La Jornada – Giovedì 20 dicembre 2007
Riconosciamo per strada gli assassini e sappiamo che hanno ancora le armi
Vittime e carnefici del massacro di Acteal costretti a convivere quotidianamente
C’è una pace tesa nella comunità: i paramilitari consegnati 10 anni fa sono ancora nel villaggio - Si fanno accordi per spartire gli spazi
BLANCHE PETRICH

San Cristóbal de las Casas, Chiapas, 19 dicembre - Per le strade che salgono e scendono dalle montagne di San Pedro Chenalhó, popolate da un variopinto mosaico di comunità, una persona qualsiasi si può incrociare con un'altra che attraversa la strada, con qualcuno che partecipa alla festa per un battesimo, con qualcuno che aspetta il bus. Ma, riconoscendola, potrà essere colta da spavento, paura, voglia di nascondersi.

Questo succede quando un sopravvissuto del massacro di Acteal si imbatte in uno di quei paramilitari che 10 anni fa furono organizzati dai priisti, armati ed addestrati dai militari e che, alla fine del 1997 attaccarono sistematicamente le comunità che appartenevano o simpatizzavano con gli zapatisti.

E non è infrequente. Qui, restano liberi, impuniti, i membri di quei gruppi violenti che scesero dalla collina per arrivare alla cappella di Acteal ed assassinare gli sfollati che stavano pregando. 45 persone: 9 bambine, 6 bambini, 21 donne, 5 di loro incinta, 9 uomini, la maggioranza mol, anziani. L'attacco lasciò 50 bambini orfani. E quattro feriti rimasero handicappati per sempre.

Quella struttura d'assalto organizzata secondo il manuale di contrainsurgencia dell'Esercito, con giovani reclutati nelle comunità di Los Chorros, Canolal, La Esperanza, Yaxgemel, Ybeljoj, Pechikil, Quextic, Colonia Puebla e Tzajlulcum, è ancora presente. Le sue armi, introdotte sotto lo sguardo vigile dei posti di blocco dell'Esercito, sono ancora nelle mani dei suoi capi.

"Conviviamo con gli assassini", dice Miguel Hernández Vázquez, segretario del tavolo direttivo della società civile Las Abejas, "e sappiamo che hanno ancora le armi. Non mentiamo". Altri sette membri della direzione annuiscono. "Quello che diciamo lo vediamo - conferma Pedro López - e quello che vediamo lo diciamo".

Fuori dall'ufficio di Las Abejas, nel centro di Acteal, ogni ora passa una delegazione che viene con qualche missione, un gruppo di muratori si affanna per finire il pavimento della nuova chiesetta. Manca solo la vernice perché tutto sia pronto per giovedì, quando si inaugurerà l'Incontro contro l'Impunità, in occasione del 10° anniversario del massacro.

Nel frattempo, i leader vanno di riunione in riunione. Ultimano i dettagli. E sperano, nervosi, che questa volta non si ripeta quello che accadde l'anno scorso nelle stesse date.

Accadde che alla vigilia del 22 dicembre, l'allora presidente di Las Abejas, Agustín Vázquez, ricevette una telefonata dal governo di Juan Sabines. Annunciava la sua presenza all'evento per "portare un'offerta". Il dirigente gli spiegò che non era invitato. Ignorandolo, poco dopo uno dei suoi assistenti ritelefonò per chiedere che gli indicassero dove poteva atterrare l'elicottero del governatore.

Allora un gruppo di giovani, i più decisi a resistere ai numerosi tentativi delle autorità di capitalizzare politicamente la tragica storia di Acteal, uscirono a piedi dalla comunità nonostante l'ora. All'alba arrivarono a San Cristóbal de Las Casas e qui, direttamente dalle stazioni radio fecero sapere, in modo deciso, che Sabines non era il benvenuto. Ovviamente, da Tuxtla Gutiérrez la visita fu annullata.

Nonostante il tempo trascorso, la zona "continua ad essere un campo minato", secondo la definizione di Pedro Arriaga, il parroco che arrivò da San Pedro Chenalhó a riempire il vuoto lasciato dal suo predecessore, Miguel Chanteau, che era stato espulso dal paese dal governo federale nel febbraio del 1998.

Recentemente riassegnato alla vicina parrocchia di San Juan Chamula, Arriaga conferma che, in effetti, i sopravvissuti di Acteal e tutte le altre vittime di quell'aggressione paramilitare che provocò esodi di massa "sono obbligate a convivere, giorno per giorno, con i loro carnefici, a causa dell'impunità".

Cita la prova che, nonostante il basso profilo, i gruppi paramilitari continuano ad essere presenti nella zona: una famiglia di Tzanenbolom, solo sei mesi fa è stata costretta ad andarsene. Questa continua ad essere una delle comunità più segnate dal paramilitarismo.

Un altro indizio della presenza incontrollata di armi pesante nella regione è l'operativo realizzato a Los Chorros nel maggio di questo anno. Roberto Méndez, uno dei 18 autori materiali del massacro di Acteal che furono fermati nel 1998, rinchiuso nella prigione di El Amate, nove anni e mezzo dopo il crimine ha confessato dove aveva nascosto le armi. La polizia statale è accorsa alle grotte indicate e, in effetti, ha trovato nascoste due carabine AK, ossidate, ma ancora cariche.

"Ma - lamenta Miguel López - nonostante questo il governo non è andato avanti con l'indagine". Aggiunge Pedro López Gómez, supplente tradizionale: "perché non ha la volontà". Ed aggiunge una terza voce, quella di Mariano Pérez, secondo sindaco di Ybeljoj: "Sì, esiste l'impunità".

In un'altra intervista, Pedro Arriaga ricorda quando arrivò al municipio a lavorare come parroco, tre settimane dopo il massacro. "Era tale il controllo di quei gruppi armati che io non potevo nemmeno avvicinarmi a certe comunità".

Oggigiorno la tensione è scesa, non scomparsa. "È - definisce - una pace nervosa". Sulla presenza dei gruppi di scontro, riconosce che "non si percepisce che esista un'organizzazione interna. Neanche che emergano, tra i poveri, per avere più denaro. Ma quei giovani reclutati 10 anni fa, ragazzi mediocri ai quali mostravano film pornografici e di karatè, consegnavano le armi ed insegnavano ad usarle, sono ancora qui, sono rimasti col loro potere e, la cosa più grave, hanno le armi. E questo lo sanno tutti".

Nonostante il pericolo latente di una nuova aggressione, convivono in una stessa zona una ventina di villaggi dove zapatisti, comunità di Las Abejas, priisti ed una base di operazioni della 13^ Brigata di fanteria dell'Esercito condividono lo stesso spazio, le stesse strade e le stesse montagne. "Abbiamo cercato un'alternativa per poter convivere", dice il segretario di Las Abejas. Così, Acteal-abejas utilizza il campo di basket di Acteal-autonomo con cui confina. E, reciprocamente, Las Abejas permettono l'uso del telefono agli zapatisti. Separati in casa, come si dice.

Ma ci sono esperienze di convivenza più complesse e di maggiore apertura, come quella di quelli ritornati nelle comunità sotto il controllo paramilitare. Nel 2000, primo anno di governo di Pablo Salazar, sono ritornati i primi 500 da Xoyep a Ybeljoj. Quindi altri mille, malgrado la diocesi avvertisse che non c'erano ancora le condizioni di sicurezza sufficienti. Ma la fame e la necessità erano forti. E benché in generale l'accordo firmato sia stato rispettato, "questo continua ad essere un terreno minato", come denuncia Arriaga.

"Che soluzione può esserci se non c'è giustizia?", si domanda Miguel López. "Gli assassini sono ancora qui. Ci sono 27 mandati di cattura non eseguiti. E mancano gli autori intellettuali". Elenca: Ernesto Zedillo, Emilio Chuayffet, Julio César Ruiz Ferro, Uriel Jarquín, ex segretario di Governo, Enrique Cervantes, ex segretario della Difesa, Mario Renán Castillo, ex comandante della Sesta Regione Militare. "A loro, invece di applicare la giustizia, danno cariche".

Finisce l'intervista con i responsabili di Las Abejas. Ognuno deve partire per qualche incarico urgente. Per concludere, Miguel ha qualcos'altro da sottolineare: "Qui non ci fu uno scontro, non ci fu conflitto comunitario. Questo fu un attacco preparato dal governo. Poiché siete venuti fino a qui per sentirlo in prima persona, fate circolare l'informazione, perché molti non sono per niente informati".

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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