MIGLIAIA DI DONNE, UOMINI E BAMBINI SENZA ALIMENTAZIONE E SENZA CASA,
FUGGONO DALLE BANDE PARAMILITARI IN CHENALHO

24.11.1997

La violenza politica, scatenata contro i popoli ribelli, ha fatto nuove vittime negli ultimi giorni. Ci sono circa 4 mila 500 indigeni che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi, 500 di loro si sono rifugiati in montagna, alle intemperie: donne, bambini e anziani. Il presidente municipale ribelle di Chenalhó spiega che la gente "non ha alimenti nè roba, ci sono molti infermi e non ci sono medicine. Siamo in emergenza".
Un contadino in più è risultato morto durante l'attacco armato che un gruppo paramilitare ha realizzato nella comunità di Yaxjemel, a circa 70 km da San Cristóbal de Las Casas, in Los Altos del Chiapas.
L'omicidio è avvenuto quando "sono arrivati gli aggressori priisti da Puebla con poliziotti della Pubblica Sicurezza ed hanno attaccato e ammazzato a pugni e calci mio fratello José", denuncia Alfredo Gómez Guzmán.
Le donne sono vittime ora non solo di questi inumani avvenimenti, arrivano pure a loro i proiettili.
Due indigene tzotziles, una di 40 anni e una di 16, sono state assassinate la settimana passata nel municipio di Chenalhó, mentre tentavano di scappare verso la montagna.
In Yaxjemel, denuncia Gómez Guzman: "I priisti hanno picchiato e violentato a 3 donne. Poi hanno picchiato un altro uomo e dopo li hanno rilasciati solo dopo il pagamento di mille pesos. Tutte le case degli zapatisti sono state distrutte".
Le autorità del stato non hanno confermato i fatti.
Nell'ultima settimana è stata riportata la morte violenta di 10 indigeni nella regione, la maggioranza di loro basi di appoggio dell'EZLN.
Abitanti di sei comunità hanno denunciato "le aggressioni di priisti armati e poliziotti che hanno saccheggiato e bruciato 50 case".

La Procura Generale di Giustizia del Stato ha confermato por lo meno 5 delle morti e 12 case bruciate in attacchi violenti di circa 40 uomini incappucciati.
"È una strategia per provocare e deteriorare gli zapatisti. Attaccano la nostra gente nei villaggi ed i nostri compagni non rispondono per evitare un scontro che non si saprebbe quando può finire", ha dichiarato il presidente municipale ribelle.

Questa regione dall'accidentata geografia e dai vari climi è ricca nella produzione di caffè. L'economia degli abitanti del luogo dipende da questo chicco aromatico che quest'anno ha una buona quotizzazione a livello internazionale. La strategia dei gruppi paramilitari è basata sull'impoverimento dei contadini che appoggiano il governo ribelle.
Due giorni dopo l'attacco a Pechiquil e a Tzajalukum, i priisti e i poliziotti si sono portati via il caffè che avevano raccolto gli zapatisti.
Lo stesso è successo in tutte le 12 comunità dei dintorni nelle ultime settimane.
"A José Pérez Hernandez di Tzajalukum hanno portato via 43 quintali di caffè. Un camion di tre tonnellate se n'è andato pieno di sacchi di caffè di tutto il villaggio", dice Luis Pérez in un'intervista. "I priisti stanno pure raccogliendo nei nostri terreni di produzione di caffè. Il denaro lo stanno usando per comprare armi per farla finita con noi stessi. Mi possono ammazzare con un proiettile comprato con il caffè che mi hanno rubato", aggiunge con un nodo nella gola José Luis, che come tutta la sua famiglia non è rientrato nel suo villaggio da quattro giorni. Sua moglie, i suoi figli, i suoi vicini stanno stanno sopportando lacrime e fame in montagna.

I RIFUGIATI IN MONTAGNA

Centinaia di donne, uomini e bambini tzotziles stanno nascosti in montagna, soffrendo l'umidità e il freddo di los Altos. Hanno abbandonato i loro villaggi di fronte al timore di nuovi attacchi dei paramilitari. Protetti dalla pioggia pertinace con plastici di colore collocati nei terreni a produzione di caffè, gli tzotziles, basi d'appoggio ribelli, soffrono per la mancanza di alimenti, roba e medicine.
"Hanno bruciato le nostre case e si sono rubati tutto", è la storia che si ripete in Yaxjemel, Tabteckum, Tzanembolon, Los Chorros, Chimix, La Esperanza, Yibeljoj, Pechiquil, Tzajalukum, Bojoveltik, Aurora Chica e Canolal.
In un paraggio montagnoso, vicino la comunità di Acteal, tra terreni a produzione di caffè e grandi alberi appaiono decine di bambini, donne e uomini. Hanno passato due mesi vivendo tra gli alberi e il fango interminabile.
"Siamo stati buttati fuori dalla comunità di La Esperanza, dal 21 settembre. Siamo andati di luogo in luogo fino a qui. Ora non abbiamo più da mangiare, ci hanno dato tostadas in questo periodo. La gente non vuole più morire di fame... Sì, abbiamo casa, però ce l'hanno già distrutta e bruciata... Alcuni compagni avevano delle rivendite, però si sono portati via tutta la mercanzia... Per questo ce ne siamo andati. E qui stiamo, siamo alla fine", racconta Manuel López con il suo figlioletto di appena 8 mesi in braccio.
Le donne si ammucchiano dietro, con i bambini tra le gambe ed i bebè appesi del collo. Una vecchietta si tappa il volto con il huipil bianco con ricami rossi, il vestito tradizionale di questo popolo. I singhiozzi fanno sì che il respiro sia agitato. I bambini scalzi, appesi alle loro gonne, tossono, alcuni piangono.
Le più anziane iniziano a parlare. Poco a poco, tutte le donne parlano insieme, in tzotzil. Una litania di lamenti. Non importa loro che noi giornalisti non capiamo. È sufficientemente espressivo il loro tono di voce, i loro sguardi anelanti, le loro mani che si chiudono e si aprono segnalando il vuoto.
Non abbiamo niente, ora, niente per i nostri figli... Questo dicono le donne in questo triste racconto collettivo. Dicono che hanno perduto tutto. Parlano e parlano. Un uomo che le ascolta si nasconde gli occhi per piangere. Si ascolta la parola "priista".
Un uomo alla fine traduce: "...se ne sono andate da Pechiquil dal 20 per timore dei proiettili, poi sono arrivate qui. Hanno lasciato tutte le loro cose, materiali e strumenti di lavoro. Hanno rubato i loro cavalli e gli animali che avevano. E si sono mangiati tutto pure. Le donne piangono perché sono rimaste lì tutte le loro cose dentro alle loro case. Hanno tagliato caffè e mais, hanno lasciato i loro lavori".
"Non sappiamo perché il presidente ha dettato l'ordine e ha mandato le armi. Così come in Jibeljoj ha mandato 27 casse di fucili da caccia. Per questo la gente già ha paura, perché noi non abbiamo armi, per questo se ne sono andate e l'altro ieri sono arrivate fin qui", spiega Joaquín Santiz Lopez, originario di Pechiquil.
Verónica Perez è una bambina tzotzil di 10 anni. Inizia a parlare nella sua lingua mentre le sue dita giocano nervosamente, quasi tremando, con la sua collana di numeri colorati. Ella ha portato via i suoi fratellini da La Esperanza il 21 settembre. "Hanno iniziato a sparare in La Esperanza e non c'era sua mamma, nemmeno suo papà. Se n'è andata portandosi dietro i suoi fratelli, da lì iniziarono a sparare, se n'è andata a nascondersi, hanno sentito i proiettili più vicini, stavano proprio cercando lei. Dice che già sta soffrendo, che non hanno tortillas nè mais nè niente da mangiare ora".
Marcela Jiménez se n'è andata da Tzajalukum e di notte ha camminato su per la montagna ed è stata morsa da un serpente.
"Altre signore e bambini stanno infermi. Non abbiamo mais nè fagioli, che dare loro? già non ce ne rimane", assicura il professor Sebastián Pérez di Acteal, la comunità che aiuta in ciò che può questo gruppo di rifugiati.

I sindaci indigeni ribelli di Chenalhó, San Andrés Sacamchen de los Pobres e San Juan de la Libertad hanno condannato la violenza che è scoppiata nelle regioni Altos, Nord, Sud e Selva, "promossa dal governo federale e statale attraverso i presidenti municipali priisti, le guardias blancas e la sicurezza pubblica".
I municipi autonomi hanno richiesto al governo federale l'adempimento degli accordi in materia indigena firmati con l'EZLN nel febbraio del 1996.
Hanno richiesto pure la destituzione del presidente municipale del PRI in Chenalhó, Jacinto Perez Cruz, cui attribuiscono la responsabilità di armare guardias blancas.
"Non vogliamo più che si sparga altro sangue tra fratelli indigeni", hanno affermato.
"Ci sono migliaia di persone che hanno abbandonato le loro comunità fuggendo in montagna ed alcuni rifugiandosi in altre comunità. Se continuano gli attacchi agli sfollati non si saprà già più dove fuggire. Stanno soffrendo fame, senza tetto, senza altri vestiti che quelli che si portano addosso, sfuggono solo alla violenza, al massacro e alla persecuzione delle guardias blancas", segnala il comunicato ribelle.
"Esigiamo dal governo dello stato che si astenga dalla violenza e cerchi una soluzione attraverso il dialogo e s'impegni a ritirare la sua Pubblica Sicurezza, al pagamento per i danni provocati, al disarmo delle guardias blancas e per il ritorno alle loro case degli sfollati perredisti, priisti, società civile, basi d'appoggio dell'EZLN. Non vogliamo più che si sparga sangue tra fratelli contadini poveri", dice il documento firmato dai municipi ribelli.
Durante l'attacco a Tzajalukum, gli aggressori hanno perso due documenti d'identità, erano del PRI, uno di loro a nome di Manuel Gómez Ruiz, abitante di Acteal.

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PURE NELLA ZONA NORD DELLO STATO SONO MIGLIAIA GLI INDIGENI VITTIME DELLA ANTIGUERRIGLIA

Nell'Aguascalientes di Roberto Barrios, gli sfollati della comunità di Agua Blanca, nel nord dello Stato, sperano di tornare ad occupare le loro terre dopo 8 mesi di pellegrinaggio. Pensano di stabilirsi in una comunità parallela per poter lavorare la terra e tirar fuori qualcosa da mangiare. Il caso dei choles di Agua Blanca è uno tra i tanti di quelli che soffrono la penuria e la rapina di tutto per il solo fatto di non essere del partito ufficiale e di reclamare una vita migliore.

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(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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