La Jornada – Lunedì 8 gennaio 2007
Berta Elena Muñoz è stata la voce del movimento da Radio Università di Oaxaca
Minacce di rapimento e morte hanno costretto la dottoressa a nascondersi
Gli oaxaqueñi hanno un sogno: "avere un governo giusto", dice da qualche luogo del paese

EMIR OLIVARES ALONSO

Da quando ha smesso di parlare da Radio Università più di un mese fa, la dottoressa Berta Elena Muñoz ha dovuto nascondersi a causa delle minacce ricevute di rapimento e morte per aver partecipato attivamente nell'Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO), che definisce più come un movimento di popolo che di organizzazioni politiche con un solo sogno: "avere un governo giusto, non repressivo né corrotto".

Da qualche punto del paese, l'ex annunciatrice di Radio Università ha concesso un'intervista alla Commissione Civile Internazionale di Osservazione dei Diritti Umani (CCIODH), nella quale dichiara che a causa di quelle minacce si è vista costretta a separarsi dai suoi figli che sono stati anche loro terrorizzati. "È più di un mese che non li vedo, né si vedono tra loro vedono perché sono nascosti in luoghi divers".

Per questo, la dottoressa, che ha fatto anche parte della squadra di soccorso della APPO, chiede che i governi federale e statale agiscano per offrirle garanzie per la sua sicurezza personale e familiare, "perché non ho commesso nessun crimine: non ho ucciso nessuno, non ho rubato, non ho sequestrato. E com'è possibile che per la semplice manifestazione delle mie idee io ed i miei figli riceviamo minacce di morte! Hanno così paura delle parole?".

"Dal giorno in cui Radio Università è stata consegnata al rettore dell'Università Autonoma Benito Juárez, praticamente ho dovuto nascondermi perché le minacce contro la mia persona erano molto pesanti. Non mi avrebbero fermato, mi avrebbero fatto sparire", sottolinea la Muñoz.

La dottoressa spiega che davanti a queste intimidazioni propose al consiglio della APPO la possibilità di consegnarsi pubblicamente alle autorità affinché fossero presenti i mezzi di comunicazione; tuttavia, i consiglieri le fecero osservare che "così come stavano le cose, nessuno poteva garantire, malgrado mi consegnassi pubblicamente, che non mi avrebbero fatto sparire".

Per questa ragione, spiega che è nascosta in qualche punto del Messico dal passato 28 novembre.

Dice di ignorare se esista qualche mandato di cattura contro di lei, anche se non lo esclude, perché "quando vedi i crimini imputati ai compagni arrestati, pensi che possono anche accusarti di bruciare i piedi a Cuauhtémoc, il re azteco".

Muñoz ritiene che le morti avvenute nei sette mesi di conflitto non saranno indagate, perché "il responsabile diretto è il governatore"; aggiunge che nonostante il "coraggio e la rabbia" che hanno provocato gli omicidi, il movimento sociale "non ha mai risposto con la violenza".

Con franchezza ammette che il popolo oaxaqueño non si aspettava una risposta "tanto violenta" da parte dei governi federale e statale davanti alla mobilitazione pacifica, con marce, presidi, blocchi, azioni di disturbo, anche per i membri della APPO, ammette, "ma necessarie perché non ci hanno lasciato altra scelta".

Nonostante non avesse un'esperienza radiofonica, la Muñoz si era guadagnata la simpatia e l'ammirazione di molti settori della società oaxaqueña e nazionale per il suo narrativo e gli appelli "alla difesa" del movimento.

"Non si tratta di odio, non è questo a spingerci. Ci spinge semplicemente un desiderio di giustizia, perché non possiamo continuare a vivere, in pieno secolo XXI, come se fossimo ai tempi del porfiriato, dove qualunque cacique del villaggio, se qualcuno è contro di lui, lo fa ammazzare e così si sistemano tranquillamente le cose. E questa è la situazione di Oaxaca", dichiara spiegando le ragioni che hanno portato molti cittadini oaxaqueños ad unirsi alla lotta appista.

Ritiene che durante i sette mesi di conflitto sono stati violati i diritti umani della popolazione, soprattutto con l'apparizione dei "convogli della morte", formati da paramilitari a bordo di veicoli che sparavano contro i manifestanti.

Descrivendo la sua opinione davanti a questi attacchi, la dottoressa dichiara: "Non potevo crederlo perché era come se fossimo nel Cile di (Augusto) Pinochet o nell'Argentina di (Jorge Rafael) Videla, o nella Spagna di (Francisco) Franco. Erano più di 20 camioncini pieni di poliziotti armati fino ai denti che sparavano".

La dottoressa si pronuncia per una soluzione del conflitto attraverso il dialogo nell'entità, per questo esorta le autorità federali affinché si decidano in questo senso: "questa è la speranza".

Nota che la prima condizione per risolvere il conflitto è l'uscita di Ulises Ruiz da governatore dello stato, perché altrimenti non si risolverà "niente" a Oaxaca. "Quando lui poteva risolvere le cose non l'ha fatto, ma ha messo in atto la repressione. Inoltre non può esserci un dialogo con una persona non riconosciuta dal popolo".

A dispetto delle versioni ufficiali afferma che il movimento appista è ancora in piedi: "succeda quello che succeda, non fermeranno i cittadini e le cittadine di Oaxaca. Risulterebbe molto caro soffocare il movimento. Non è un movimento per la rivoluzione. È semplicemente per il rispetto delle leggi che già ci sono".

Afferma che la cittadinanza si unì alla mobilitazione dei maestri trasformandola in lotta sociale, dopo il tentativo di sgombero da parte del governo statale lo scorso 14 giugno, quando la polizia locale aggredì il presidio tenuto dai maestri nello zócalo della capitale oaxaqueña. A questo si somma l'ingiustizia: "A Oaxaca mancano scuole, acqua, strade, elettrificazione, le cose più elementari".

"Possono continuare a reprimerci e forse tra una settimana invece di 10 persone ad essere nascoste saremo 50, ed un'altra volta si riempiranno le prigioni e forse torneranno a spararci. Ma ripeto: la gente ha deciso di mettersi in marcia e non la fermeranno, il movimento continua e continuerà".

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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