LE OLIMPIADI DEI BAMBINI
Ci eravamo allenati per tutta l'estate, mattino pomeriggio e sera, al limitare dei palazzi, su un campo che la nostra fantasia aveva trasformato in uno stadio. Un po' di erba bruciata, larghe chiazze di terra sbiancata e sbattuta dalle nostre capriole, qualche gregge lontano che chissà perché sostava in quei paraggi e non era stato condotto in alta montagna.
Io ero secca come un'acciuga e correvo i cento e i duecento metri. Salvatore, di costituzione robusta, lanciava peso, disco e giavellotto. Giuseppe, alto e magro, si cimentava nel salto con l'asta. Antonio voleva a tutti i costi fare la lotta greco-romana, ma non trovava molti avversari, perché a dieci anni pesava 60 chili e se ti rovinava addosso erano guai. Marina, una delle poche bambine che partecipava oltre a me, gareggiava nel salto in lungo e nel salto in alto. Tutti quanti correvamo in bicicletta.
A Torino, l'estate del 1968 trascorreva lentissima. Dalle case popolari molti erano partiti per le vacanze, chi verso sud, chi verso la campagna. Quelli rimasti erano i più poveri, o i più soli, oppure avevano qualche malato in casa. Il nostro caso era proprio questo, perché mia nonna non si alzava dal letto e alla fine dell'anno venne a mancare. Dopo aver rigovernato, mia madre si riposava su una sedia a sdraio sistemata sul balcone a nord e guardava le montagne della valle Lanzo, stinte e annebbiate di calore. Mio padre, un operaio come quasi tutti gli abitanti del quartiere, passava le sue ferie faticando come manovale per un'impresa che stava costruendo alcuni palazzi nei pressi. Ogni tanto inforcava una vecchia Bianchi e pedalava fino al colle del Lys, portandosi dietro un giornale da mettere sul petto durante la discesa. Quando gli girava ed era meno orso del solito mi dava dei consigli per correre più forte.
Noi bambini della squadra olimpica eravamo una ventina, agguerriti e sognatori. Tutte le mattine, dopo colazione, ci ritrovavamo alla spicciolata nel nostro stadio per correre, gareggiare e allenarci fino all'ora di pranzo; poi di nuovo nel pomeriggio e spesso anche dopo cena. In ottobre ci sarebbero state le olimpiadi e noi volevamo essere pronti. Avevamo fra i sette e i dodici anni. I più piccoli si dedicavano ad altri giochi, i grandi si occupavano di cose più importanti. Molti lavoravano. Chi amava il calcio, esaltato dalla vittoria dell'Italia nel campionato Europeo, andava a giocare in un campetto attiguo, con le porte di legno sbrecciate e senza reti e buche nel terreno ancor più estese e profonde di quelle del nostro campo.
La sera, cenando, in famiglia si guardava il telegiornale. Dal Messico arrivavano notizie terribili e mio padre imprecava e inveiva contro Gustavo Diaz Ortaz, il presidente, contro i militari, gli Stati Uniti e le nazioni che non si decidevano a boicottare le Olimpiadi di Città del Messico. Io non ci capivo niente della repressione della polizia sugli studenti messicani, volevo soltanto correre e vincere i cento metri nei nostri giochi olimpici. I miei amici pensavano unicamente alle gare, proprio come me. E non tutti avevano un padre sindacalista che portava le lotte dei più poveri dentro casa.
La gara più divertente era quella del salto con l'asta. Giuseppe aveva trovato chissà dove una lunga canna di bambù e la custodiva come il bene più prezioso al mondo. Stava sempre a strofinarla con una vecchia canottiera e la prestava volentieri a coloro che desideravano cimentarsi, ma con tante raccomandazione da farti passare la voglia. Smilzo com'era, suggeriva una vaga somiglianza con la sua canna che, concentratissimo, stringeva nelle mani. Nella zona dei salti, per non farci male cadendo, sistemammo della sabbia, rubata di notte da un vicino cantiere.
La squadra olimpica era mista ma le bambine che gareggiavano non erano molte. Tante comunque assistevano alle gare con le loro bambole in braccio, ci aiutavano a prendere le misure con un vecchio metro di legno da muratore oppure registravano l'esito delle sfide, scarabocchiando numeri incomprensibili su dei pezzi di carta. Qualcuna voleva fare l'arbitro, altre dare il via. Io avevo uno scatto bruciante che faceva fuori anche parecchi maschi e sognavo di diventare una velocista e correre in uno stadio vero, pieno di gente che mi applaudiva entusiasta.
Trascorremmo così tutta l'estate, allenandoci con un panino di salame in mano o litigando furiosamente su un vecchio orologio da tasca che Vincenzo aveva preso a suo nonno e che usavamo come cronometro. Dopo tre mesi di gare ed esercizi eravamo finalmente pronti. Con i nostri sandaletti usurati e le scarpe da ginnastica Superga bucate da alluci in crescita, senza calze, avevamo corso, lanciato, lottato e saltato fino allo sfinimento.
Verso la metà di settembre gli abitanti delle case popolari vennero chiamati ad assistere ai giochi. Orgogliosi dell'evento, perché avevamo organizzato tutto da soli, senza l'aiuto di nessun grande, preparammo il programma delle gare su fogli di quaderno, adornandoli con disegni più o meno attinenti al tema sportivo. Con dei rami tagliati ad alcuni alberi spelacchiati che crescevano stentatamente lungo un fiumiciattolo che scorreva lì vicino, pieno di immondizia, intrecciammo delle corone da mettere in testa ai vincitori. Dai palazzi moltissima gente scese ad incoraggiarci. D'altra parte in ogni famiglia c'era almeno un atleta che partecipava ai giochi.
Vinsi la gara dei cento metri, lasciando dietro tutti i bambini. Alla premiazione i maschi sconfitti si presentarono con le facce lunghe ma si congratularono comunque con me. Ero orgogliosa di stare sul gradino più alto di quel podio traballante e salutavo la folla dei miei vicini di casa come una vera campionessa.
Il primo ottobre tornammo tutti a scuola. Io facevo la seconda media e ancora non avevo addosso alcun segno della signorina che sarei diventata.
Il quattro ottobre mio padre, ascoltando le notizie al telegiornale, imprecò con più veemenza delle altre volte. Il giorno prima a Città del Messico, nella Piazza delle Tre Culture, la polizia e l'esercito avevano compiuto una strage terribile. Non si sarebbe mai saputo con certezza quante centinaia di giovani erano morti. Il dodici ottobre iniziarono le Olimpiadi. Nessuna nazione rifiutò di parteciparvi. Per la prima volta nella storia dei giochi ad accendere la fiamma fu una donna, l'ostacolista messicana Enriquete Basilio Sotelo. La vidi in televisione e mi sembrò bella come una regina.
Marisa Porello - Torino