Il Messico ai tempi di Calderón

Claudio Albertani

 Il governo messicano avanza a passo lento e sicuro verso un regime autoritario, punto d’approdo del modello neoliberista in vigore da oltre un quarto di secolo. Insediatosi esattamente sei mesi fa, al termine di un lungo e tormentato conflitto elettorale, il governo Calderón ha un programma chiaro e preciso: smantellare tutto ciò che resta del settore pubblico, liquidare lo stato laico e sottomettersi alle esigenze degli Stati Uniti.

Il presidente messicano fa sul serio. Grazie all’appoggio non solo del suo partito, il PAN, ma anche di una buona parte del vecchio PRI, il Senato ha recentemente approvato un pacchetto di riforme che, dietro l’allineamento alla dottrina antiterrorista di Bush, criminalizza le proteste sociali e prevede pene fino a 40 anni per coloro che “esercitano pressione sulle autorità”. Inoltre, sta per revocare la norma di neutralità che è uno dei pilastri storici della politica estera messicana.

Chi è Felipe Calderón Hinojosa? Il presidente che visita l’Italia in questi giorni, è un uomo giovane. Avvocato, con un master rilasciato dall’autorevole John F. Kennedy School of Government di Harvard, ha solo 44 anni, ma è figlio d’arte. Suo padre, Luís Calderón Vega, è stato tra i fondatori del PAN, la destra storica nella quale il giovane Felipe ha militato fin dall’adolescenza. Da lì, con pazienza e determinazione, ha scalato tutti i gradini del potere: deputato federale, segretario generale del PAN, vicepresidente dell’Internazionale Democristiana, ministro dell’energia nel governo Fox.

Come tanti altri politici conservatori, Calderón mescola il più stantio fondamentalismo religioso, con un culto assai mondano dell’efficienza imprenditoriale. Nelle settimane scorse, ha avviato una battaglia legale contro il provvedimento di depenalizzazione dell’aborto, recentemente approvato dal governo di Città del Messico. In tal modo, ha ottenuto gli applausi della conferenza episcopale e, soprattutto, del Vaticano che si appresta a riceverlo in maniera trionfale. Al tempo stesso, il presidente incarna gli interessi di un capitalismo niente affatto celeste: le banche, l’agribusiness, le multinazionali e, soprattutto, le catene televisive alle quali deve la presidenza.

Nel 2006, il candidato della sinistra, Andrés Manuel López Obrador (AMLO), si trovava in testa a tutte le inchieste, ma i media intrapresero un’aggressiva campagna di calunnie presentandolo come un “pericolo per il Messico” e accostandolo ai grandi satanassi latinoamericani: Fidel Castro, Hugo Chávez ed Evo Morales.

Alla fine, AMLO perse la presidenza per una manciata di voti (0,58%). Frode? Golpe cibernetico? Pochi lo dubitano, ma non si saprà mai con esattezza, perché, nonostante i numerosi brogli, l’Istituto Federale Elettorale rifiutò di procedere ad un nuovo conteggio dei voti.

Seguirono le più nutrite manifestazioni della storia messicana. Milioni di cittadini comuni -non necessariamente militanti politici- scesero in piazza dando vita ad un’esperienza inedita: l’occupazione del centro di Città del Messico. Durante 45 giorni l’immaginazione, l’arte e la poesia invasero il cuore di una metropoli frenetica rompendo le regole dell’economia e rimettendo in moto le vecchie reti informali di solidarietà.

Poi il movimento cominciò a dare segnali di stanchezza ed il primo dicembre, Calderón entrò in carica dopo un violento tafferuglio ed una frettolosa cerimonia.

Adesso non si registrano più i livelli di mobilitazione dell’anno scorso, però il Messico continua ad essere un paese diviso e lacerato dove 40 milioni di poveri sopravvivono a stento. Sconfitto ma non distrutto, López Obrador coordina un governo ombra che si propone di incanalare il malcontento dilagante.

Esiste, al tempo stesso, una sinistra sociale, organizzata e disorganizzata, non ideologica, sostanzialmente spontanea, che cerca disperatamente nuove alternative. Questa sinistra non coincide con il PRD (il partito di AMLO), ma neppure con gli zapatisti, sebbene continui a difenderli. È una sinistra ampia, convinta che la politica non appartiene ai politici, che l’avanguardia non serve e che non vi è futuro né utopia senza la partecipazione di tutti.

Da parte sua, Felipe Calderón è un presidente debole che governa con mano dura. Abbandonato il suo slogan di campagna -il pieno impiego-, si è gettato a capofitto in una caotica guerra alla criminalità che concede arrischiati poteri all’esercito.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: più di mille morti in soli sei mesi, una cifra che ricorda i bollettini dell’Iraq. L’ultimo rapporto di Amnesty International sullo stato dei diritti umani nel mondo denuncia l’uso eccessivo della violenza in Messico non solo contro la delinquenza ed il narcotraffico, ma anche contro i movimenti sociali. Il caso più grave è quello di Oaxaca, dove, dopo i fatti dell’anno scorso, vige uno stato d’eccezione permanente con il consentimento neppure velato delle autorità federali.

Secondo la Federazione Internazionale dei Giornalisti, il Messico è oggi il paese più pericoloso per esercitare la professione, soprattutto nei casi di denuncia dei crimini connessi al narcotraffico ed alla corruzione: 10 vittime solo nell’ultimo anno (delle quali due a Oaxaca). Dopo l’ennesimo attentato, la settimana scorsa, il quotidiano Cambio Sonora ha chiuso i battenti senza che nelle sfere del potere nessuno se ne curi.

Vi è dell’altro. L’economia ristagna, la disoccupazione aumenta, il prezzo della tortilla è alle stelle, le strade sono pattugliate dall’esercito, ma Calderón non ha dubbi: il futuro è radioso.

Città del Messico - 1° giugno 2007

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