Torturati e rinchiusi. A Cerro Hueco, il "buco"

25 aprile 1997

Samuel Ruiz, il vescovo di San Cristóbal. Fray Ituarte, uno dei suoi vicari. La Commissione episcopale che denuncia la soffocante presenza di soldati, arresti arbitrari, carceri e torture. Dicono i religiosi del sud-est messicano: "Siamo differenti dagli zapatisti, perché loro impugnano armi. Ma noi stiamo dalla parte dei poveri anche quando sbagliano"

LUCA CASARINI - TUXTLA (Chiapas)

SI CHIAMA Cerro Hueco, "buco nella collina". E' uno di quei nomi che in Chiapas ti senti ripetere spesso. Ma non ti parlano di un luogo in sé. Cerro Hueco esiste perché esistono gli uomini che ci sono rinchiusi. E' un carcere speciale, pieno di prigionieri politici della "guerra a bassa intensità". Per arrivarci, bisogna passare Tuxtla Gutierrez (la capitale del Chiapas), imboccare la strada per l'aeroporto e a un certo punto seguire le indicazioni che si arrampicano verso la montagna.

Il penitenziario ha un muro perimetrale alto e vecchio, da cui spuntano garitte tirate su con tubi Innocenti e lamiera. I soldati accovacciati lì sopra guardano verso l'interno. Appena oltre l'ultimo tornante, si apre alla sguardo uno spettacolo inusuale: decine di donne indigene con i bambini aspettano accovacciate all'entrata. Tutt'attorno, una rete metallica alta dieci metri, interrotta solo dalla postazione d'ingresso, in cui sono cinque militari con i fucili a pompa a tracolla. Non indossano divise: hanno maglietta nera e Ray-ban scuri. Una perquisizione sommaria, il deposito di borse e zaini, e puoi passare il cancellone con le sbarre.

Lo scenario è quello di molti film sulla repressione in Sudamerica: tutto sembra provvisorio, i muri scrostati e bruciati dal sole. Nell'aria gli odori di un luogo tenuto sporco. Dimenticato, come quelli che sono rinchiusi. L'ufficio del direttore è lì, come la segreteria, come la matricola, il posto di guardia: in un unico stanzone. Dopo c'è Cerro Hueco, ma le cose "normali" si fermano in questo confine. Dalle sbarre di sette finestrelle lunghe e strette, da cui si intravede l'interno del campo, spuntano teste, braccia, mani che si agitano. Ad un certo punto vengono fatti passare un gruppo di campesinos: sono alcuni dei prigionieri politici. Scalzi, o con ai piedi pezzi di ciabatte di plastica, si presentano a testa alta: "Siamo i prigionieri della comunità di San Pedro. Rappresentiamo anche gli altri, grazie per essere venuti". A parlare è il più giovane di tutti, un indigeno di 21 anni. Rosey Perez Imenez faceva scuola ai bambini. "Quando i soldati sono venuti a prendermi - racconta - prima mi hanno picchiato e poi, tenendomi la testa in alto, hanno voluto farmi guardare quello che facevano: bruciavano i miei libri, i quaderni dei ragazzi". Per lui, come per gli altri, le accuse sono state trovate dopo. Omicidi, assalti, sequestri che in realtà, anche secondo la Chiesa, si devono agli squadroni di guardias blancas, e ora ci si giustificano gli arresti di contadini, studenti, donne.

Sospetti zapatisti

Il 14 marzo scorso, militanti del Pri, il partito-stato al potere, insieme a poliziotti e paramilitari, hanno prelevato dalle loro case 24 contadini "sospettati" di essere zapatisti. Enrique Gonzalez Lopez, 36 anni, è uno di questi: "Sono arrivati prima delle 6 di mattina. Erano armati di machete e fucili. Ci hanno messi in un ufficio del municipio, legati. Ci picchiavano, in particolare l'agente municipale Lopez, ci spegnevano le sigarette addosso. A me è uscito molto sangue, prima che si fermassero. Chiedevo perché, loro rispondevano ridendo e picchiandoci ancora. Ora dicono che ho commesso un omicidio. Ma non so quale".

Un altro, più anziano, si toglie lo straccio di camicia che ha addosso. Si volta e invita a guardare. Il dorso è segnato da piaghe di scottature. Il suo nome è Pedro Gonzalez, ha 57 anni. "Per portarci via ci hanno fatto stendere sul fondo delle camionette - dice - a contatto con il motore. Bruciava, ma se ci muovevamo ci colpivano con i fucili. Così siamo arrivati, dopo quattro ore, con la schiena completamente ustionata". Questa gente, come altri ottanta dentro Cerro Hueco, e migliaia sparsi nelle altre carceri, ha commesso il grave reato di non appoggiare l'esercito e il governo nella sua opera di annientamento delle comunità indigene. "Veniamo accusati di essere zapatisti - spiega Rosey - ma in realtà nessuno di noi lo era. Ora, di fronte a quello che stanno facendo alla nostra gente, come possiamo non appoggiare una lotta che non solo è giusta, ma serve per sopravvivere?". Pedro Gonzalez si è visto uccidere il primogenito, Fernando, 22 anni, davanti agli occhi. "Ero in casa quando hanno aperto la porta. Fernando era con me. Gli hanno sparato alla testa". Piange, ma dai suoi occhi non escono lacrime. Si riprende: "Mariano, l'altro mio figlio, l'hanno ferito ad una gamba e poi l'hanno arrestato con me. Sapete di cosa ci accusano? Di aver ucciso Fernando...".

I prigionieri tornano al di là delle sbarre, nel campo. Dormono a turno. Non c'è abbastanza spazio per tutti. Forse Zedillo dovrebbe mettere una nuova scritta fuori da Cerro Hueco: "Il lavoro rende liberi".

(Tratto dal Manifesto del 25 aprile 1997)


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