioni, quindi supponiamo che contino con l'appoggio delle altre forze politiche.

Che gli stiamo chiedendo? Non gli stiamo chiedendo che si dimetta, non gli stiamo dicendo che ci consegni il potere, né una presidenza municipale. Gli stiamo chiedendo che ci dica se vuole dialogare o no. Siamo gente comune e normale, non delinquenti.

Non vogliamo avere più pretesti

- Il comando dell'Esercito Zapatista decide di andare a Città del Messico, di partecipare al Congresso Indigeno. Questo che cosa implica? Ha fatto sorgere molti problemi e molti dubbi fra la gente. Che cosa vuole andare a fare Marcos adesso fuori dalla selva

- Parlare con i parlamentari e parlare con la gente. Il 1° gennaio del '94 siamo usciti per combattere, andavamo armati e abbiamo attaccato le caserme. Ci hanno risposto. Adesso stiamo uscendo disarmati. Sì, a parlare. Non andiamo a distruggere niente. Non stiamo chiedendo che cada nessun governo.

Il 1° gennaio avevamo davvero chiesto che cadesse il governo, non per farne uno noi, ma perché il Parlamento ne facesse un altro nuovo. Adesso andiamo a parlare con i popoli indigeni dei dintorni e con il Parlamento e andremo dai parlamentari a dire loro: "signori, questa legge fatta da gente come voi, dai vostri partiti politici, ha dei vantaggi". Vogliamo che ci ascoltino. Quello che vogliamo è fare ciò: andare, parlare, ottenere questa risposta e sederci a dialogare e finire la guerra.

Si è costruita una campagna mediatica intorno al passamontagna. La verità è che non si sono voltati a guardare gli indigeni finché non si sono tappati la faccia.

Allora quello che vogliono adesso è che ci togliamo la maschera perché così nessuno si volti più a vederci. In che modo si è trasformato in un simbolo il passamontagna? È che noi zapatisti abbiamo dovuto andare controcorrente, perché il passamontagna è simbolo del terrorismo. Senza dubbio però, non si può accusare gli zapatisti di terrorismo. Quello che ci stanno dicendo è "smetti d'essere quello che sei, smetti d'essere zapatista e allora parliamo".

Perché dovremmo angustiarci col problema di toglierci o no il passamontagna? Non ce lo toglieremo. È molto meglio se ci concentriamo su come risolvere il problema reale. Non vogliamo più avere pretesti per non sederci al tavolo del dialogo. Vogliamo che ci dicano: "vi abbiamo già dato il segnale militare, abbiamo tolto le sette postazioni dell'Esercito, abbiamo già riconosciuto che non siete dei delinquenti e i vostri diritti sono diventati costituzionali, non avete più pretesti per non sedervi a un tavolo con noi".

L'unica cosa che abbiamo è la parola. E questo te lo possono dire Luis H. Álvarez, Rodolfo Elizondo, Benigno Aladro, per parlare di tre che prima erano della Cocopa e adesso sono al governo. Perché se gli zapatisti s'impegnano in qualcosa lo mantengono e noi ci impegniamo. Chiediamo solo queste poche cose e ci sediamo immediatamente, fissiamo la data e tutto. Adesso sembra che il problema più importante che stanno ponendo è che le comunità indigene zapatiste smettano di resistere. E i paramilitari? Ci sono ancora...

- Ancora una volta si apre il dibattito se ci siano o no i paramilitari. L'avevano già ammesso e adesso c'è di nuovo il dibattito...

- I segnali che chiediamo non sono complicati. Se avessimo chiesto lo smantellamento dei paramilitari come condizione previa al dialogo, lì magari si sarebbe bloccato, perché questo dovrà essere prodotto di un accordo. Le altre misure non sono prodotto di un accordo. Nel caso del riconoscimento costituzionale noi mettiamo la parte che ci tocca: andare a parlare con i deputati e i senatori. So che alcuni non ci vogliono, non vogliono parlare con noi. So che altri sì, perché capiscono che il loro lavoro legislativo è questo. E in questo spazio che si è aperto dopo il 2 luglio, il Parlamento ha più responsabilità di quelle che gli attribuisce la Costituzione. E gli tocca fare politica, perché se Fox sta facendo campagna con i media, qualcuno deve pur fare politica. E se il Parlamento non fa la politica, questo paese va a esplodere.

Il problema non saranno Cervera Pacheco o Roberto Madrazo. Il problema sarà il narcotraffico, il crimine organizzato, il problema economico... che provocherà molte rivolte. Le imposizioni della destra culturale anche sul resto della popolazione e sull'opinione pubblica... tutte queste cose scoppieranno e, se nessuno fa politica, i conflitti tenderanno a polarizzarsi sempre più fino a diventare esplosivi.

Non tornerò al giornalismo

- E dietro tutte queste domande che continuano a spuntare, e Marcos che? Che vuole fare Marcos? Che vuole Marcos? Va a Città del Messico e, se si aggiusta il conflitto, Marcos sparisce? Questa è la grande inquietudine. Questa tattica per cui Marcos cerca di allungare il conflitto per continuare ad esistere perché, se no, Marcos deve sparire...

- Credo che non faccia molto piacere stare qui, messo in un angolo nella selva e perseguitato. Non c'è nessun vantaggio. Noi abbiamo un mezzo, la parola, e come Marcos parlo a nome del collettivo che sta dietro alla maschera. Una volta terminato il processo di pace, questo collettivo, tutto l'EZLN, incluso l'uomo che sta dietro la maschera, sparisce e torna ad essere una persona normale.

Una cosa ti dico, chiara: non voglio tornare al giornalismo. È una professione molto rischiosa. Vedi assassinati, minacciati, tentativi di ricatto. Cercherei una professione più pacifica, meno problematica.

Che succederà agli indigeni che sono diventati comandanti quando termini il processo? Ritorneranno alla loro comunità, a lavorare la terra come qualsiasi altro, perché dentro l'EZLN è molto differente il rapporto da come sembra da fuori. Infatti, da fuori, uno potrebbe pensare "questo qui diventerà un cacique".

Di che hanno paura? Che ci presentiamo come candidati alle prossime elezioni e/o che stiamo pensando alle elezioni del 2006? Non lo faremo. E se lo facessimo nessuno farà caso a noi. Non si devono preoccupare di ciò. Non toglieremo loro la clientela. Vogliamo qualcosa, ma non stiamo proponendoci un obiettivo delirante. E questo è il successo dello zapatismo: che ciò che si propone è raggiungibile. Non solo perché ciò che chiede è poco e si può capire, ma anche perché uno può essere d'accordo o no con lo zapatismo ma permettiamo sempre di discutere. E inoltre non stiamo chiedendo il cielo e le stelle.

Quello che stiamo chiedendo è l'opportunità di essere normali, di non doverci nascondere il volto perché ci vedano, di non dovere usare un'arma perché ci ascoltino, visto che prima non ci ascoltavano. Vogliamo pure noi che ci guardino come una qualsiasi altra persona e ci ascoltino come esseri umani. E alla meglio uno mi incontrerà un giorno e mi dirà: "Lei era il subcomandante Marcos?". E io gli risponderò: "Sì, io ero il subcomandante Marcos". E punto e basta.

Perché tanta preoccupazione e angustia per il futuro? Se c'è un problema adesso non è solo il problema con gli zapatisti. La soluzione del problema con noi sarebbe un segnale molto chiaro per tutti i movimenti che potrebbero sorgere dopo. Se non ci fosse un segnale positivo, allora si direbbe: hanno ingannato gli zapatisti, hanno represso gli zapatisti, li hanno arrestati, hanno fatto la loro Chinameca, pertanto il dialogo è un inganno. Qualsiasi altra proposta di un altro governo più avanti che voglia dialogare con qualche gruppo, non riuscirà.

La guerra adesso non va per le montagne. Nel mondo moderno le guerre non sono più fuori, ma sono dentro casa tua, nella tua televisione, e i tuoi figli vedranno il sangue, la distruzione, le bombe e non più in un luogo remoto, ma nella tua città, o nel tuo quartiere, o nella tua casa, perché tutto è sfuggito dal controllo, perché il dialogo ha smesso d'essere il modo per risolvere le cose ed è diventato una bugia.

Non solo vogliamo il dialogo, ma lo vogliamo anche di successo, perché abbiamo pensato che così lasceremo una lezione per gli altri. Potremo dire loro: "noi ci siamo riusciti. Sì, si può, non è necessario ricorrere ad altro". Non solo siamo disponibili al dialogo, lo desideriamo e vogliamo che sia di successo.

Quando l'EZLN firma la pace, la firmano tutti gli zapatisti, non uno e altro no, come è successo con altri movimenti.

La voce che corre di più

- Dopo che Marcos ha annunciato che viaggerà a Città del Messico, si sono organizzate marce in vari luoghi della Repubblica per salutare questo annuncio. In alcuni luoghi, soprattutto nella stessa Città del Messico, ci saranno gruppi che si accoderanno e che faranno rumore e appariranno i nudisti e inizieranno a fare casino. Non hai paura che succeda tutto questo, che la situazione si possa prestare a che dei gruppi si aggreghino con altri fini che non hanno nulla a che vedere con la lotta voi portate avanti?

- Abbiamo fiducia che l'autorità morale dell'EZLN e dei suoi delegati, i comandanti e il subcomandante, farà capire a questa gente che l'obiettivo è uno, il riconoscimento costituzionale dei diritti e della cultura indigeni e non altro. Stiamo chiamando tutti a che si uniscano a questo, e non che gli zapatisti si aggreghino ad altre cose.

La voce che corre non è venuta da lì, ma dalla classe politica e dalla classe al potere, dai religiosi come Onésimo Cepeda, vescovo di Ecatepec, e dal settore imprenditoriale. Sono loro che stanno trasformando questa iniziativa di pace in un'iniziativa di destabilizzazione, di sfida e di problematicità. Ci preoccupa di più questo, perché crediamo che la gente sì ci ascolterà.

Se aggiungiamo troppe cose, ritorniamo a casa senza niente.

- Che cosa ne pensate dell'arrivo di Pablo Salazar Mendiguchía a governatore dello stato del Chiapas?

- Come per tutti i cambiamenti di regime, aspettiamo di vedere che cosa fa per poter esprimere la nostra opinione. Non diamo un avallo a priori, Salazar Mendiguchía ha tenuto, prima di venire candidato, un atteggiamento nella Cocopa simile a quello di Luis H. Álvarez e della quasi maggioranza dei membri della Cocopa. Adesso è governatore da poco tempo, un mese appena, e ha dovuto affrontare soprattutto le resistenze del gruppo rimasto sconfitto, quello degli alboristi.

È molto presto per dire se sconfiggerà queste resistenze per poter iniziare a farla finita con il caciquismo in Chiapas, che è molto forte.

Il suo atteggiamento di fronte al processo di pace è stato prudente. Non ha posto ostacoli, sta facendo quello che può per ora, all'interno di ciò che gli tocca. È così, quindi non mi azzarderei ancora a dire se è un regime buono o cattivo per il popolo del Chiapas, perché questo lo deciderà la gente.


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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