La riappropriazione di fronte alla spoliazione
Sergio Rodríguez Lascano

"La globalizzazione moderna, il neoliberalismo come sistema mondiale, si deve intendere come una nuova guerra di conquista di territori" [Subcomandante Marcos 7 pensieri in maggio].

Se analizziamo i fatti fondamentali della storia del Messico, in tutti ritroviamo la terra come filo conduttore che ci permette di comprendere ribellioni, rivolte e rivoluzioni. La lotta per la terra è stata il segno di identità nella formazione di quel grande soggetto sociale che è il popolo messicano.

Dall'intervento dell'impero spagnolo, quelli in alto hanno lottato per generare spazi di accumulazione per mezzo della spoliazione, per cui hanno sempre utilizzato l'ideologia del progresso come alibi. Il progresso come meccanismo di saccheggio e di eliminazione dei legami comunitari.

Il 6 gennaio 1992, Carlos Salinas de Gortari, affrettandosi verso la firma del Trattato di Libero Commercio dell'America del Nord (TLC), fece approvare una serie di modifiche all'articolo 27 costituzionale, con le quali si cercava non solamente di dare per finita la ripartizione agraria ma, soprattutto, di mettere sul mercato la terra. Con questo si seppelliva la conquista fondamentale della rivoluzione messicana e si definiva la terra come una merce in più che si può vendere e/o affittare.

A contorno di quell'avvenimento si sprecò molta saliva. Luis Téllez fu intervistato dal Wall Street Journal e, affinché i lettori di quel giornale lo capissero, disse che la riforma del 27 aveva come analogia storica, la conquista dell'ovest negli Stati Uniti. Prese ad esempio quei "forzati" coloni che attraversarono le Montagne Rocciose per colonizzare l'El Dorado californiano. Quello che non disse è che quell'impresa fu resa possibile grazie al massacro delle tribù indiane. Secondo lui, come in quell'occasione, il capitale sarebbe fluito come un fiume impetuoso civilizzando il mondo arretrato dell'agro messicano.

Nel campo degli intellettuali, l'ingegnere per professione e venditore per occupazione, colui che si maschera con la veste di storiografo, Enrique Krauze, disse che il conflitto che stava dietro alla riforma del 27 si ubicava tra coloro che lottavano per la libertà (Bakunin, Zapata, Manjo, Salinas de Gortari), contro gli autoritari statisti (Marx, Lenin, Lázaro Cárdenas). Che le riforme del 27 facevano diventare realtà il sogno di Zapata: Terra e Libertà.

Alla fine della strada il campo non si è capitalizzato, il che non vuol dire che alcuni non si siano arricchiti col campo. Mentre nel 1990 la partecipazione percentuale del settore agropecuario al Prodotto Interno Lordo era del 6,19, nel 2004 è sotto al 5,05. E, naturalmente, la rettorica dell'intellettuale organico di Televisa fece risaltare che se non c'era stato un trionfo culturale di Bakunin, Zapata o Manhjo, però era un trionfo economico per alberghieri, padroni di grandi magazzini commerciali e società mercantili agricole e ristoratori.

Invece i contadini sono di giorno in giorno sempre più poveri, ecco qualche esempio. Per l'anno 2005, dei 30,185 milioni di persone che vivevano nelle campagne, solamente 8,5 milioni di persone sono occupate nelle attività agricole e di allevamento. Del totale della popolazione rurale, il 34% non hanno entrate, cioè 10 milioni 262.900 persone, al 25% arriva solo un salario minimo, cioè a 8 milioni 796.250 persone, il 27,9& ha da uno fino a due salari minimi, cioè 8 milioni 421.615 persone, il 7% ha da due fino a cinque salari minimi, cioè 2 milioni 112.950 persone, e solo il 6,1% dei lavoratori agricoli ha un'entrata superiore a cinque salari minimi, cioè 1 milione 841.285 persone [dati dell'INEGI].

Il problema che si visse nel 1992 fu che il grosso delle organizzazioni contadine, non solamente quelle ufficiali ma anche quelle che pomposamente si definivano: nuovo movimento contadino, avallarono o rimasero silenziose di fronte alla tremenda aggressione.

L'idea che stava dietro a quella riforma era di generare un riaggiustamento spaziale per il capitale che avesse le seguenti caratteristiche:

1 - Mettere la terra sul mercato per il suo acquisto e la sua vendita, invece dei suoi prodotti. Ora la terra poteva essere venduta o affittata.

2 - Trasformare la detenzione della terra, reintroducendo il latifondo sotto l'elegante nome di società mercantili agricole.

3 - Realizzare un nuovo processo di separazione dei produttori dei mezzi di produzione generando un'eccedenza di manodopera che poteva essere canalizzata con l'emigrazione verso gli Stati Uniti, fratturando il vecchio tessuto sociale.

Permettetemi di soffermarmi un poco su questo. Nell'emigrazione messicana si definiscono le quattro ruote del carretto neoliberale: spoliazione, visto che un buona parte dei contadini si videro obbligati a vendere od affittare le loro terre; repressione, visto che molte volte sono vittime della violenza della migra o delle guardie paramilitari dei rancheros razzisti; disprezzo di un sistema diretto dal razzismo; sfruttamento selvaggio, che permette che il valore creato dalla forza lavoro sia immenso.

Il risultato di tutto questo è che le rimesse dei lavoratori messicani che stanno negli Stati Uniti ha raggiunto nel 2006, un po' più dei 24.000 milioni di dollari; questo spiega perché non è caduto del tutto il livello di vita dei contadini poveri del nostro paese.

Quindi un processo triplo che combina una dinamica mai terminata di accumulazione originaria di capitale dove il capitale finanziario continua a saccheggiare il paese; un processo di accumulazione del capitale e l'utilizzo dei clandestini come meccanismo di riproduzione ampliata del capitale e, per finire, l'utilizzo dei bassi salari dei lavoratori messicani per schiacciare verso il basso i salari dell'insieme dei lavoratori degli Stati Uniti.

4 - Tutto questo ha rappresentato un'aggressione globale, contro questa modalità di organizzazione agraria, in molti sensi unica al mondo, prodotto della rivoluzione messicana, contro l'economia morale dei messicani, specialmente delle comunità indigene, con cui si cercava di distruggere una razionalità, un modo di capire la relazione con la natura ed una modalità di organizzazione sociale differente, più armoniosa, dove non si producono solo materie prime o un qualunque tipo di merci, ma, prima di tutto, relazioni sociali più giuste e libere. Il criterio del guadagno è entrato come un coltello nel burro rovinando le vecchie forme di produzione, di commercializzazione, di organizzazione.

5 - Il cambio dei seminati, privilegiando la produzione agricola per l'esportazione rispetto a quella dei prodotti fondamentali della dieta dei messicani. Con l'abbandono della semina di prodotti destinati al mercato interno, non è casuale che l'importazione di mais abbia subito un'impennata scandalosa. Le importazioni di mais proveniente dagli Stati Uniti si moltiplicarono per 15 con l'entrata in vigore del TLC. Alla dominatrice concorrenza statunitense si è unita una "politica più liberale" del governo messicano che, nel caso del mais, ha liberalizzato il mercato oltre quanto previsto dallo stesso accordo.

Il valore delle esportazioni agricole degli Stati Uniti in Messico passò da 3.476 milioni di dollari tra il 1991 ed il 1993, antecedenti all'entrata in vigore del TLCAN, a 7.516 milioni di dollari nell'ultimo triennio, il che ha rappresentato un incremento del 116%, secondo il rapporto del Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti.

6 - Il generare un'ideologia produttivista tra coloro che hanno la terra (un po' più di 2 milioni di ejidatari, contro più di 30 milioni che vivono nel campo), facendo sì che non si preoccupino delle problematiche di coloro che non ce l'hanno e che secondo questi piani non l'avranno mai.

7 - Avere le mani libere affinché le grandi società mercantili agricole introducano tecniche di semina con semi geneticamente modificati che non cominciano solo ad inondare il mercato, ma contaminano le piante ed i semi originari.

8 - L'utilizzo di terra anteriormente a vocazione agricola per la costruzione di grandi centri turistici, centri commerciali, ecc.

Disgraziatamente e nonostante tutte le evidenze, le vecchie e le nuovo-vecchie organizzazioni contadine vanno avanti senza tirare le conclusioni sul significato profondo della riforma del 27 costituzionale. Tutti lavorano considerando quel fatto come un dato inamovibile, con una rassegnazione che sfiora l'accettazione che questo sia l'unico scenario possibile.

Succede lo stesso tra quelli che hanno presentato un presunto progetto alternativo di nazione alle ultime elezioni, lasciando da parte il significato delle riforme saliniste del 27. E non c'è da ripeterlo, ma non serve proprio a nulla far l'antisalinista a parole continuando poi a far caso omesso di fronte al fatto fondamentale che segnò quel governo.

Inoltre gli intellettuali "specialisti" ed "esperti" nella questione agraria se la passano discutendo sulla "grande" problematica del campo e dibattono su che cosa è meglio: se una politica di sussidi all'agro per compensare la stagnazione della produzione agricola o il ritorno alle strategie diversificate delle vecchie società agrarie. Però risulta che ci sono più di 30 milioni di messicani che vivono nel campo e solamente un po' più di 2 milioni hanno titoli di proprietà. Non sarà che dovrebbe essere fondamentale portar avanti una nuova riforma agraria che torni a fissare un limite alle proprietà, magari minore di quello stabilito prima, di 100 ettari? Non sarà che il primo passo dovrebbe essere quello di tornare indietro sulla riforma salinista del 27 costituzionale e tornare pure indietro sulla spoliazione che subisce il contadino indigeno e non indigeno? Non sarà indispensabile riappropriarsi della terra che sta in mano ad alberghieri, grandi commercianti e degli impressionanti agrobussines, sia nazionali che internazionali?

Inoltre ci sono quegli esperti che discutono sul fatto che dopo la riforma del 27 ci sia stato un processo di vendita e affitto della terra, perché, basandosi sui dati proporzionali fra terreni ejidali, comunitari, privati e nazionali, si constata che continuano ad essere più o meno gli stessi rispetto a prima della riforma del 27.

Probabilemte non si rendono conto, perché non vanno a farsi un giro per il paese, specialmente per il nord del Messico, che la vendita e l'affitto hanno orami un ritmo impressionante, che la spoliazione sta avanzando, giorno dopo giorno, senza che per ora sia riflessa nelle statistiche nazionali.

Ma c'è un dato che rivela la situazione che si vive in questo terreno. Per il dicembre del 2005, secondo il centro di studi e pubblicazioni della Procura Agraria, un 22% del totale delle terre ejidali e comunali è in iter per il cambio di proprietà, sta diventando proprietà privata.

A questo bisogna aggiungere che la privatizzazione della proprietà sociale già realizzata nell'anno 2004 ha compreso 1.804 nuclei agrari, per un'estensione di 829.000 ettari [Centro studi della Procura Agraria].

L'Altra politica agraria

Come hanno spiegato i compagni dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, uno dei motivi principali che permise loro di giungere alla conclusione che era indispensabile sollevarsi in armi, fu la riforma salinista del 27 costituzionale.

Per questo, mentre tutto il mondo dava come dato inamovibile della realtà che non poteva più lottare per la terra, che era finita la ripartizione agraria, invece, come prodotto dell'insurrezione zapatista, si espropriarono le terre di latifondisti razzisti di varie regioni dello stato del Chiapas. Le basi d'appoggio zapatiste entrarono in possesso di quelle terre e da allora le lavorano in modo comunitario, rompendo con la logica del mercato, rompendo con la logica del guadagno.

Per uno come me, figlio di contadini poveri di Tlaxcala, la cui madre era balia dei bambini ricchi di una tenuta di allevamento di tori, il significato della prima riunione preparatoria dell'Altra Campagna è stato molto grande. Entrare nelle terre di quella che una volta fu proprietà di signori della forca e del coltello, che esercitavano lo spaventoso diritto della prima notte... tutto ciò aveva sapore di trionfo, rappresentava l'evidenza che era possibile generare nuove relazioni sociali ed umane, dava un senso specifico alla lotta della sinistra per una società più giusta, in qualche modo vendicava le offese di tutti i contadini messicani e di tutti i figli dei contadini messicani.

Allo stesso tempo scegliendo quella terra recuperata, si mandava un messaggio a tutta la sinistra messicana lì riunita (anche se purtroppo non tutta l'ha capito): che era possibile lavorare con un orizzonte differente a quello della rassegnazione, che era possibile un anticapitalismo che andasse oltre alle parole.

Tutto questo risulta intollerabile per il potere, per l'insieme della classe politica, per l'insieme dei signori del denaro. Loro vogliono un contadino che si sforzi di "integrarsi" sempre di più nel mercato capitalista, anche se volubile come è, poi li emargina sempre, che faccia le sue società di credito e si dimentichi dei suoi fratelli che non hanno terra, o che venda o affitti la sua terra, o meglio ancora che vada da illegale negli Stati Uniti e che mandi le rimesse in dollari che sono l'unica cosa che impedisce che la miseria diventi ancora più terribile nel campo.

Ma non vuole indigeni-contadini insubordinati che non solo difendano la loro terra, ma si pure si organizzino autonomamente e che, inoltre, siano le basi d'appoggio di un esercito ribelle.

La difesa delle terre recuperate è la difesa dell'essenza autonoma dello zapatismo. Non dovrebbe essere necessario ricordarlo, ma non c'è autonomia nella pratica se non c'è territorio.

Se i compagni dell'EZLN, prodotto della loro visione che fonde la politica con l'etica, hanno mantenuto l'impegno e la generosità di adempiere la loro parola con l'Altra campagna e con le comunità visitate durante l'Altra Campagna con le quali si sono messe d'accordo di tornare per portar avanti la seconda fase, allora noi abbiamo l'obbligo di non lasciar soli i nostri compagni basi d'appoggio zapatisti che stanno lottando contro questa nuova offensiva dei signori del denaro e del potere.

Il mantenimento dell'autonomia zapatista è il miglior veicolo per poter spiegare che c'è un'altra cosa e che quello che ci vendono i mezzi di comunicazione come orizzonte è solo una realtà virtuale. Che nel mezzo del "deserto del reale" c'è un orto dove affluiscono i due rivoli del torrente zapatista: l'ira e la ragione.

Farla finita con la conversione della terra in merce, con la spoliazione dei beni terreni, col guadagno mal ottenuto, vale a dire col capitalismo, continua ad essere il punto di partenza per prendere nelle nostre mani il controllo del nostro destino, per poter continuare ad essere Messico.

Se è vero che questa modernità avanza all'indietro e che stiamo ritornando alla fine del secolo XIX ed all'inizio del secolo XX, se il porfirismo è l'unica visione del futuro che ha la classe politica, se torniamo ad essere un paese con un'economia da enclave, allora non sarebbe male ritornare alla vecchia-nuova idea zapatista che la terra è di chi la lavora.

E molto probabilmente ci ritroveremo ad ascoltare, di nuovo, il vecchio, molto vecchio, pregiudizio dei predicatori domenicali di sinistra che corrugando la fronte diranno: "questa è una lotta piccolo borghese", né il contadino ed ancor meno l'indigeno può fare una rivoluzione, o trasformare in modo duraturo le relazioni di dominio: al massimo possono aspirare ad essere alleati subordinati della classe operaia. E, come sempre succede quando quei signori parlano, la realtà passerà di fianco a loro.

Per ciò che abbiamo visto durante il percorso dell'Altra, è molto probabile che siamo ai prodromi di tornare a vivere la lotta per la terra come elemento centrale della lotta contro il capitalismo. Non c'è dubbio che aveva ragione quel vecchio socialista tedesco quando disse, parafrasando Goethe: grigia è la teoria, verde l'albero della vita.

Durante il percorso dell'Altra Campagna, il verde albero della vita del campo messicano è apparso, ci ha interpellato, ma di questo parlerà ora il Subcomandante Insurgente Marcos.


(traduzione del Comitato Chiapas di Torino)

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