La Jornada - 17 febbraio 2007
Matteo Deán *
Italia: il popolo si oppone alla strategia militare degli Stati Uniti

Dal principio della cosiddetta "guerra fredda", e magari prima, l'Italia è stata per la geopolitica militare della NATO, e degli Stati Uniti in particolare, un punto cruciale. Dell'Italia si diceva che era la "portaerei" naturale nel Mediterraneo ed è stata, insieme alla Germania, la linea di demarcazione che divideva i due mondi contrapposti.

Finita quella fase dopo la caduta del muro di Berlino, l'Italia non ha perso la sua importanza strategica. Prima con le guerre nell'ex-Yugoslavia ed oggi nella "war on terrore" promossa dalle due amministrazioni di George W. Bush, l'Italia si offre quale ponte naturale verso il quadrante orientale. È in questo contesto che oggi le forze militari statunitensi stanno per essere riorganizzate sulla base delle "nuove guerre, le guerre del futuro", come le definisce il Pentagono. Sebbene sia certo che gli Stati Uniti oggi stanno ritirando decine di migliaia di effettivi dall'Europa, è anche noto che stanno modificando la geometria delle loro posizioni nel vecchio continente, spostando verso il sud truppe, tecnologia, comandi strategici ed armi.

Sparse in Italia, soprattutto nel nord, si trovano numerose basi militari degli Stati Uniti. La più grande è la base di Aviano, situata a neanche 100 chilometri dalla frontiera orientale, da dove partivano i bombardieri verso l'ex-Yugoslavia ed oggi partono i grandi bombardieri diretti verso l'Afghanistan e l'Iraq. Ma il "cervello" strategico si trova in un'altra base, Camp Ederle, situata a Vicenza, tra Venezia e Milano, città di 100mila abitanti. Un paio di anni fa, gli Stati Uniti avviarono un negoziato segreto con l'allora governo italiano, guidato dal conservatore Silvio Berlusconi, lo stesso che ha dato, tra i primi, la sua entusiasta adesione all'operazione militare in Iraq. Restava solo da consultare il governo locale, il municipio di Vicenza, pure nelle mani del partito del magnate, che prendeva accordi con i comandi militari statunitensi affinché nell'aeroporto civile di Vicenza, Dal Molin, abbandonato da anni, si costruisse un'altra base militare.

Ma c'è stato un ma. Meno di un anno fa, la cittadinanza è venuta a sapere del piano di costruzione di questo nuovo aeroporto militare che conterebbe, nel progetto, con la presenza della 173^ Brigata Aerotrasportata (più di 50 carri armati da guerra M1, 85 carri armati corazzati, 14 mortai pesanti, 40 Humvees, due gruppi di aeroplani Predator, i lanciamissili MRLS ed altre armi ancora), con 1.800 militari che si sommerebbero ai 6.000 già presenti. Si tratta di un arsenale sufficiente per distruggere una città.

Nel marzo del 2005, Berlusconi ha dato il via al progetto. Il sindaco di Vicenza pure, senza nemmeno avvisare il consiglio municipale. L'esercito degli Stati Uniti ha chiesto il finanziamento. Ma, come può succedere, avevano "fatto i conti senza l'oste". La cittadinanza scoprì i piani nel maggio del 2006. E si è organizzata per frenare quello che considerano "un abuso perpetrato al di sopra della volontà popolare". Ed inoltre, si lamentano i cittadini di Vicenza, "il progetto avrebbe un impatto ambientale dannoso, aumenterebbe in maniera sproporzionata la presenza militare in città e si perderebbe la sovranità territoriale". La protesta cresce, la città intera si mobilita.

Mentre questo succedeva, è cambiato il governo ed ha preso il potere Romano Prodi, con una coalizione di centro-sinistra. La speranza si diffuse. Ma passano i mesi ed il nuovo governo non sembrava avere una posizione chiara circa la costruzione della nuova base militare.

Il 3 dicembre c'è stata una manifestazione a Vicenza di 30mila persone contro la costruzione della nuova base militare, che ha segnato un record di partecipazione in questa piccola città. Una "piccola" megamarcia nella provinciale città di Vicenza. Ma il 19 gennaio il governo ha dichiarato la sua "non contrarietà alla costruzione della base a Vicenza".

Immediatamente migliaia di persone hanno occupato le strade di Vicenza. Un grande stroscione apparve alla stazione ferroviaria, nel blocco lì organizzato: "Governo Prodi, governo di guerra". Nel governo si aprì una crepa ed oggi decine di deputati che l'appoggiano sono "autosospesi" in solidarietà con i manifestanti che annunciano la marcia nazionale per oggi: 17 febbraio. Ma l'allontanamento tra il governo ed il popolo di Vicenza è palese e la cittadinanza invita i partiti di sinistra a non presentarsi con slogan e bandiere. Il movimento diventa autonomo e mette sul tavolo non solo più la questione della base militare all'aeroporto Dal Molin ma discute la politica di guerra di Prodi: la presenza in Afghanistan, l'appoggio incondizionato ai piani di Bush, il ruolo che l'Italia vuole assegnarsi nella nuova gestione multilaterale della guerra globale e permanente.

Il movimento rivendica, inoltre, presenza e diritti di autodeterminazione partendo dalla forte mobilitazione sul territorio, organizzandosi in comitati ed associazioni che contano sulla presenza molto trasversale di cittadini di ogni strato sociale: casalinghe, lavoratori, studenti, famiglie intere, collettivi ed organizzazioni sociali che si sono uniti in questi mesi al presidio permanente di fronte all'aeroporto. Un straordinario esercizio di democrazia diretta, nel quale la popolazione sta imparando a credere nel proprio potere, quello che genera fiducia, che scopre il piacere dell'azione collettiva sfidando con la voce e la pratica dal basso i grandi poteri che vogliono, ancora una volta, proiettare più guerre nel mondo.

* giornalista italiano

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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