Speranze di frontiera

A Polhó gli spazi e le cose non servono per un solo uso. Gli otto enormi blocchi di cemento incastrati su di una piccola spianata di terra, al mattino sono ricoperti dalle tonnellate di chicchi di caffè che questi uomini tzotzil portano a seccare dalle montagne fino a qui. Gli stessi blocchi di cemento, nel tardo pomeriggio, quando il sole diventa più clemente, diventano un campo da pallavolo dove altri uomini tzotzil (un poco più giovani) si confrontano in accese partite.

La notte del 24 dicembre del 1997 questi blocchi di cemento si sono trasformati in una desolante camera ardente all'aperto, dove 45 bare di legno grezzo ricoperto da semplici stoffe hanno trovato la loro ordinata sistemazione.

Polhó è un villaggio tzotzil di montagna, in Chiapas, a settanta chilometri a nord di San Crtistobal de Las Casas. I suoi seicento abitanti, tutti appartenenti alla base di appoggio dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, stanno diventando punto di riferimento per le ormai migliaia di profughi ("desplazados" rende meglio) delle comunità vicine e per i nuovi perseguitati dalle bande paramilitari della zona.

L'esistenza dal 1995 di un consiglio municipale autonomo che amministra la comunità in conflitto costante con la presidenza costituzionale del PRI; la pratica della solidarietà tra gli ultimi della terra, conficcata nel patrimonio genetico di questi indigeni; la posizione geografica favorevole di Polhó rispetto agli attacchi, sono i motivi che hanno reso questo un villaggio di frontiera verso cui si proiettano le speranze di salvezza per migliaia di persone.

Una frontiera il cui limite è segnato dal sangue dei contadini che gruppi di militanti del PRI armati, anch'essi contadini, assieme a mercenari paramilitari e scortati dalle forze della Seguridad Publica (la polizia), fanno scorrere. Una traccia che congiunge la disperazione di chi, pur rimanendo in vita, si è visto scacciare dalla sua propria casa, alla disperazione di chi si è ritrovato improvvisamente senza un figlio, un marito od una moglie. Un filo di continuità che lega le responsabilità politiche del governo federale che non intende realizzare ciò che ha concordato con l'EZLN da più di un anno, a quelle specifiche del governatore del Chiapas che promuove i finanziamenti per armare i cittadini del suo partito, il PRI, affinché possano assaltare, rubare e distruggere tutto ciò che appartiene agli altri membri della comunità.

Adesso, a questo lungo solco scavato dal dolore indigeno, si sono aggiunte altre 45 fosse. Una accanto all'altra, proseguendo l'accerchiamento ideale (ma estremamente concreto) della speranza: che questo massacro tra indios finisca.

"Erano circa le undici, stavamo pregando in 350 nella piccola chiesa di legno dell'accampamento, quando abbiamo cominciato a sentire i colpi di fucile. Allora alcuni di noi sono scappati lungo i sentieri che scendevano fino al fiume. La maggior parte è rimasta in chiesa, stringendosi gli uni agli altri, chiedendo aiuto a Dio per la pace". Così, il presidente dell'organizzazione civile "Abejas" inizia il racconto dei fatti successi il 22 dicembre ad Acteal, una piccola comunità distante tre chilometri da Polhó.

Questa comunità stava ospitando più di 400 persone, scappate da La Esperanza quando venne attaccata per lo meno da 60 uomini armati, militanti del Partito Rivoluzionario Istituzionale e guardie bianche al soldo del presidente costituzionale del municipio.

"Ho visto mia moglie scappare per un sentiero. Era incinta. Un gruppo di uomini armati le ha sparato e poi, dopo averla spogliata le ha aperto la pancia con il machete ed ha ucciso anche il feto". Il marito di questa signora lo racconta incapace di trattenere le lacrime, così come la donna che ha recuperato un ragazzino di dieci anni, completamente coperto di sabbia e di sangue, ora incapace di parlare: stava sommerso sotto la pila dei cadaveri dei suoi familiari: madre, padre, sette tra fratelli e sorelle.

L'attacco è durato circa sei ore. La Seguridad Publica (la polizia) era appostata a circa due chilometri da Acteal. Ha affermato che è intervenuta solamente alle 16, quando tutto era già finito, perché "non abbiamo sentito nessuno sparo": a Polhó, molto più distante dalla posizione della polizia, la gente taceva, guardando verso le montagne da cui provenivano gli spari.

La lingua tzotzil possiede un'armonia unica. Una specie di dolce cantilena protratta in cui la sostanza del discorso si mescola continuamente alla forma in cui viene espresso. Molti dei suoni nasali e quasi in falsetto attraverso cui gli indigeni si salutano richiamano la fanciullezza, il gioco, la gioia. Stanno trasportando quintali di fagioli sulle spalle, stanno lavorando la terra sotto un sole che non perdona, stanno caricando la legna sopra i muli: nulla impedisce loro di salutarsi, di scambiare una parola che diventa musica e mutuo soccorso. In tzotzil per dire "come stai" dicono "come sta il tuo cuore".

All'alba del 23 dicembre, nell'aula più grande della scuola di Polhó, più di trecento persone stanno ammassate, distrutte dal viaggio a piedi nella notte tra le montagne, in mezzo al fango, per sfuggire al massacro, sporche ed insanguinate, disperate, tra le poche cose che sono riuscite a portare con sé. Uomini, ma soprattutto donne e bambini il cui solito linguaggio tenero e musicale, neppure ora tace, ma ciò che sta trasmettendo va oltre la comprensione cosciente, per solidificare nell'aria dell'aula il terrore vissuto lungo il costale del monte in cui venivano massacrati. Allo stesso tempo però questo lamento ininterrotto comunica anche il sollievo dell'essere riusciti a superare la linea, il confine tra la morte e la speranza, arrivando in un luogo in cui il poco dei suoi abitanti va a rinfrancare il nulla dei sopravvissuti.

Il consiglio municipale autonomo, perennemente impegnato nella soluzione ai problemi logistici, abitativi ed alimentari di queste persone, (oltre a quelli dei mille "desplazados" già presenti da mesi in questa comunità) mentre attivava tutte le energie possibili per dare risposte adeguate, non lasciava cadere la sua battaglia politica, indicendo conferenze stampa in cui dava voce ai racconti dei profughi, organizzando incontri con la diocesi di S. Cristobal de Las Casas, invitando il Centro per i diritti umani "Fray Bartolomè de Las Casas".

Urlando la propria rabbia contro il presidente costituzionale Jacinto Arias Cruz, mandante della mattanza, il consiglio, assieme ai sui cittadini specificava con molta chiarezza quale fosse il vero obiettivo di questo attacco: far apparire la guerra di bassa intensità che il governo federale sta attuando come un conflitto tra indios, minare una volta per tutte le basi per un nuovo possibile dialogo tra il governo federale e l'EZLN ed impostare una nuova strategia offensiva che giustifichi un intervento militare diretto.

L'ultima bara viene appoggiata sul cemento del campo da pallavolo alle 23 circa del 24 dicembre. Sopra un pezzo di nastro adesivo da pacchi sta scritto "femmina adulta" con il numero progressivo corrispondente, senza il nome, poiché il riconoscimento non è ancora stato effettuato. Attorno alle bare sono collocati in circolo i sopravvissuti di Acteal, gli abitanti di Polhó, coloro che celebreranno il rito funebre. Tutti tengono una candela accesa in mano. Passa un officiante indigeno tra le bare per incensarle. I pianti si mescolano alle litanie ed alla musica di un gruppo di quattro suonatori. Tutta la notte i resti di 21 donne, 9 uomini, 14 bambini e di un neonato resteranno vegliati dalla loro gente, da un sommesso vociare dolorante, dalla luce soffusa e giallognola delle candele che progressivamente sfuma nell'azzurro dell'alba.

Il corteo funebre, che assomiglia più ad una manifestazione, parte da Polhó verso Acteal alle 9 del mattino del 25 dicembre. Striscioni che riportano frasi del vangelo e slogan contro il governo, musici che suonano l'inno zapatista, ma lo cantano in tzotzil, poliziotti in nero (ma non per il lutto) che scortano la marcia.

Tutti si muovono nuovamente per attraversare questa linea di confine immaginaria tra la morte e la speranza, questa volta in senso contrario, per ritornare nel luogo da cui sono dovuti scappare quarantotto ore prima e per rimanerci solo il tempo della sepoltura. Samuel Ruiz, "Tatic" - padre - per gli indios di qui, dispone dietro ogni bara un suo familiare, quando ancora sopravvive, e gli fa dire ad alta voce il nome dello scomparso, poi lo benedice in coro con la gente che assiste. Tatic non fa una omelia lunga e neppure troppo "politicamente impegnata". Sta parlando ad una folla di cattolici, organizzati come società civile e che per la maggior parte non fanno parte dell'EZLN. Dice che queste morti sono come semi che una volta piantati daranno i frutti migliori se verranno coltivati dalla forza e dall'impegno piuttosto che dalla rassegnazione e dalla vendetta.

Le bare vengono una ad una aperte per permettere il riconoscimento dei corpi. Alcuni è impossibile riconoscerli per l'avanzato stato di decomposizione, altri per la mancanza di metà del cranio, come nel caso di una bambina di due anni. Cosicché per attribuire le ultime identità, si va per differenza.

La sepoltura avviene a pochi metri dal luogo della strage, su di un terreno prima spianato, poi scavato dagli stessi uomini della comunità di Acteal.

Così, lentamente, come sono arrivati, gli indigeni del corteo funebre ritornano verso il luogo della speranza, Polhó, un piccolo villaggio che contro la sua volontà ha dovuto combattere (e dovrà continuare a farlo) contro le speranze dei possidenti, del municipio locale, del governo chiapaneco e federale, che vedono risolto nell'oblio e nella morte il problema indigeno messicano. Anch'esse sono speranze di frontiera, ma che stanno dall'altra parte del giusto, del dignitoso. Sono speranze sedimentate in cinque secoli e per questo dure a dissolversi, alimentate dall'indifferenza dei governi vicini e lontani ai quali interessa solo l'apparente rispetto dei diritti umani per firmare accordi che permettono bottini ben più succulenti degli spiccioli che vengono regalati ai loro mercenari. È una speranza che si fonda sulla povertà di molti per la ricchezza di pochi. È una speranza che si fonda sulla guerra: di bassa intensità, civile, dichiarata o nascosta, ma sempre di guerra si tratta.

Polhó, gli indigeni che vi abitano, quelli "desplazados" che vi sono ospitati, non hanno cercato questa guerra, ma la dignità e la forza con la quale hanno resistito a cinquecento anni di oppressione li ha resi ben più ricchi e potenti di qualsiasi moneta.

Massimo Boldrini

Polhó, 25 dicembre 1997

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