Metto in rete questo mio contributo che apparirà nel prossimo
numero della rivista Amancer.
Il conflitto che vive il Messico in Chiapas non è unicamente nazionale, concerne l'umanità intera. Il conflitto non ha a che vedere solo con i popoli indigeni. É in gioco un nuovo modello di società che apra il cammino ad una democrazia con pluralismo ideologico e religioso, al rispetto delle differenze etniche e a una nuova concezione della giustizia, della dignità e dell'autonomia per i popoli e per le persone.
Commissione Nazionale di Intermediazione, Conai, 11 gennaio
1998
"Società civile globale" è il termine che Jeremy Brecher e Tim Costello propongono per indicare le prospettive che assumono i movimenti di protesta ai tempi della mondializzazione (Contro il Capitale Globale, Feltrinelli, 1997). La massiccia ondata di mobilitazioni che, in tutto il mondo, fa seguito alla strage di Acteal, Chiapas, avvenuta il 22 dicembre dello scorso anno getta una nuova luce sulle strategie da mettere in campo e su ciò che questa "società civile globale" può arrivare ad essere.
Nel caso di Acteal si è dimostrato che gli zapatisti messicani dispongono di una rete alternativa di portata internazionale che può influire sul corso degli avvenimenti; una rete non riconducibile ai partiti politici, né alle forze della sinistra tradizionale. Qual è il segreto degli zapatisti? Perché raccolgono così tanti consensi?
Per capire, oggi più che mai, abbiamo bisogno di nuovi paradigmi.
Abbiamo bisogno di ripensare non solo le parole e le categorie
interpretative, ma anche il mondo e, soprattutto, dobbiamo imparare
ad ascoltare le gran varietà di voci che sorgono da più
luoghi, voci con radici culturali differenti che parlano una molteplicità
di linguaggi.
Un movimento di caratteristiche nuove
É precisamente una di queste voci quella che, inaspettatamente si alza in Messico il primo gennaio 1994, giorno di entrata in vigore del Nafta (l'equivalente nordamericano di Maastricht). Terra di speranze e, allo stesso tempo, terra di schiavitù, crogiolo di popoli, di razze e di contraddizioni antiche e moderne, in Messico le forme più sofisticate di capitalismo si incrociano con una povertà ancestrale e con la resistenza delle civiltà mesoamericane che si ostinano a non morire.
Fin dall'inizio, circostanze singolari spingono i ribelli maya a non ripercorrere la strada delle guerriglie tradizionali: la fine della guerra fredda, la globalizzazione, la prossimità degli Stati Uniti, e, allo stesso tempo, quella dell'America Centrale dove le recenti esperienze insurrezionali hanno lasciato aperte ferite dolorose.
Inoltre, un'ondata internazionale di manifestazioni impedisce al governo messicano di perseguire fino in fondo la soluzione militare.
Gli zapatisti, dunque, si levano in armi senza essere un esercito tradizionale, né, tanto meno, un partito che lotta per il potere. Non sono un'avanguardia, non invitano a edificare il socialismo, né ad abolire la proprietà privata. Essi muovono da altri presupposti: il territorio, la comunità, la vita quotidiana, l'autonomia. Autonomia che rivendicano per sé stessi e per la propria cultura, ma anche per gli altri il che rimanda a valori universali: democrazia, libertà, giustizia.
Già nei primi mesi del '94, un po' ovunque, ma particolarmente negli Stati Uniti ed in Europa, sorgono reti di sostegno alla lotta zapatista che, in breve tempo, rivoluzionano il panorama mondiale della solidarietà. Non più o non solo, la solidarietà di chi ha verso chi non ha, di chi sa verso chi non sa, ma un rapporto complesso ed accattivante che punta alla costruzione di un cammino comune.
A differenza di altri popoli arroccati nella preservazione dell'identità, i maya mettono in discussione le proprie strutture tradizionali, rifiutano il patriarcato ed offrono nuovi spazi alle donne che infatti diventano i pilastri della ribellione. Nel tragitto, non tardano a scoprire la relazione tra la condizione loro e quella degli altri e rivolgono lo sguardo oltre i confini delle terre che abitano per osservare il disordine del mondo. Dicono parole nuove e, allo stesso tempo antiche, rilevano convergenze, costruiscono uno "stile", un modo differente di intendere la politica e i rapporti umani.
Costantemente, si preoccupano di mantenere l'iniziativa e riescono, nella pratica, a rivoluzionare le nozioni di tattica e strategia. Come?
Ad esempio, con la Consultazione dell'agosto 1995, quando ottengono
più di un milione di risposte, oppure con i negoziati di
San Andres, quando, invece di presentarsi con una lista di richieste,
invitano centinaia di persone appartenenti ad uno spettro amplissimo
di forze sociali e politiche ad accompagnarli e a dire la loro.
Ne segue un grande dibattito nazionale che sbocca nell'accordo
sui diritti dei popoli indigeni (firmato il 16 febbraio 1996 e
mai messo in pratica dal governo messicano), accordo di grande
importanza che riflette il sentire dei popoli indigeni del Messico
e del continente americano, ancor più delle posizioni particolari
degli zapatisti.
Guerra di Internet?
Verso la fine del 1995, l'attuale ministro degli esteri messicano, José Angel Gurría, afferma che in Chiapas si combatte solo una guerra di Internet. Per disgrazia di Gurría, quella guerra apre in breve tempo nuovi scenari, scenari niente affatto favorevoli al governo messicano.
É utile rammentare che all'inizio, gli zapatisti non hanno accesso alcuno alle autostrade informatiche. I primi comunicati sono scritti a macchina e recapitati a " El Tiempo", un giornale di San Cristobal Las Casas, stampato con mezzi artigianali. "Non pretendiamo che condividiate le nostre scelte o il nostro cammino. Solo vi chiediamo di permetterci di dire la nostra parola", dice, il giorno 11 gennaio 1994, la breve e timida nota dell'allora quasi sconosciuto sub comandante Marcos.
Ed è proprio dagli uffici del Tiempo - un periodico nato nel 1968 e sempre attento alla causa indigena - che la ribellione viene diffusa nel mondo intero. A fine gennaio 1994, il quotidiano di Città del Messico, La Jornada, pubblica un lungo ed appassionante testo, Il Sud-est in due venti, una tormenta e una profezia.
Da quel momento, la strabiliante capacità degli zapatisti di produrre comunicati, lettere, poesie, appelli, documenti, postille e racconti fa da contrappeso al maldestro tentativo del governo di minimizzare i fatti.
Allo stesso tempo, per una curiosa coincidenza, alcuni quotidiani che pubblicano informazione sugli zapatisti diventano disponibili per via telematica (La Jornada, principale sorgente di informazione per coloro che seguono le vicende in Chiapas, a partire dal marzo '95). I sostenitori della causa zapatista cominciano quindi ad usare Internet per trovare informazione, comunicare e organizzare proteste.
Nel frattempo, ad Austin, Texas, un gruppo di ricercatori crea Chiapas 95, la prima pagina web che riunisce documenti, analisi, commenti, note e scambi di opinione sulla ribellione zapatista. L'iniziativa è presto ripresa e le pagine elettroniche si moltiplicano in almeno cinque lingue: spagnolo, inglese, francese, tedesco e italiano.
Rapidamente, Internet si dimostra uno strumento efficace e difficilmente censurabile per mandare messaggi e creare reti di simpatizzanti in grado di coinvolgere anche coloro che non vi hanno un accesso diretto. Se è falso che i ribelli maya lancino proclami telematici dal fondo della Selva Lacandona, è bensì vero che i gruppi di simpatizzanti dell'Ezln fanno un uso intenso ed intelligente del web mondiale. Il 4 febbraio, pirati "hacker" imbrattano la pagina del ministero delle finanze messicano di messaggi filozapatisti. "Ti osserviamo big brother dice, fra l'altro, uno dei loro messaggi.
Nel corso di quattro anni, il flusso di informazioni aumenta in maniera impressionante e così pure le proteste, le manifestazioni di piazza, le azioni contro le ambasciate e i consolati messicani.
Non è l'ultimo dei paradossi che Internet - invenzione,
non dimentichiamolo, dai tecnici del Pentagono - sia diventato
nel giro di pochi anni il principale veicolo di informazione e
discussione della "prima rivoluzione del secolo ventunesimo"
e che gruppi marginali, sprovvisti di risorse materiali - salvo
un computer, un modem ed un poco di creatività - siano
oggi in grado di competere con un governo che, da sempre, spende
milioni di dollari per curare la propria immagine.
Un pianeta indignato
Il 23 dicembre 1997, il mondo apprende la notizia della strage di Acteal: 45 vittime in gran parte donne e bambini appartenenti alla etnia tzotzil, massacrati da bande paramilitari perché colpevoli di non simpatizzare con il partito di governo.
Dappertutto, i comitati neozapatisti che hanno partecipato ai due Incontri per l'Umanità e contro il Neoliberismo entrano in fibrillazione. Appena tre giorni prima, si è tenuta a Barcellona un'assemblea europea in cui, fra l'altro, si decide una campagna internazionale per fermare la violenza in Chiapas e la creazione di una commissione di osservatori di pace per visitare le regioni del conflitto e stilare un rapporto-testimonianza. I dati sono già allora preoccupanti: secondo cifre diffuse nelle settimane precedenti da La Jornada (28 novembre), l'anno che si conclude ha fatto ben 1539 vittime e 11.000 sfollati.
Fatto curioso: i grandi mezzi di comunicazione modificano, a poco a poco, la loro visione di quanto accade in Chiapas. Le spiegazioni ufficiali di uno scontro inter-etnico contrastano con le troppo eloquenti fotografie di donne e bambini inermi aggrediti dai soldati federali armati fino ai denti.
Ed è così che i collettivi neozapatisti diventano improvvisamente una fonte credibile. I telefoni dei tanti comitati Chiapas sparsi nel mondo, squillano in continuazione. E non sono solo simpatizzanti, ma anche giornalisti, organizzazioni non governative e parlamentari desiderosi di conoscere altre versioni dei fatti.
La quantità di concentrazioni, sit-in, scritte murali,
happening si moltiplicano a partire dal giorno 24 dicembre. Dal
Giappone alle Filippine, da Buenos Aires a Montevideo, da Dublino
a Catania, da San Francisco a New York sono centinaia gli atti
di protesta che scuotono il pianeta. In favore degli indigeni
chiapanechi si esprimono organismi tanto diversi come Human Rights
Watch America, le Madri della Plaza de Mayo, Amnesty International,
la Conferenza Panafricana, France Liberté, il Movimento
Sem Terra del Brasile, l'Unione dei lavoratori municipali del
Sudafrica, l'American Indian Movement, i Giudici per la Democrazia
(Spagna), il Parlamento Centroamericano, quello Europeo e la Commissione
Interamericana per i Diritti umani. L'obiettivo è sempre
lo stesso: fermare le stragi in Chiapas.
Non sono soli
Il 5 gennaio attivisti del Fronte Zapatista, organizzazione civile vicina all'Ezln, occupano brevemente la borsa valori della capitale messicana e due stazioni radio da cui trasmettono messaggi di solidarietà con gli indigeni del Chiapas. Il giorno 12, anniversario della tregua militare del 1994, l'FZLN proclama una giornata mondiale di lotta. A Città del Messico, trecentomila manifestanti di tutte le età e di tutte le classi sociali si riversano nelle strade per esigere la pace, il disarmo dei paramilitari, il ritiro delle truppe governative e l'adempimento degli Accordi di San Andres. Una manifestazione cui fanno eco atti di protesta nel resto del Messico e in tutto il mondo.
Nei giorni successivi, un comunicato dell'Ezln informa che tra il 22 dicembre 1997 e il 13 gennaio 1998 ci sono 130 mobilitazioni in 27 paesi di 5 continenti. "Il nostro interlocutore non è il governo messicano - spiega il sub comandante Marcos. Questo interlocutore non ascolta. I nostri interlocutori siete voi, le migliaia di persone che in Messico e in tutto il mondo vogliono la fine di un sistema di oppressione che altro non è che una guerra contro l'umanità".
E in Italia? Fin dal 24 dicembre, la Associazione Ya Basta indice una dimostrazione a Roma di fronte all'ambasciata, mentre il Coordinamento Veneto per l'Umanità e contro il Neoliberismo, sfila a Verona. Il giorno di Natale è la volta di Milano, dove centinaia di persone manifestano in Piazza del Duomo esigendo, fra l'altro, una dichiarazione del Cardinal Martini a favore di Samuel Ruiz, il vescovo del Chiapas che da anni si batte per difendere gli indigeni ed è per questo oggetto di calunnie ed aggressioni fisiche (come l'attentato cui è miracolosamente scampato lo scorso 4 novembre). Nei giorni seguenti sono occupate gli uffici consolari di Ancona, Roma, Napoli, Venezia, Padova, mentre si moltiplicano le manifestazioni a Brescia, Torino, Genova, Firenze, Trieste e Padova.
A Milano - città unidimensionale e radicalmente neoliberista che non protesta quasi più - il 10 gennaio, seimila persone danno vita alla manifestazione internazionalista più importante degli ultimi anni.
Novità: è la gente comune, senza partito, che si mobilita. Alla base però c'è il lavoro del Coordinamento Milanese di Sostegno alla Lotta Zapatista che punta alla costruzione di un percorso unitario al di sopra di vecchie rivalità e dissapori.
Ha così inizio un itinerario che, malgrado ricorrenti e forse inevitabili tentativi autopromozionali, sbocca nella grande manifestazione nazionale del 24 gennaio a Roma: 50.000 persone che si snodano come un immenso biscione umano tra il Colosseo e Piazza San Giovanni. Sorvolati da sciami di rondini che tracciano disegni curiosi nel cielo di gennaio, gruppi rock, bande musicali, collettivi teatrali e giocolieri si sommano ai giovani dei centri sociali, alla sinistra antagonista e a "germogli di società civile".
E ci sono le prime vittorie: la Commissione Affari Esteri del
Parlamento approva la risoluzione presentata da Rifondazione Comunista
che subordina la ratifica del convegno commerciale tra il Messico
e l'Unione Europea all'impegno da parte del governo messicano
di onorare agli Accordi di San Andres. Nei giorni successivi,
dalla Spagna arriva la notizia che il governo messicano permette
alla commissione internazionale della società civile di
visitare le zone del conflitto e di svolgere il lavoro di osservazione.
Verso una società civile globale?
L'ondata di simpatia mondiale per gli zapatisti, le grandi mobilitazioni di gennaio, le nuove forme di aggregazione, il dibattito a più voci che ne segue, fanno pensare ad un insolito e generalizzato bisogno di autorganizzazione. In Italia, la manifestazione del 24, è "indizio di un universo spezzettato e apparentemente disorganizzato che, in determinate condizioni, può essere protagonista di eventi forti"
(Collettivo Enne Enne).
Ovviamente non è il momento di autocompiacersi. Perché, si chiedono in molti, gli zapatisti riescono a mobilitare più persone che, ad esempio, le stragi in Algeria o in Ruanda? É una domanda pertinente, cui non è facile dare risposta.
Si può però osservare che la portata delle reti neozapatiste si va allargando e che il tema non è solo il Chiapas. Sempre di più circolano ampie e dettagliate informazioni su molte altre realtà: la guerra nel Golfo Persico, la Colombia, i kurdi, le azioni contro l'Accordo Multilaterale sugli Investimenti, Davos, le marce per il lavoro, la cittadinanza globale, i movimenti femministi.
Ne scaturisce una nuova sensibilità che raccoglie la voce dei popoli indigeni e dei diseredati del terzo mondo, così come quella dei lavoratori, dei disoccupati, delle donne, e dei marginali del mondo industrializzato. Una sensibilità che, a poco a poco, va creando nuove identità e nuove lealtà, oltre i confini nazionali e oltre i partiti politici.
Proviamo, dopo il lutto per i martiri di Acteal, ad essere ottimisti; proviamo a immaginare che qualcosa sta cambiando, che la storia non è finita e che quello degli zapatisti messicani è solo un episodio di una grande guerra planetaria tra dei super-poteri che pretendono di controllare i destini dell'umanità ed un nuovo ed intergalatttico spettro di forze sociali, una nebulosa di cui non si distinguono bene i contorni e che tuttavia esiste.
Una guerra, diciamolo chiaramente, molto più simile a ciò che il mahatma Gandhi chiamava satyagraha, la resistenza passiva, che ai sanguinosi conflitti che, ovunque, segano vite innocenti. Una guerra che si lascia dietro l'esperienza - eroica, è vero, però ormai conclusa - delle guerriglie latinoamericane che, per un momento, credettero di conquistare il mondo.
Perché, in fondo, che cosa piace degli zapatisti? Forse, come osserva Harry Cleaver, il fatto che essi abbiano rigettato esplicitamente il progetto rivoluzionario dominante del nostro secolo: la presa dello stato ed il suo controllo da parte di un'élite di rivoluzionari. E poi non vi è rancore nella loro lotta e nemmeno la violenza risentita degli sconfitti, ma un agire ricco di paradossi che trasmette la forza dei deboli di fronte ai potenti e la possibilità di costruire un futuro differente per tutti.
Oggi - ci mandano a dire dalla Selva Lacandona - non si tratta più di dirigere, di essere piloti invisibili, ma è più importante esserci, partecipare, aggiungere la propria voce alla grande e polifonica orchestra della resistenza, dare il proprie contributo alla costruzione di reti che possono modificare il corso della storia. In questa avventura, gli zapatisti non sono soli e nemmeno noi, modesti epigoni metropolitani, lo siamo. Molte altre teste, qua e là nel mondo, si pongono le medesime questioni e sognano i medesimi sogni.
Febbraio 1997
Indice delle Notizie dal Messico