La Jornada, 22 aprile 1998

Un capo supremo maya, sostenuto per volontà del governo di Quintana Roo

Blanche Petrich, inviata/ I, Tihosuco, QR ¤

I sacerdoti maya di Quintana Roo coincidono nella lettura di un presagio di guerra e di povertà (di mais) per questi tempi. Seferino Tum spiega alcune delle manifestazioni di questi segnali: “C'è una stella che sale al tramonto. Quest’anno è salita molto presto e inoltre trae butz (coda luminosa)... Cattivo segnale”.

Altri indicatori che si sono presentati questi giorni in alcuni villaggi sono i serpenti che si avvicinano alle porte delle capanne o che si divorano tra loro nei cortili, animali che muoiono repentinamente, pipistrelli che mordono i maiali. Quando questo succede è l’ora del loob, ora di curare il villaggio mediante un cerimoniale specifico. Le donne si chiudono nelle case del centro e preparano gli alimenti sacri: minestra di milpa e tortilla gorda in nove e undici recipienti, con una croce di pepita molida in ognuno. I signori marciano dietro al sacerdote maya che ricorre i quattro punti cardinali, circondando il villaggio con un anello di fumo d’incenso e con le preghiere pertinenti, capaci di proteggere la comunità dal cattivo vento che sale dal fondo del cenote del santuario di Xocen, vicino di Valladolid, in Yucatán, dove sta la croce di pietra, al centro della terra.

Seferino Tum è molto occupato di questi tempi, perché molti villaggi mandano chiamare il sacerdote per il loob. Però quando la divisione entra in un villaggio - spiega, assistito dalla puntuale traduzione di Beatriz Chablé, lavoratrice del Museo delle Caste che si erige come una memoria viva in mezzo a Tiohsuco - si perde per sempre l’effetto protettore del loob, la possibilità di purificarsi. Molti decenni fa i popoli hanno smesso di chiedere i riti ai sacerdoti perché le religioni evangeliche hanno dissolto l’adesione omogenea al sincretismo maya-cattolico.

Adesso si affacciano nuove minacce di divisione nella struttura religiosa e militare ereditata da una guerra che ha registrato i suoi ultimi combattimenti fino agli anni trenta. Di ciò continuano a parlare gli ufficiali ed i sacerdoti maya, da quando negli anni ottanta, di mese in mese si riuniscono in Carrillo Puerto, nella antica No Ca Balam Santa Cruz, “luogo dove si occultano gli imboscati”, in maya.

Seferino Tum, sordo come una talpa però lucido e attivo, ha circa 90 anni ed è radicato in quello che è stato il cuore dell’ultima guerra civile messicana, a poche strade di distanza dalla magnifica rovina di un tempio francescano del secolo XVIII senza facciata, dato che fu fatta esplodere con la dinamite dai ribelli della fine del secolo scorso. In una lunga chiacchierata nel piccolo recinto al fondo del suo cortile, dove dal suo piccolo e sacro altare, ci fa sapere che lui, che ha partecipato al primo Congresso Nazionale Indigeno di due anni fa che contava con la presenza della comandante Ramona nel Centro Medico del Distretto Federale, non ignora quello che succede in Chiapas.
Lì “c'è qualcosa che non va bene”.

Ci sono annunci, segnali negativi, pronosticano i saas.

Nel piccolo angolo abilitato ad altare si mescolano stampe dell’iconografia cattolica con diversi simboli maya. Fuori risuona la musica di Molotov ascoltata dai nipoti, pure monolingue. Nella penombra si prepara la cerimonia della lettura dei saas tum. Le piccole palle di cristallo, debitamente invocate con sementi di mais e ruda e bagnate con acqua di vita, sono capaci di leggere il destino.
A richiesta delle inviate di La Jornada, consulta il destino del popolo maya.

Molto dipende da come si dispongono i semi di mais sul fondo del bicchiere; se si abbassano a spirale, se fanno bollicine, se si posano subito o tardano a posarsi. Ci sono altri segnali che traspaiono dalle palle di cristallo che solo le loro mani contadine possono toccare.

Alla fine, Seferino e Marciana, sua moglie e partecipe della sua saggezza, alzano la testa ed emettono il verdetto: nonostante tutti i problemi che molestano e minacciano di spezzare la tradizione maya in Quintana Roo, l’organizzazione del popolo maya non finirà. “Però bisogna consultare con più continuità papà Sole, e mamma Luna. Loro possono chiarire. C'è da chiedere a San Miguel che castighi quelli che vogliono la guerra in Chiapas. Noi conosciamo la guerra. Bisogna fermarla. Questa non è la fine del popolo maya. Però c'è che stare molto attenti ai segnali, c'è da sorvegliare che i serpenti non si mangiano fra di loro”.

Questo annuncia Seferino. Fa cenno di sì Marciana, tessitrice di amache e comadrona.

La stampa di Quintana Roo ha pubblicato articoli che sono indizi della divisione che si fa di nuovo minacciosa. Il governatore Mario Villanueva, senza avere attributi per ciò, ha dichiarato che il generale Sixto Balam, del popolo del Signore, è e continuerà ad essere capo supremo della sua compagnia, all’interno del sistema di incarichi militari caratteristico dei maya macehuales. Sono nove compagnie, con ufficiali che coprono tutte le gerarchie (generale, sergente, tenente, due preganti e chen o popolo semplice) e che si ritrovano ad officiare nei cinque santuari: Tulum Pueblo, X Cacal Guardia, Chun Pom, Chancá Veracruz e Xocen.

Il tradimento di Sixto Balam.

Quello che non registra la stampa locale è che dopo un’intrincata storia che ha circolato di bocca in bocca nelle comunità che corrispondono alla sua compagnia, l’anziano Sixto Balam è stato misconosciuto come generale della sua compagnia da tutte le assemblee convocate a causa sua perché si è appurato grazie a varie testimonianze che osò regalare una delle sante croci dei santuari al magnate di Cancun Gastón Alegre, padrone di Radio Turquesa, tra gli altri mezzi di comunicazione.

Tanto sacre sono queste croci che gli occhi umani non si meritano di vederle. Perciò si coprono con un huipil o con una camicia e sono nascoste dietro una tenda. Per entrare nei loro santuari bisogna togliersi le scarpe. La loro natura sacra esige che a tutte le ore, 24 ore su 24, tutti i 365 giorni dell’anno, un corpo di ufficiali monti di guardia alle porte del santuario e che i preganti siano alla testa delle preghiere alle 8 della notte, alle 4 del mattino presto e di nuovo alle 8 della mattina, senza mancare un solo giorno del calendario.

Perciò la notizia che una delle sante croci era stata regalata ad un bianco è diventata un’offesa incredibile, un tradimento. In più, le voci insistono sul fatto che Sixto Balam ha ricevuto, come pagamento, un “piccolo terreno” in Tulum e che ha deciso, di tenersi in segreto il regalo e di conservarlo per sé.

Nello stesso popolo del Signore, José Ek Balam, convalescente dopo una operazione ai reni, riferisce alcune delle cose nascoste dietro il sipario di questo insolito disconoscimento da parte del popolo di un’autorità militare tradizionale. Suo fratello minore è stato tesoriere della compagnia di don Sixto, perciò sa i loro piccoli segreti. “È certa la faccenda del piccolo terreno. Anche quella della croce. Non sappiamo perché la voglia questo signore Gastón Alegre, che arriva come un benefattore facendo molti regali e filmando tutto con le telecamere, però la gente non perdonerà che ci sia stata portata via una croce dal santuario. Don Sixto è già stato sconfessato come generale e su questo non c’è più rimedio”.

C'è un antecedente, il caso del mulino di nixtamal. Circa 15 anni fa, la compagnia di ufficiali di Xcacal Guardia avevano ricevuto un mulino in donazione, però il generale di turno aveva deciso che il regalo fosse per lui e non per la comunità. Proteste e reclami arrivarono al primo disconoscimento storico di un ufficiale maya. Sixto Balam e un altro generale, Vittoriano Yeh, sono stati i lider della escissione a quei tempi. Adesso tocca a Sixto essere sconfessato.

Però lui ha deciso di non accettare la decisione della comunità e di attaccarsi alla parola del governatore dello stato. “Il Governatore dice che non ci saranno cambiamenti fino a che io muoia. Così è stato sempre anticamente e così sarà”, afferma Sixto Balam. E per ribadire la sua posizione ha tirato fuori vari documenti del PRI, la CNC e del Consiglio Supremo Maya.

La Jornada 23 aprile 1998

I comandi militari indigeni dicono:

Noi maya non siamo liberi, la nostra terra è per gli stranieri

Blanche Petrich, inviata /II e ultima, Xcakal Guardia, QR ¤

Le caserme della compagnia di Xcakal circondano il santuario delle sacre croci in un terreno appartato rispetto all’abitato. Nel torrido mezzogiorno s'intravedono solo alcuni agnelli - di una strana specie senza pelo e con similitudini col cammello - che masticano erba nelle scarse zone d’ombra. In una delle capanne per la vigilanza - costruzioni di legno, rotonde e con tetto di guano, fresche al loro interno - gli ufficiali vigilano stesi nelle amache.

Il tenente Cristino Tzituc Coh, l’unico bilingue, si sveglia e si dondola dolcemente mentre risponde all’intervista. “Il Consiglio Supremo Maya è nominato dal governatore. Perciò siamo nelle mani del governatore e del presidente. Sarebbe più giusto e coerente essere autonomi: saremmo liberi, vivremmo più sicuri”.

Tzituc non si riferisce all’autonomia impressa nella legge statale recentemente approvata dal Congresso locale, a maggioranza priista, lontano dallo spirito degli accordi di San Andrès Larráinzar.

“Credo che i parlamentari del Messico debbano prendere delle misure perché noi indigeni siamo indipendenti. Perché la verità è che noi maya attualmente non siamo liberi”, dice.

Gli attuali ufficiali delle compagnie maya di Quintana Roo sono nipoti e bisnipoti dei ribelli che furono protagonisti dell’insurrezione armata più prolungata contro il governo dello Yucatan, la cosiddetta Guerra delle Caste. Il tenente Tzituc guarda il generale Isidro Poot, comandante della guardia, in cerca della sua approvazione prima di continuare: “Gli antichi generali erano bene armati. Erano generali con forza e potevano fare giustizia con la loro mano. La gente andava dagli ufficiali a rendere le sue dichiarazioni ed i capi dovevano ascoltarla prima di dare ordini. Adesso tutto è nelle mani del Pubblico Ministero. I nostri generali non hanno armi. Sono generali senza forza”.

Per questi nipoti di guerrieri il problema dei maya di Quintana Roo è diverso da quello dei chiapanechi. “In Chiapas chiaramente gli indigeni sono schiavi dei latifondisti. Noi non siamo schiavi, però adesso le nostre terre sono solo per gli stranieri. Lo vediamo nel corridoio Cancún-Tulum. Puri stranieri sono i padroni di grandissimi hotel, dove si guadagnano milioni di dollari. Però il governo dello stato non può fare miglioramenti nei villaggi. Niente possiamo fare. Chi vuole mettersi a discutere con il governatore?”.

Alcuni gruppi, come questo di Xcakal, dissentono della docilità del Consiglio Supremo Maya, di filiazione priista, e si sono assommati al movimento indigeno nazionale che si è formato in seguito all’insurrezione zapatista. “Unite tutte le etnie siamo milioni. Se raggiungiamo l’unità di tutti saremo forti e raggiungeremo un accordo. Però per adesso questa organizzazione si sta solo pensando, niente di più”. Questa dissidenza inizia già a pagare il suo prezzo e secondo quanto riferiscono gli ufficiali maya, le incursioni dell’Esercito federale hanno iniziato a farsi sentire con frequenza in questi remoti e pacifici villaggi alla frontiera tra lo Yucatán e Quintana Roo.

Mentre il tenente Tzituc termina le sue spiegazioni, il capitano, il sergente e i preganti soccombono al letargo e russano placidamente. Solo il generale Poot continua ad essere in allerta, ascoltando e sorridendo senza fine.

Il ritorno di Bernardino Cen

Per l’antropologo Margarito Molina, esperto nello studio dei maya macehuales contemporanei, cattedratico dell’università di Quintana Roo, “nonostante che il grosso delle comunità mantengano la loro coesione tradizionale attraverso le compagnie militari, rimangono costanti fattori di divisione, alcuni interni e altri esterni”.

Una possibile frattura, che ancora non si afferma con chiarezza, può essere data dall’interesse di alcuni ufficiali verso le nuove idee sull’autonomia indigena, generate a partire dallo zapatismo e dall’adesione di alcuni altri alla catena di interessi creati tra il Consiglio Supremo Maya, il PRI e la CNC.

Molina considera, senza dubbio, che il maggior rischio di disintegrazione del sistema di comandi maya venga dal “usufrutto politico” che da anni hanno esercitato le autorità del governo statale, un “imbroglio” che scambia alcune concessioni per i rappresentanti con un cambiamento reale per incrementare solo la retorica indigenista dei governanti.

“Così è successo quando hanno concesso per la prima volta il titolo di fratello maggiore, nohoch sucum, a Carlos Salinas da parte delle comunità maya dello stato durante la sua campagna per la presidenza. Dopo hanno dato questo titolo, che non è altro che un’invenzione, ai vari governatori di turno. Però questi non sono altri che meccanismi per utilizzarli per i loro fini politici”, aggiunge Molina.

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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