La Jornada – Martedì 20 novembre 2007
REPORTAGE /A dieci anni da Acteal
Funzionari statali ordinarono di cancellare le facce dei morti
 Tentativi di occultare il massacro
Rimuovere i corpi "prima che arrivino i giornalisti", l'ordine  - Paura in un'altra comunità per le minacce di un nuovo attacco -  Il vescovo Samuel Ruiz García definisce il massacro un "crimine contro l'umanità" e denuncia il clima di violenza "crescente ed impune denunciato ripetutamente alle autorità che l'avrebbero potuto fermare"
Hermann Bellinghausen / Parte Sedici

Il 23 novembre 1997, La Jornada coprì da Acteal, Tuxtla Guitérrez, Polhó e San Cristóbal de Las Casas i diversi pezzi del tragico avvenimento. Con un veloce operativo montato dalla Pubblica Sicurezza (SP) dello stato, con l'appoggio della Croce Rossa Messicana, da un avallamento e da una grotta si riuscirono a recuperare i 45 corpi massacrati con armi da fuoco e mutilati a colpi di machete. Tutti gli organismi coinvolti nel recupero e nell'assistenza medica (Croce Rossa, IMSS ed ERUM) e lo stesso governo del Chiapas ammisero l'omicidio di 45 persone, tutte massacrate il lunedì precedente (24 dicembre).

Sopravvissuti, feriti e testimoni intervistati da La Jornada quel martedì erano concordi nell'accusare militanti del PRI delle comunità di Los Chorros, Puebla, Chimix, Quextic, Pechiquil e Canolal di essere gli autori del massacro contro i rifugiati di Las Abejas.

Nonostante il negare insistentemente che c'erano dei morti ad Acteal, il governo di Julio César Ruiz Ferro quella mattina ordinò un operativo coordinato dal sottosegretario Uriel Jarquín Gálvez e dall'ex procuratore Jorge Enrique Hernández Aguilar, con l'obiettivo principale, secondo il consiglio autonomo, di cancellare le facce dei morti per potere manipolare a suo capriccio il loro numero.

La Croce Rossa fece rettificare

La comunicazione pubblica della delegazione della Croce Rossa Messicana a San Cristóbal provocò la reazione del governo statale. L'ordine di recuperare i cadaveri fu dato "alle quattro del mattino" di martedì. "Prima che arrivino i giornalisti", era l'ordine. Fino a quel momento si ammetteva solo l'esistenza di cinque feriti lievi.

La Croce Rossa ricevette alle 20:07 di lunedì una chiamata del Pubblico Ministero, il quale avvisava che "c'erano degli scontri" nel municipio di Chenalhó. Tre ore e mezza dopo si mobilitavano le unità 162 e 158 della delegazione di San Cristóbal ed un'altra di Tuxtla Gutiérrez. Due delle unità si recarono nella zona e trovarono corpi senza vita in un burrone. Altre sei unità della Croce Rossa ed un altro veicolo si unirono al lavoro di recupero.

Alle quattro del mattino, il governo autorizzò la Pubblica Sicurezza e la Croce Rossa al recupero dei corpi, dopo che il Pubblico Ministero aveva svolto le relative pratiche. La Croce Rossa informò di aver recuperato 45 corpi: un neonato, 14 bambini, 21 donne e 9 uomini. I resti furono consegnati alla polizia statale che li trasferì alla città di Tuxtla Gutiérrez. Non furono autorizzati altri testimoni.

Il titolare della Procura Generale della Repubblica (PGR), Jorge Madrazo Cuéllar, comunica per televisione che le prime indagini rivelano che gli aggressori erano circa 25, erano in abiti neri, col volto coperto, e che per spostarsi avevano utilizzato tre camion di tre tonnellate.

Alle 14 circa di lunedì 22, Homero Tovilla Cristiani ed Uriel Jarquín, segretario e sottosegretario di Governo, rispettivamente, furono informati dalla diocesi di San Cristóbal de Las Casas dei fatti violenti che stavano accadendo in quei momenti nel campo profughi di Acteal, secondo rapporti di Las Abejas. I funzionari si impegnarono ad investigare sulla situazione e dare una risposta nelle prossime ore. Alle 6 del pomeriggio Tovilla Cristiani si mise in contatto con la diocesi per informare che la situazione nella comunità di Acteal era sotto controllo e si sentivano solo "alcuni spari".

La Commissione Nazionale dei Diritti Umani aveva emesso due raccomandazioni in meno di 30 giorni al governo di Ruiz Ferro per appoggiare gli indigeni sfollati dalla violenza ed indagare sui fatti di sangue accaduti dalla seconda metà di novembre a Chenalhó. Il governo dello stato ha ignorato queste raccomandazioni ed altre emesse da organismi non governativi, e mantiene la sua politica di non ammettere che esistono circa 6.000 rifugiati, la maggioranza di Las Abejas e simpatizzanti zapatisti, in cinque comunità.

Timori di un nuovo attacco a X'Cumumal

Malgrado l'Esercito avesse raddoppiato il numero di effettivi nel capoluogo municipale di Pantelhó, a pochi chilometri da Acteal, e triplicato gli agenti di Pubblica Sicurezza nella zona, il gruppo armato di priisti minacciava quel giorno di attaccare la comunità di X'Cumumal.

Il consiglio autonomo di Polhó confermò che circa 50 uomini armati si stavano dirigendo a X'Cumumal, dove si trovavano circa 3.000 profughi dell'EZLN e Las Abejas.

Il presidente del consiglio autonomo, Domingo Pérez Paciencia, puntualizzò che il massacro di lunedì ad Acteal è la "guerra del governo" contro le comunità indigene. "Questo è quello che ci dà il governo invece di riconoscere i nostri diritti.

Ci appelliamo a tutta la società civile, nazionale ed internazionale, affinché si organizzi ed obblighi a che si disarmino immediatamente i paramilitari, ma che questo avvenga con la supervisione di organismi nazionali ed internazionali. Ed anche perchè se ne vadano i poliziotti della Pubblica Sicurezza, perché sono complici dei paramilitari".

Il vescovo di San Cristóbal de Las Casas e presidente della Commissione Nazionale di Intermediazione, Samuel Ruiz García, definì un "crimine contro l'umanità" il massacro perpetrato ad Acteal e sottolineò il clima di violenza "crescente ed impune denunciato ripetutamente alle autorità che avrebbero potuto fermare".

In scena i funzionari

Si sentiva il clima rovente che bruciava gli Altos del Chiapas, nel dare i primi risultati delle indagini aperte dalla Procura Generale della Repubblica.

Le autopsie eseguite sui 45 indigeni massacrati, "nella stragrande maggioranza dei casi mostrano che le pallottole di grosso calibro hanno una traiettoria da dietro in avanti, e questo vuole dire che gli hanno sparato alle spalle", ratificò il viceprocuratore per le Indagini Preliminari, Everardo Moreno.

Fu chiamato a rispondere di negligenza il segretario generale di Governo, Homero Tovilla Cristiani, non avendo agito immediatamente una volta al corrente dell'aggressione, secondo la denuncia del vicario della diocesi di San Cristóbal, Gonzalo Ituarte. Si concluse che non avesse alcuna responsabilità. Il viceprocuratore Moreno affermò che nelle loro dichiarazioni gli indigeni arrestati avevano detto che "alcuni di loro appartengono al Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) ed al Partito Cardenista (PC)".

"Sono paramilitari?", domandarono i giornalisti a Madrazo Cuéllar. Rispose: "quello che posso dire è che hanno a che vedere con l'associazione a delinquere e col crimine organizzato; non posso usare altri aggettivi che non abbiano a che vedere con i termini strettamente giuridici e costituzionali. Si stanno portando avanti diverse linee di indagine ed azioni concrete".

Poggia di voci

Questi gli articolisti di La Jornada che si buttano a capofitto a scrivere sull'argomento nei giorni successivi: Manuel Vázquez Montalbán, Horacio Labastida, Paulina Fernández, Adolfo Gilly, Arnoldo Kraus, Carlos Fuentes, Luis Javier Garrido, Fernando Benítez, Andrés Aubry, Angélica Inda, Luis González Souza, Adelfo Regino, José del Val, Ana Esther Ceceña, Néstor de Buen, Cristina Barros, Antonio Gershenson, Gilberto López y Rivas, José Agustín Ortiz Pinchetti, Luis Hernández Navarro, Julio Moguel, Alberto Aziz Nacif, José Blanco, Marco Rascón, Arnaldo Córdova, Antonio García de León, Carlos Monsiváis, Luis Linares Zapata, Jaime Avilés, Bernardo Bátiz, Jaime Martínez Veloz. Perfino Carlos Tello, che ne approfitta per chiedere che si compiano gli Accordi di San Andrés.

Héctor Aguilar Camín, controcorrente rispetto al resto, dalla prima pagina di La Jornada critica la "stampa pro zapatista" per mettere le cose "in bianco e nero", perché "nessuno sano di mente" può accusare il governo di Ernesto Zedillo, se non di "omissione" per non affrontare il problema (cioè, non disfarsi in tempo degli zapatisti). E spiega: "Tuttavia, non è la guerra degli apparati ciò che rende incontrollabile e moralmente oppressiva la situazione del Chiapas, bensì l'odio interiorizzato e radicalizzato tra la gente comune, l'odio attizzato dalla vendetta familiare e dall'intolleranza religiosa, dall'avidità comunitaria e dalla contesa politica a mano armata. Non ammazzano né muoiono guardias blancas e pistoleros mercenari. Ammazzano e muoiono gente del popolo, vicini e parenti condannati a morte" (29 dicembre).

Per Eduardo Huchim (24 dicembre), "mai in questo secolo messicano la morte di massa era stata tanto annunciata. Stampa, radio e televisione avevano descritto i segnali evidenti di quello che oggi è una realtà dolorosa ed indignante. In altri tempi, il solo annuncio di quello che si preparava avrebbe avuto effetti di dissuasione efficaci. Ora sembra sia stato un incentivo".

* Tutte le date tra parentesi corrispondono a notizie pubblicate da La Jornada

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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