FORUM NAZIONALE DI SOLIDARIETÀ CON LE COMUNITÀ ZAPATISTE
27 ottobre 2007 – Jojutla - Morelos
Intervento della Commissione Sesta dell’EZLN
LA SOLIDARIETÀ COME FRATELLANZA O COME USURA
“… il pessimismo continuava ad averla vinta poco a poco; la fame e la sete, la stanchezza, la sensazione di impotenza di fronte alle forze nemiche che ci accerchiavano sempre di più e, soprattutto, la terribile malattia dei piedi conosciuta dai contadini col nome di mazamorra - che trasformava in un martirio intollerabile ogni passo dei nostri soldati - avevano fatto di questo un esercito di ombre. Era difficile andare avanti, molto difficile. Giorno dopo giorno, le condizioni fisiche della nostra truppa e del cibo peggioravano, un giorno sì ed un altro no, un altro forse, niente contribuiva a migliorare il livello di miseria che stavamo sopportando. Passavamo i giorni più duri nascosti (…) in pantani pestilenziali, senza una goccia d'acqua potabile, attaccati continuamente dall'aviazione, senza un solo cavallo per poter trasportare i più deboli attraverso le inospitabili paludi, con le scarpe completamente distrutte dall'acqua fangosa di mare, con le piante che ferivano i piedi scalzi, la nostra situazione era realmente disastrosa mentre tentativamo faticosamente di uscire dall'accerchiamento (…). Non avevamo tempo di riposare neanche per poco quando un nuovo acquazzone, le inclemenze del clima, oltre agli attacchi del nemico o alle notizie della sua presenza, tornavano ad imporci la marcia. La truppa era sempre più stanca e scoraggiata. Ma, quando la situazione era ancor più tesa, quando ormai solo l'impero dell'insulto, delle suppliche, degli spropositi di ogni tipo, riusciva a far procedere la gente esausta, una sola visione in lontananza incoraggiò i loro volti ed infuse nuovo spirito alla guerriglia.”
“Passaggi della Guerra Rivoluzionaria.
L'Offensiva Finale: La battaglia di Santa Clara” - Ernesto Che Guevara
Così Ernesto Che Guevara descriveva un ottobre di quasi 50 anni fa. Alcune settimane dopo questo disastro, il Che comandava una delle battaglie più impressionanti della storia militare mondiale: la Battaglia di Santa Clara.
Giorni dopo cadeva la dittatura da Fulgencio Batista, trasformando il popolo di Cuba, dopo essere stato l'ultimo ad emanciparsi, nel primo ad essere libero in America.
E dico questo mentre si blatera della sovranità nazionale (ora presuntamente difesa dai senatori “patrioti”) o della lotta al narcotraffico, dimenticando che la cosiddetta “Iniciativa Merida” o “Plan México”, ha come uno dei suoi obiettivi quello di chiudere la morsa militare e diplomatica intorno a quella solitaria stella di dignità nei Caraibi.
All'improvviso, dopo gli stessi quasi 50 anni, il governo nordamericano scopre che l'opzione scelta dal popolo cubano non dipende da un uomo eccezionale, ma dalla vocazione storica condivisa dai popoli latinoamericani: quella alla libertà ed alla giustizia.
Il problema, dunque, per il governo degli Stati Uniti non si chiama Fidel Castro Ruz, ma, per dirlo semplicemente, si chiama Rivoluzione Cubana.
40 anni fa il Potere straniero scoprì che la ribellione di un continente non moriva con la pallottola che ammazzava Ernesto Che Guevara, e che a volte quel sentimento si incarna negli individui ma sempre nei popoli.
Forse a qualcuno, o a qualcuna, suonerà strano che il nostro intervento in questo forum di solidarietà con le comunità zapatiste inizi citando il Che e Cuba, ma viene a proposito perché, secondo il nostro pensiero zapatista, non si può parlare della solidarietà come fratellanza senza pensare a Cuba, alla sua lotta ed alla sua storia.
E nominando Cuba non nominiamo la vittima di turno, ma quanto lì è in gioco a livello regionale, continentale e mondiale.
E nominare il Che non è far un’offerta al complesso e reiterato culto della morte. È, invece, onorare la vita e la ribellione che le dà senso e rotta.
Un po’ di storia.
“Tutto sembra impossibile alla vigilia” - disse qualcuno dei nostri, per poi aggiungere - “ma il domani è proprio lì, vicino, non perché ci aspetti, ma perché noi lo costruiamo al suo momento, su un altro calendario”.
E tra gli impossibili di ieri, ci sono i futuri oggi. Gli uomini, le donne, i bambini e gli anziani che hanno abbracciato la causa sintetizzata nella Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, hanno deciso di fare un'Altra cosa, in basso e a sinistra, ed affrontano gli impossibili di oggi.
Ma non è la prima volta.
La storia recente del nostro movimento, quello zapatista dell'EZLN, ha visto molti stravolgimenti in quanto riguarda il nostro modo di vedere il mondo, di guardare all'ambito politico.
Pensando che saremmo stati non solo soli, ma con tutto contro, ci preparammo per quell'alba del gennaio 1994.
14 anni fa, con la luna di ottobre come tetto sul nostro cammino, nelle montagne del sudest messicano, si affinavano gli ultimi dettagli dell'insurrezione. Ho detto “affinavano gli ultimi dettagli” solo per ripetere un luogo comune, in realtà camminavamo disordinati, con una rilassatezza che dava molto da pensare sulle possibilità reali di successo politico e militare dell'insurrezione in armi di migliaia di indigeni e della presa di 7 capoluoghi municipali dello stato sud-orientale messicano del Chiapas.
Realizzare gli ultimi preparativi dell'insurrezione sembrava lo sforzo di tagliare con martello e scalpello uno di quei piccoli gioielli di cristalleria che abbagliano per colori e lucentezza. E così fu allora, ed è anche adesso.
La nostra causa, la più bella, nobile ed antica nella storia dell'umanità, la causa della libertà dei popoli, ha così tanta luce e colori che ancora adesso, a quasi 24 anni dall’inizio del nostro impegno, non abbiamo finito di scoprirla nella sua totalità.
Lo sappiamo ora e lo sapevamo allora.
Ma non siamo abituati a sistemare i fatti della nostra stessa storia per dare lezioni che mai abbiamo preso o per dare un'idea di limpida coerenza, quindi devo dirvi che, visto dall’alta e luminosa notte dell'ottobre del 1993, il piano dell'insurrezione somigliava molto a tanti disordinati pezzi di un puzzle che non avevano niente a che vedere tra loro.
Potrei vantarmi ora, a distanza di calendario e guardando alla neo-militarizzazione del paese intero, dicendo che il caos di allora faceva parte del piano, e che tutto mostrava un disordine studiato con l'obiettivo di sconcertare i servizi segreti governativi del Messico e degli Stati Uniti, ma non lo farò.
Se a quella borsa di domande che voi chiamate “luna”, domandassimo che cosa vide in quelle notti sulle montagne del sudest messicano, sicuramente direbbe: “Sembrava un'ombra multipla, senza destinazione, rotta”.
Indubbiamente io avrei preferito che la luna ci descrivesse come uno “specchio frammentato”, ma chi fa tante domande non può mentire, cosicché quello eravamo: un'ombra rotta. Forse lo siamo ancora, forse torneremo ad esserlo.
In altre occasioni ho fornito frammenti di questo modo così peculiare che abbiamo noi zapatisti, zapatiste, di affacciarci al futuro, al domani. C'è una specie di ironia della morte e, nello stesso tempo, una grande speranza per la vita.
Perché?
Non sono state poche le albe solitarie in cui ho cercato di rispondere a quella domanda che la luna ci ripete col suo viavai luminoso. È stato il Vecchio Antonio, quell'indigeno di radici maya che per noi fu porta e finestra, che arrischiò una risposta:
“È questione del parlare e del suo tempo. Il presente si parla individualmente, il passato ed il futuro collettivamente. La morte, dunque, è una questione che ha potere solo individualmente e la vita è possibile solo collettivamente. Per questo diciamo ‘muoio’ e per questo diciamo ‘viviamo’ e ‘vivremo’”.
Allora, ora ricordo la diagnosi tipica delle infermiere zapatiste così come la comunicavano ai pazienti. Non era: “non è grave, guarirai”, ma: “di sicuro morirai, ma non subito, ci vorrà ancora del tempo”. Il paziente si rimetteva rapidamente. Non so se per lo stimolo di una diagnosi così motivante… o perché, preparando l'iniezione l'insurgenta addetta alla sanità aveva la gentilezza di informare il paziente che l'ultima volta che aveva fatto un'iniezione le si era rotto l'ago nella natica del compagno. “Povero compa” - diceva mentre strofinava con un batuffolo di cotone inzuppato di alcool la zona dove avrebbe fatto l'iniezione - “credo che abbia ancora dentro il pezzo di ago, per questo zoppica”.
Con tutto questo voglio dire che 14 anni fa pensavamo sì alla morte, ma era una faccenda privata, come lo sono lo spazzolino da denti e la biancheria intima… be, se si può chiamare biancheria intima quei pezzetti di tessuto che le donne usano adesso e che, inoltre, si sistemano in modo da farle spuntare dai pantaloni che non arrivano ai fianchi.
Mmm… mi sta venendo fame, quindi è meglio che mi affretti a completare quanto ho da dirvi…
Vi stavo dicendo che sì, la morte possibile e probabile era, ed è, una questione individuale e personale, ma la vita era ed è, per noi, una questione collettiva su come eravamo, siamo, saremo.
In altre parole, per lo zapatismo dell’EZLN, il fallimento e la morte si coniugano alla prima personale singolare (“Io, Me, A me, Con me”), il che ha dato il titolo ad un disco di Joaquín Sabina); invece, il successo e la vita portano sempre in mano il “noi” che ci dà identità, passato e domani (quello che si conosce come “Utopia” che, per certo, è il nome di un disco di Joan Manuel Serrat).
In sintesi, quella vigilia della guerra contro l'oblio, non è che non portassimo con noi, oltre al fuoco, dei dubbi. Ne avevamo, e molti. Ma non si riferivano al nostro destino individuale o collettivo. Queste questioni si erano risolte tempo prima, quando ognuno di noi, ognuna di noi, eravamo arrivati al punto in cui, questo sì è qualcosa di personale ed individuale, eravamo arrivati alla grande biforcazione che normalmente presenta l'andar del mondo: in alto o in basso? A destra o a sinistra? Protagonismo individuale o anonimato collettivo? Luce o ombra?
No, i dubbi avevano a che vedere con ciò che avremmo trovato là fuori.
Imputatelo al nostro pessimismo dialettico o alla nostra sfiducia ancestrale, ma il fatto è che pensavamo che saremmo stati ricevuti col silenzio, la sordità, la condanna, la lapidazione. Chiaro, oltre che con pallottole e bombe. “Non sono bombe, sono razzi” - disse l'autodenominato storiografo ed allora fan di Carlos Salinas de Gortari, come poi lo sarebbe stato di Ernesto Zedillo, Vicente Fox, López Obrador (prima della frode, chiaro) ed ora lo è di Felipe Calderón. Credo si chiami Héctor Aguilar Camín che, di sicuro, ora firma un libro su Acteal, perché Tello Díaz non era disponibile. Altro denaro per ampliare gli annessi e connessi in cambio del lavaggio del crimine di Stato che porta il timbro di una guerra di sterminio che compie ormai 515 anni.
Balza all'attenzione che la memoria che si fa di Acteal porti il logo di Gustavo Iruegas, addetto alle relazioni esterne del cosiddetto governo legittimo di López Obrador. E che, nel momento in cui si denuncia la partecipazione di ex-guerriglieri nella strategia di contrainsurgencia che si scatenò allora e che culminò col Massacro di Acteal, si dimentica che uno dei capi della delegazione governativa di Zedillo era il signor Iruegas, oggi convertitosi improvvisamente alla causa della sinistra.
Bene, non divaghiamo, dopotutto lassù, Aguilar Camín troverà da chi riscuotere.
Ritorniamo a quei giorni. Perché risulta che ci sbagliammo. E ci sbagliammo doppiamente.
Perché incontrammo sì, gli Annessi e Connessi e le relative Svolte a destra, ma incontrammo anche allora chi, pensammo allora, tentava di capire, di capirci.
Già prima ho fatto riferimento al fatto che, a quell'epoca, abbiamo avuto la fortuna di contare sull'interesse dei lavoratori dei mezzi di comunicazione, oltre che di artisti, intellettuali e scienziati progressisti. L'ascolto che prestarono allora è qualcosa che fu fondamentale e che ricordiamo con sempre più nostalgia.
La presenza di queste persone fu importante. Tuttavia, non mi riferirò ora alla loro notevole assenza, al loro criticabile silenzio, o alle relative dissociazioni di moda e convenienza.
Invece, vorrei citare chi si avvicina alle lotte, movimenti e popoli offrendo appoggio, mentre in realtà sta concedendo un prestito ad alti interessi. Cioè, a quelle persone che trasformano la solidarietà ad una causa, in un bottino ed usano questi appoggi per costruire la propria scalata al Potere.
Perché risulta che se ci sbagliammo a supporre che saremmo stati soli, ci sbagliammo anche a pensare che ciò che era di interesse primario, e poi simpatia, appoggio e solidarietà, fosse qualcosa di sincero e di onesto.
In quei primi giorni, ignari di come andavano le cose là fuori, si avvicinarono a noi persone di cui ci fidammo. Allora non sapevamo che, insieme a loro, venivano anche le loro fobie e che non pensavano ad altro se non a come fare uso del posto che il sangue dei nostri morti aveva conquistato.
È normale che, quando si parla in generale, gli interessati dicano che ci stiamo riferendo ad altri, o ad altre. Quindi, bisognerà nominare anche le persone che furono della CONAC-LN e poi del FAC-MLN. Che, quando divenne di moda accusarci di essere “riformisti armati” e “piccolo borghesi” ci dettero addosso con singolare entusiasmo. I “radicali” di allora sono adesso agnelli mansueti nei recinti del Potere. Il signor Benito Mirón Lince ne è la dimostrazione. L'attuale funzionario del governo del DF, passato di poltrona in poltrona, dimentica che alcuni anni fa era un furibondo critico della sinistra istituzionale e del riformismo. Il radicalismo gli è durato fino a che non ha raggiunto il budget.
Poi scoprimmo che la presunta solidarietà con lo zapatismo, per tutti e tutte loro non era stata altro che un investimento.
Gli attuali funzionari distribuiscono elemosine per lavarsi la faccia, conservano o esibiscono le loro foto con gli zapatisti a seconda di come tira il vento, si congratulano reciprocamente per la loro prudente maturità ed ingrassano il loro portafoglio con banconote e carte di credito, ed il loro cuore con alibi che nascondono i loro tradimenti e tentennamenti.
Questo è successo e succede non solo in Messico, ma anche in Europa. Collettivi di solidarietà che allora tesero ponti, oggi ci attaccano, mantengono un silenzio complice o si dissociano con un opportunismo che ha come contapassi il rating sui mezzi di comunicazione.
E pretendono che, a pagamento dei “favori ricevuti” (così dicono), l'EZLN appoggi le loro posizioni riguardo alla giusta lotta del popolo Basco, le loro politiche di sostegno vergognoso dell'interventismo nordamericano ed europeo, i loro sospiri per le monarchie che macchiano il vecchio continente. E siccome non lo facciamo, allora si ritirano o cambiano in base alla moda, questo sì, previa dissociazione pubblica… o privata.
Su questi ed altre terre, gli usurai della solidarietà reclamano da noi un'autocritica, esigono che chiediamo perdono visto che non obbediamo loro, che non li seguiamo, che non ci sottomettiamo.
Allora ci sbagliammo. Adesso sappiamo che la solidarietà che non si dà senza condizioni, senza aspettarsi niente in cambio, non è che un'altra forma di usura, grazie alla quale si vuole trarre profitto dal dolore e dalla lotta altrui.
Tutto questo viene a proposito visto che questo è un forum di solidarietà con le comunità indigene zapatiste.
Ed io sono venuto solo per avvisare che, quelle persone, quei gruppi, quei collettivi e quelle organizzazioni che pensano di praticare l'usura presentando il conto dei loro aiuti e della loro solidarietà verso i nostri popoli, sappiano che non avranno nessun rimborso.
Diciamo loro di guardarsi allo specchio che in alto finge di essere di sinistra, di partecipare ai loro caffè, incontri conviviali, tavoli di redazione, ai loro consigli nazionali, ai loro uffici governativi.
Sentirete, con sorprendente unanimità, che lo zapatismo è passato di moda, che ha commesso molti errori, che non è realistico, che è settario, radicale, ostinato… che è coerente.
Non fraintendetemi, non siamo cattivi debitori, non è che non vogliamo pagare.
Si tratta semplicemente di confusione.
Perché in questo lungo combattere, i popoli indios tutti, non solo zapatisti, sono i creditori.
È così da quando il mondo ha cominciato a girare. Così fu 200 anni fa. Così fu un secolo fa.
Così sarà quando il calendario del basso torni a girare e a presentare all'alto l'interminabile conto dei debiti che si accumulano in basso e a sinistra.
Perché, bisogna dirlo, forse quello che il Che disse di aver visto in lontananza altro non era che il luogo dove la libertà è il punto di arrivo e di un nuovo passo: quello di essere migliori.
Bene (bene anche per la benzina). Saluti e che, tra somme e sottrazioni, vinca il domani.
Molte grazie.
Subcomandante Insurgente Marcos
(traduzione del Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)