La Jornada – Mercoledì 21 novembre 2007
REPORTAGE ACTEAL - A dieci anni da Acteal
Sul luogo dei fatti tutte le impronte del lavoro di sterminio
I poliziotti "perquisirono" case che i suoi abitanti avevano chiuso con lucchetti - Non c'erano elementi per supporre che si trattò di un "conflitto intercomunitario" né di "vendetta" -  Fu un'azione preparata e realizzata da bande armate sostenute dal municipio -  Gli aggressori identificati; tra le vittime, 21 donne ed una decina di bambini
HERMANN BELLINGHAUSEN
/ Parte Diciassette

Acteal, 23 dicembre 1997. Dove c'è stata la morte si sente la sua presenza. Qui è appena successo il più grande massacro di donne e bambini nella storia "moderna" del Messico. In questa vallata, solcata da tuniche insanguinate e dalla distruzione di un'orda, solo l'altro ieri era stanziato un accampamento di 350 rifugiati. Le loro case erano state bruciate un mese prima ( La Jornada 24 dicembre).

Le vittime si trovavano ai bordi di Acteal, a pregare. Così, in ginocchio, dalle colline circostanti, li hanno colpiti gli spari delle armi di grosso calibro. Secondo i sopravvissuti, la sparatoria era iniziata alle 10:30 del mattino, e la Pubblica Sicurezza ammette di essere entrata ad Acteal alle 17. "Non c'era niente, e poi che qui è normale che ci siano degli spari", dice un comandante della polizia, senza contrassegni (risulterà essere il tenente colonnello Roberto García Rivas).

Con sei ore a sua disposizione, i sicari hanno potuto eseguire il loro lavoro con efficienza numerica: la cifra dei morti è doppia dei feriti. "Non avevamo nulla con cui difenderci", dice con rabbia Juan. Perfino ai bilingue oggi è difficile parlare castigliano. Raccontano l'orrore in tzotzil, questa mattina, a Polhó. Nella scuola di Polhó, circa 200 persone piangono. Noi giornalisti siamo rimasti lì per un'ora ed il pianto non si è mai interrotto. Tutti volevano parlare. Il traduttore ometteva delle cose; molte volte si è messo a piangere.

Una donna incinta era moribonda nella spianata dall'accampamento. Gli assassini sono andati da lei per finirla. Ed uno di loro, "con un coltello - racconta un testimone e fa un gesto ad indicare una pugnalata, che immediatamente reprime con tremore - ha tirato fuori il suo bambino e l'ha gettato là". (La notizia originale diceva che la vittima era Rosa Gómez Cruz; un errore di nome in mezzo alla tragica confusione. Sembra che il testimone si riferisse a Catarina Luna Pérez, incinta di cinque mesi, colpita con cinque fendenti. Su questo ritorneremo più avanti).

Juana Vázquez "prima l'hanno ammazzata e poi derubata", dice un giovane che mostra una borsa di rete. "La portavano i paramilitari quando è sbucato questo ragazzino. Gli hanno chiesto dove vai, e lui ha detto al bagno, e gli hanno detto prendi questa borsa, muoviti e quando torni ci aiuti a caricare le pallottole". Il ragazzino al quale si riferisce, Miguel, resta in silenzio, sporco, con gli occhi spalancati. Dalla borsa di rete escono due gonne da donna, un delicato huipil ed una cintura ricamata di rosso. Il tesoro della ricamatrice lo tenevano come bottino i suoi assassini.

María, piccola madre, porta il suo piccolo sulla schiena, appoggia la testa al petto del giornalista. Trema. Sua sorella, Elena, parla: "Sono morti suo padre, suo fratello, suo cognato". Il bambino di María, avvolto nello scialle, piange ormai stanco di piangere.

Una bambina bellissima di circa 12 anni, Guadalupe Vázquez Luna, e suo fratello, sono gli unici sopravvissuti di un'altra famiglia. Suo padre, Alonso Vázquez Gómez, era capo di zona dei catechisti. Guadalupe l'ha visto morire, così come ha visto morire la sua mamma, suo zio Victorio, che era promotore di salute, ed un fratello.

Operazione pulizia

Questa mattina, Acteal è deserto. Nel campo di pallacanestro un centinaio di poliziotti e militari della Forza Speciale vigilano a qualche centinaio di metri dal luogo del massacro. Il nostro arrivo interrompe la loro "perquisizione" delle case abbandonate i cui abitanti le avevano chiuse con i lucchetti. Tutte le case sono saccheggiate e non c'è un solo lucchetto al suo posto.

All'alba, Jorge Enrique Hernández Aguilar, ex procuratore chiapaneco e titolare del Consiglio Statale di Sicurezza, ed il sottosegretario di Governo, Uriel Jarquín, avevano sovrinteso, prima che arrivassero i giornalisti, al recupero dei cadaveri la cui esistenza ieri era stata negata dal segretario di Governo, Homero Tovilla Cristiani. Gli agenti incaricati dell'operazione hanno dovuto lavorare duramente, così come gli agenti del Pubblico Ministero. Hanno ripulito casse ed alcuni abiti insanguinati, ma non tutti.

Il sangue sporca. Si vedono ancora grosse chiazze, brandelli di vestiti insanguinati e le impronte della fuga nel fango e tra i cespugli. Anche le impronte della persecuzione. Un capo di polizia, che ha rifiutato di identificarsi ma che ieri si è presentato agli indigeni come comandante, assicura di avere visto Hernández Aguilar. "Alle quattro del mattino si vede con difficoltà", spiega l'ufficiale, che al segnale radio Trueno risponde con Relámpago. I suoi ragazzi hanno collaborato alla raccolta di cadaveri. Conferma la cifra di 45 e ribadisce che sono qui per aiutare la popolazione; si lamenta della mancanza di fiducia.

Prima delle 7 del mattino la pulizia è completata ed i funzionari hanno portato i cadaveri al Servizio Medico forense di Tuxtla Gutiérrez. Ciò nonostante, solo nel pomeriggio di oggi il governo locale è stato in grado di definire una posizione ufficiale.

A Polhó, dove ci sono i sopravvissuti, una donna stringe tra le mani lo scialle bianco insanguinato di sua figlia Susana, che è morta. Un uomo racconta tra i singhiozzi: "Nella sparatoria sono morti tutti i suoi figli e suo nipote. Ha perso sei persone di famiglia". A parte è morta sua nuora.

La spianata del crimine

Ieri, alle 11 del mattino, l'accampamento di Acteal era in piena confusione. Restano, malconci, le tettoie di foglie che erano state il loro rifugio. "Eravamo qui a pregare", dice Pablo. Un grande cerchio. I primi morti sono caduti qui. Gli altri sono scappati verso la gola e praticamente sono finiti nel fiume. Le grandi felci strappate, la vegetazione intorno, gli stracci, le impronte, il sangue, le buche e le zolle sollevate mostrano la direzione della folla in fuga.

Pablo racconta come i bambini cadevano a ruzzoloni con le loro mamme. I bambini piccoli cadevano e correvano. Lui si preoccupava di suo figlio. Altri si caricavano i feriti. I paramilitari non smettevano di sparare ma non si avventuravano fino al burrone. Gli è bastato andare nella grotta in cui alcuni si erano rifugiati e lasciare l'avvallamento del fiume disseminato di cadaveri.

"Gli hanno sparato dall'alto", indica Pablo scendendo, e fa un salto. Il potere di fuoco che li ha colpiti, a giudicare dalle ferite dei ricoverati a San Cristóbal, non è mai diminuito. Pallottole ad espansione, secondo Pablo, e carabine. Lui li ha visti. Ha riconosciuto molti degli aggressori. Non tutti avevano il volto coperto. Molti ragazzi portavano un paliacate legato dietro la nuca e si sentivano grandi guerrieri. Ventuno donne, una decina di bambini: un buon record.

Le vittime li chiamano "i priisti", ma molte comunità priiste non sono colpevoli dell'attacco. Si tratta di bande armate che hanno ricevuto addestramento militare e l'appoggio del municipio ufficiale. Giovani addestrati, trasformati, che hanno attaccato contando sul Natale. Non esistono elementi per supporre un atto "di vendetta" o "conflitto intercomunitario", come dice oggi la radio statale. I notiziari parlano di morti a colpi di machete e sassate. Cose da indios selvaggi.

Falso. Il lavoro di sterminio è stato efficiente, ed a suo modo pulito. Si può non drammatizzare questa forma di morte fredda, calcolata, preparata ed annunciata? Niente a che vedere con beghe famigliari o divergenze politiche. Non è una guerra civile. Chenalhó è uno scenario, un laboratorio, una messa in pratica. Da manuale.

Uno dei feriti a San Cristóbal è stato identificato come paramilitare. È controllato dalla Pubblica Sicurezza. Di molti altri paramilitari i sopravvissuti conoscono i nomi. "Ragazzi diventati cattivi", afferma Juan, abbattuto come tutti quelli di Acteal, Chimix e Polhó. Ma inoltre, molto indignato, dice i nomi di un certo Javier, Felipe, José e Noé che conosce. Sono di Acteal, La Esperanza, Puebla, Los Chorros, Bajo Beltic, Yibeljoj, Naranjatic, e li ha visti venire ad uccidere. Li ha visti uccidere dappertutto.

Dopo avere ricostruito la direzione della fuga, Pablo e Javier ci portano a vedere le case di un altro quartiere di Acteal. Javier arriva a casa sua, vede un filo di ferro messo male dove lui ieri aveva messo un lucchetto. È delle basi zapatiste. Il "mio registratore!", esclama scoprendo la sua assenza nella casa saccheggiata. Ogni casa che visitiamo è distrutta. "Questi non sono stati i paramilitari. Loro avrebbero bruciato tutto. Sono stati i poliziotti". Poco dopo trova nella camera da letto un cappello della polizia. Lo raccoglie, lo porta al naso con sorprendente istinto dice: "puzza di caxlán" [meticcio – n.d.t.].

Cominciano ad arrivare uomini di Acteal per raccogliere il caffè che avevano lasciato ad asciugare nei sacchi. Pullulano cani senza padrone che ci si attaccano per avere compagnia.

All'imbrunire, l'Esercito sposta centinaia di effettivi a Chenalhó. A Polhó informano che ci sono spari a Puebla, Los Chorros e Tzajalcum, da dove provengono i paramilitari. E che minacciano di attaccare altri accampamenti di rifugiati. Cade la notte. Acteal oggi è la bocca dell'abisso.

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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