2005, San Cristobal de Las Casas
Hermann Bellinghausen: Chiapas, scelta di vita
Intervista di Luciano Minerva

Il mondo è clinicamente interessante, ampio ed estraneo, vaso di Pandora e cassa di risate, lo considero materia obbligatoria nella scuola della vita”, scriveva alcuni anni fa. In che classe si considera arrivato nella scuola della vita?

E’ una scuola in cui non ci si diploma mai, che non si finisce, ma questo testo si riferisce concretamente alla moltitudine di zii della mia infanzia. Oggi non c’è alcuno zio. Oggi passo molto tempo con gli indigeni, vedo una gran quantità di famiglie, di persone, che hanno la particolarità di essere coinvolte in una lotta speciale, che è la lotta degli zapatisti. E non so se sono clinicamente interessanti, ma certamente sono interessanti. Conosco molta gente clinicamente interessante perché nella mia vita passa molto gente e allora credo davvero che la scuola della vita non finisce mai e neppure si va avanti, nel senso che si segue il corso del fiume e ci si sposta, ma ci saranno sempre materie in sospeso e ci sarà sempre da imparare, e spero anche altro che ci diverta.

Lei che ha a che fare con un mondo molto difficile da tradurre in immagini, in parole in cronaca, come si avvicina oggi a mostrare quello che gli altri non vorrebbero?

Oggi il senso comune va in un’altra direzione nell’osservare il mondo, perché ci si riferisce molto agli individui, a segreti intimi che all’improvviso diventano trasparenti, compresi quelli di chi non lo vuole, perché a volte si cerca di svelare una persona che non lo vuole, almeno a me succede così. Invece c’è gente che non cerco di vedere e improvvisamente la vedo. E provo come la sensazione di essere un intruso: sto vedendo cose che non dovrei, ma intanto le ho già viste. E’ inevitabile: vedi una famiglia, una coppia, un gruppo di persone, e vedi subito qualcosa che li rivela. Umanamente è molto rispettabile e a volte può essere commovente, ma è un’intrusione a cui non si ha diritto. Questo, in termini di individualità. Diciamo che ora il mio lavoro è osservare, tradurre per un pubblico un mondo estraneo; il pubblico, con gli anni, sta diventando meno estraneo a questa condizione indigena del Chiapas, del movimento zapatista, ma il mio lavoro è stato tradurlo, osservarlo continuamente, dargli un contesto. Allora questo non è un voyeurismo, come potrebbe suggerire questa descrizione, ma un’applicazione cosciente di uno strumento come è in questo caso la telecamera, uno strumento per osservare e cercare, e non sempre ci si riesce, di catturare quello che è importante per molti e che è utile che si sappia, per la lotta o per il riconoscimento di queste culture, di queste persone. Diciamo che è un’applicazione pratica, una specie di risorsa inconscia che ho come altri hanno altre risorse nel loro modo di funzionare.

Lei nel 72, a diciannove anni, scelse di andare in una comunità di indios tzeltales e di starci per alcuni mesi, per conoscerla più da vicino, da dentro, Che cosa ha scoperto allora di quella comunità e che cosa le è rimasto oggi di quella scoperta?

Quel viaggio in Chapas venne alla fine di un periodo di tre anni che avevo dedicato, a parte la scuola, a viaggiare per il Messico. Avevo fatto viaggi nei fine settimana, in autostop e in molti modi, e avevo percorso una buona parte del Messico e avevo deciso che, prima di altre parti del mondo, dovevo scoprire il Messico, paese che valeva la pena conoscere a fondo. C’è stato un momento in cui mi sono detto: è ora di fermarmi un po’, perché facevo sempre su e giù senza conoscere niente da vicino. Non ero mai stato in Chiapas e scoprii la possibilità di venire qui, di andare in particolare in una località in Bachajon che ora è un paese grande con popolazione di indigeni, ma all’epoca era un villaggio antico tipico tzeltal, nella zona tradizionale degli tzeltal prima che lo fosse la Selva. Arrivai per restarci qualche tempo e per me fu una rivelazione. Da una parte ho scoperto il Chiapas, il mondo indigeno, vivendolo concretamente. In questo posto c’era gente molto intelligente, molto gradevole, con un’identità piuttosto forte, nonostante tutte le difficoltà che hanno avuto. Quest’incontro ha segnato la mia vita. Ho proseguito la mia attività di studente, ma mi sono lasciato coinvolgere completamente da questo mondo ed era un lato nuovo di me. Di fatto a quell’epoca studiavo letteratura, che mi pareva inutile, e medicina, che aveva molto a che vedere con l’essere stato qui, perché era utile, serviva a qualcosa: questo e l’aver visto il film Barbarossa di Kurosawa, che parla proprio di un medico che va in una comunità. Tanto mi segnò questo film che cominciai a studiare medicina, per quanto mi segnò questo film. Studiai medicina, continuai a scrivere, ma non scrivevo io, però si instaurò in particolare un rapporto col Chiapas. Venivo qui da turista, andavo a Palenque, e ho sempre mantenuto un certo modo di sentire su questa regione del Paese, vidi anche altri posti e dedicai gran parte della mia vita a conoscere il Paese. Oggi passo la maggior parte del tempo qui in Chiapas, ma conosco bene il Paese e vorrei riprendere a girare perché è molto cambiato. Col tempo ho iniziato a lavorare direttamente con la questione indigena, soprattutto dalla fondazione della rivista Ojarasca, e dal momento che già seguivo la storia del Chapas, specializzai un po’ la mia osservazione, perché nella rivista ci dividevamo un po’ informalmente le regioni del Paese. Sono sempre stato in contatto con le organizzazioni di questa zona, e questo mi ha portato in Chiapas e nell’89 ho cominciato un rapporto diciamo così professionale col Chiapas. Non era né permanente né unico, ma era uno dei miei temi. Quando ci fu la sollevazione zapatista non solo io ma tutta la rivista eravamo attenti a ciò che accadeva nello Stato. Come inviato del giornale ero una specie di reporter specializzato non solo della questione indigena ma dei problemi del Chiapas. Questo bagaglio precedente mi aiutò a volte a capire un po’ meglio le cose straordinarie che comunicarono a succedere nel 94. Non venivo certo a scoprire il Chiapas, ho scoperto molte cose nuove, ma almeno era un territorio che avevo visitato nel corso della mia vita.

In uno dei racconti di Aire libre, il libro autobiografico sulla sua infanzia, c’è un episodio in cui lei da bambino dice: “Che cosa c’è dietro la montagna? E si dà lui stesso una risposta: “Un’altra montagna più alta”. Questa può essere una metafora della geografia, anche politica, del Chiapas?

Non avevo fatto questa associazione. Questo è un aneddoto molto concreto, direi fondamentalmente reale, però certo può applicarsi all’evoluzione del personaggio. Certo può essere perché l’effetto visivo è questo, siamo nelle montagne, qui sono tutte montagne, queste uscite in montagna mi hanno formato anche da un punto di vista professionale: ora lavoro in montagna e sempre dopo una montagna ne viene un’altra però questa domanda mi permette una citazione letteraria a un piccolo testo di Juan Rulfo che originariamente era un frammento di una lettera ma poi è stato usato come prologo alle sue opere complete, che sono poche, solo due libri. Parlava della sua infanzia, viveva in un villaggio, e racconta come quando vedeva volare gli avvoltoi provava invidia perché passavano molto al di là delle montagne. A quell’epoca il poeta aveva iniziato a leggere e sapeva che dietro le montagne c’era un mondo e della gente, gente che impazzisce, e c’è anche un esempio, che sono io, dice. Tutto questo mi riporta un po’ a questo ricordo dell’infanzia, la voglia di volare più lontano, che ha a che vedere con un impulso di uscire che l’adulto in qualche modo tende a soddisfare. E’ un gioco o un impulso, quasi una forma di vita. In questo senso potrebbe esserci un collegamento.

E la ricerca di questa montagna più alta può valere anche per i sogni degli zapatisti?

Se usata come epigrafe per un testo che parla degli zapatisti potrebbe significare questo. Ma quando ne ho scritto non volevo dire questo, però può essere una metafora piuttosto efficace di quello che sta succedendo in Chiapas dove in effetti è un … andare. Come dice la Sesta dichiarazione della Selva Lacandona, è un cammino, è un processo che porta ogni volta situazioni sempre più complesse, hanno cominciato con una rivolta armata un po’ suicida come sono tutte le rivolte, hanno creato forme di governo, hanno creato un sistema, lanciano un grande messaggio, non so se chiamarlo ideologia, ma è un corpus di pensiero e di esperienze che si è via via sviluppato, che non ha facilitato la lotta ma l’ha resa più complessa, e l’ha riempita di nuovi referenti e di nuovi contenuti. E in effetti, ogni volta che supera una cima, ne incontra un’altra più alta. Il momento che affronta oggi lo zapatismo deriva dall’essere passato da un monte all’altro, e non si può tornare indietro.

Nel suo modo di fare il giornalista, riesce sempre a raccontare qualcosa anche se apparentemente non succede nulla, nulla di tutto quello che generalmente fa notizia. Come fa?

In qualche modo prima di iniziare a lavorare qui avevo già svolto un tipo di lavoro in cui scrivevo molto, appartenevo a un gruppo di scrittori che si preoccupavano di rappresentare la vita quotidiana, sia che fosse rilevante sia che non facesse notizia e dunque arrivando qui ho scoperto che raccontando la grande storia, la storia giornalistica, tutto quello che c’è nella vita quotidiana, gli avvenimenti apparentemente senza importanza, si riflettevano molto anche in quello che la notizia esprimeva in un aspetto diciamo più ambientale. Tutto ciò però non si può comprendere se non si capisce da dove nasce e com’è la vita nelle piccole cose. D’altra parte per me è naturale che se qualcosa non si è concluso ma sta succedendo, ad esempio se piove, per me è rilevante il fatto che abbia piovuto. Alcuni giornalisti mi hanno chiesto: “A chi importa se ha piovuto o se c’era la luna piena?”. A me importa, è parte di quello che vedo e di ciò a cui sto assistendo e poi ho l’impressione che al lettore piaccia , vuol dire che il lettore lo accetta con piacere come il respiro di ciò che accade nel mondo reale e la persona nel mondo reale ha una sua vita: ha caldo, ha freddo, ha fame, dice qualcosa, è stanca.
E d’altra parte è un modo di scrivere, io ho lo fortuna di avere il permesso di farlo. Molti giornalisti lo vorrebbero fare ma i loro media non glielo permettono, le considerano digressioni inutili, una perdita di tempo e di spazio, cose trascurabili. Ma io ho ottenuto il permesso dal giornale in cui lavoro di poterlo fare e nello stesso tempo in cui mi informo per il giornale, posso osservare anche la quotidianità e tutte le cose che sembrano meno importanti.
Il mio giornale del resto mantiene questo sguardo con i fotografi, con alcuni inviati e con cronisti e quindi c’è uno spazio dove nell’informazione occorre mettere un po’ di capacità letteraria che non tutti i cronisti hanno. Ma più che un cronista per molti anni sono stato uno scrittore e quindi credo di avere gli strumenti e la libertà di usarli costantemente, ma senza abusarne.
Ad esempio se ho una telecamera posso riprendere la notizia, qualunque essa sia, ma allo stesso tempo posso riprendere ciò che succede dietro o entrare nelle case, perché questa esperienza mi ha permesso anche di entrare nella vita quotidiana, nei campi e io credo che anche questo sia parte della storia. Come vivono, come mangiano, di cosa parlano, come passano il loro tempo, tutto ciò fa parte di una storia perché è un processo che non viene fuori quasi mai nei discorsi o nelle mobilitazioni. E’piuttosto una proposta reale di vita ovvero: in che consiste la vita reale di queste persone che stanno cercando di cambiare la vita? E così si possono vedere le difficoltà che hanno e capire le ragioni per cui vogliono cambiare: ovvero si capiscono le ragioni per cui si sono ribellati vedendo come vivono la loro quotidianità, ma non per il fatto che si veda uno scenario di miseria e di povertà. Molta gente che arriva qui in Chiapas, nel primo contatto con la gente indigena e con i contadini, prova orrore nel vedere i bambini che giocano per terra, oppure nel vedere i bambini sporchi, però a volte c’è un’esagerazione nella percezione perché non necessariamente sono poveri, ma sono persone dei campi che vivono a contatto con la terra e che hanno un rapporto con gli spazi diverso da quello che ha la gente di città e le persone occidentali. Quindi, non bisogna vederli con l’orrore o la pena di quando si guardano i poveri, ma guardarli come loro stessi si vedono. Questo io ancora non l’ho ottenuto, ma mi piacerebbe molto riuscirci: come vedono, come vivono, come si può trasmettere ciò a un lettore che non ha le chiavi della quotidianità di questa cultura.

Gli insurgentes e Marcos in particolare scelgono di usare un linguaggio metaforico e letterario. Quanto conta la scelta di questo linguaggio?

Mi sembra evidente che tutto ciò è stato molto utile, Marcos è diventato uno scrittore molto letto e il messaggio, per il fatto di avere una forma letteraria con molti registri e che assorbe il linguaggio della vita di popoli per i quali parla, l’ha aiutato a trasmettere il suo pensiero e anche il ritratto che loro fanno di se stessi. Inoltre, riguardo all’uso letterario della sua esperienza e del messaggio che trasmette, c’è un aspetto interessante: queste comunità vivono in un mondo bilingue in cui lo spagnolo è la seconda lingua e in cui molte espressioni che teoricamente in spagnolo sarebbero sbagliate hanno prodotto un nuovo tipo di lingua spagnola. Questo ha avuto grande influenza sulla letteratura e sul pensiero indigeno in generale del Messico e in qualche modo ora ha un effetto sullo spagnolo che si parla in Messico. Tutto ciò dipende dall’influenza di Marcos ma dipende anche da loro, perché gli indigeni hanno costantemente parlato in tutti i municipi autonomi e in tutti i villaggi e proprio per il fatto che il messaggio è stato tanto riprodotto è entrato a far parte della lingua parlata. Alcune espressioni che prima potevano essere considerate come un cattivo spagnolo adesso invece si sono caricate di un’espressività particolare e hanno arricchito o almeno hanno trasformato e aggregato diversi registri allo spagnolo che si parla in Messico. E’ paradossale, perché nello stesso tempo gli zapatisti e gli altri popoli indigeni hanno rivendicato in modo molto profondo a livello storico le proprie lingue e ora viviamo una situazione, che andrà ancora più avanti, in cui c’è un nuovo rispetto per le lingue indigene, una rivalutazione dei popoli e la creazione di una loro stessa espressione letteraria nella loro lingua. Tutto ciò dipende dall’influenza dello zapatismo, ma soprattutto dal risveglio generale dei popoli indigeni. In Messico stiamo vivendo una situazione che non so in quanti posti del mondo possa accadere, ma nella quale stanno nascendo nuove letterature che non esistevano e lingue che nemmeno si scrivevano: diciamo che la componente letteraria del movimento indigeno messicano è molto forte. E inoltre ci sono una serie di incroci linguistici che aiutano molto. Ma per rispondere alla domanda iniziale di come tutto ciò favorisce il messaggio, io credo che lo abbia reso più popolare e più noto nel mondo e ha fatto in modo che fosse espresso da un accordo con il linguaggio, da un uso del linguaggio. Noi sappiamo che i politici non fanno altro che corrompere il linguaggio, prostituirlo. In questo caso c’è stato quasi un recupero del rapporto amoroso e piacevole con il linguaggio che il lettore, il pubblico o quelli che aspettano i messaggi, apprezzano molto perché riescono a comprenderlo e ne sono più attratti. Quindi c’è una maggiore efficacia: paradossalmente a volte con la narrazione o con i simboli riflettono, meglio che con gli occhi nudi, la verità, i fatti.

In Aire libre lei attribuisce grande forza ai sogni che si fanno nell’aria e sull’aria. Quanto l’aria libera del Chiapas aiuta la realizzazione dei sogni, anche di quelli che faceva da bambino?

Nella mia vita quotidiana passo molto tempo all’aria aperta, vivo buona parte della vita in mezzo alle intemperie con tutto quello che significa. E in qualche modo è come la realizzazione di ciò che nella fantasia e nei sogni mi ero proposto nell’infanzia, e non è male che almeno una parte di questi sogni si concretizzi in qualche modo o per lo meno che questi territori del sogno facciano parte dei territori reali in cui si vive.
Non c’è davvero da lamentarsi, al contrario. Questo sogno di volare, che è uno dei simboli del libro e che è tipico dell’infanzia, in qualche modo l’ho conservato: non parlo del fatto che ho volato molto in aereo, a volte troppo, e che non è la stessa esperienza, anche se mi piace. L’aria però è come una forma di vedere il mondo o d’immaginarlo con una visione più ampia di quella da terra, una visione più o meno fantastica, ma che riguarda fatti reali, e un modo di guardare il mondo e di stare nel mondo perché il mondo è aperto. L’aria può essere un luogo pericoloso ma è lì che succedono le cose. In questo senso possiamo dire che la vita e le lotte degli indigeni si svolgono in uno spazio molto vasto, straordinariamente bello, la Selva, la montagna. Può sembrare secondario, ma tutto il movimento di questi anni si svolge in uno degli scenari più belli del Messico e forse del mondo. E’ come un’espressione letteraria: non è necessaria ma a volte aiuta molto a rendere degno, ad abbellire in modo autentico, non falso. Anzi, non è neppure un abbellire … è bello di per sé. Allora non si tratta tanto di piegare l’estetica a un contenuto politico, ma la vita ha sempre elementi belli o terribili, e questa esperienza zapatista ha permesso che la differenza tra la fantasia e l’immaginazione o l’estetica coincida con la vita reale delle persone, nello spazio e nel tempo in cui si svolge. Uno dei molti privilegi del popolo zapatista è che non solo ha trovato gente con uno spirito forte ed espressivo e un popolo integro che hanno dato una lezione al mondo, ma lo ha fatto in un luogo per cui vale la pena lottare e morire. Questo esprime nel miglior modo il messaggio e tutto acquista un senso compiuto.

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