La Jornada - lunedì 24 aprile 2006
Eduardo Galeano
Muri

Il Muro di Berlino era la notizia quotidiana. Dalla mattina alla notte leggevamo, vedevamo, ascoltavamo: il Muro della Vergogna, il Muro dell'Infamia, la Cortina di Ferro...

Finalmente, quel muro, che meritava di cadere, cadde. Ma altri muri sono germogliati, continuano a germogliare, nel mondo, ed anche se sono molto più grandi di quello di Berlino, ma di loro si parla poco o niente.

Poco si parla del muro che gli Stati Uniti stanno innalzando alla frontiera messicana e poco si parla dei reticolati di Ceuta e Mellilla.

Quasi niente si parla del Muro in Cisgiordania che perpetua l'occupazione israeliana di terre palestinesi e di qui a poco sarà 15 volte più lungo del Muro di Berlino.

E niente, niente di niente, si parla del Muro del Marocco che perpetua l'occupazione marocchina del Sahara occidentale da 20 anni. Questo muro, minato dall'inizio alla fine, vigilato per migliaia di soldati, misura 60 volte più del Muro di Berlino.

Perché sarà che ci sono muri tanto altisonanti e muri tanto muti? Sarà per i muri dell'incomunicabilità che i grandi mezzi di comunicazione costruiscono ogni giorno?

Nel luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia di L'Aia condannò il Muro in Cisgiordania, violava il diritto internazionale, e comandò che si demolisse. Ma finora, Israele non l'ha saputo.

Nell'ottobre del 1975, la stessa Corte aveva dettato: "Non si stabilisce l'esistenza di nessun vincolo di sovranità tra il Sahara Occidentale ed il Marocco". Ci sembra poco dire che il Marocco è rimasto sordo. Fu peggio: il giorno dopo di questa risoluzione iniziò l'invasione, chiamata Marcia verde, e poco dopo si impadronì a ferro e fuoco di quelle vaste terre altrui, espulsando la maggioranza della popolazione.

E lì segue.

Mille e una risoluzioni delle Nazioni Unite hanno confermato il diritto all'autodeterminazione del popolo saharaui.

A che sono servite quelle risoluzioni? Si sarebbe dovuto fare un plesbiscito, affinché la popolazione decidesse il suo destino. Per assicurarsi la vittoria, il monarca del Marocco riempì di marocchini il territorio invaso. Ma poco dopo neanche i marocchini furono degni della sua fiducia. Ed il re, che aveva detto di sì, disse chi lo sa. E dopo disse di no ed ora anche suo figlio, suo erede del trono, dice di no. La risposta negativa equivale ad una confessione. Negando il diritto di voto, il Marocco confessa che ha rubato un paese.

Lo continueremo ad accettare, come se tutto andasse bene? Accettando che nella democrazia universale noi sudditi possiamo solo esercitare il diritto all'obbedienza?

A che cosa sono servite le mille ed una risoluzioni dalle Nazioni Unite contro l'occupazione israeliana dei territori palestinesi? E le mille ed una risoluzioni contro il blocco di Cuba?

Un vecchio proverbio insegna:

L'ipocrisia è l'imposta che il vizio paga alla virtù.

Il patriottismo è, attualmente, un privilegio delle nazioni dominanti.

Quando lo praticano le nazioni dominate, il patriottismo diventa sospetto di populismo o di terrorismo, o semplicemente non merita la minor attenzione.

I patrioti saharauis che lottano per recuperare il loro posto nel mondo da 30 anni, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento diplomatico di 82 paesi. Tra di questi, il mio paese, l'Uruguay, che recentemente si è unito alla gran maggioranza dei paesi latinoamericani ed africani.

Ma l'Europa, no. Nessun paese europeo ha riconosciuto la Repubblica Saharaui. La Spagna, neppure. Questo è un grave caso di irresponsabilità, o chissà forse di amnesia, o almeno di disamore. Fino a 30 anni fa il Sahara era una colonia della Spagna e la Spagna aveva il dovere legale e morale di proteggere la sua indipendenza.

Che cosa ha lasciato lì il dominio imperiale? Dopo un secolo, quanti laureati ha formato? In totale, tre: un medico, un avvocato ed un perito mercantile. Questo è quanto ha lasciato. Ed ha lasciato un tradimento. La Spagna ha servito su di un vassoio quella terra e quelle genti affinché fossero divorate dal regno del Marocco. D'allora, il Sahara è l'ultima colonia dell'Africa. Gli hanno usurpato l'indipendenza.

Perché gli occhi si rifiutano di vedere quello che rompe gli occhi?

Sarà perché i saharauis sono stati una moneta di scambio, offerta dalle imprese e dai paesi che comprano al Marocco quello che il Marocco vende anche se non è suo?

Un paio di anni fa, Javier Corcuera intervistò, in un ospedale di Baghdad, una vittima dei bombardamenti contro l'Iraq. Una bomba gli aveva spezzato un braccio. Ed ora ha otto anni ed ha subito undici operazioni. Ha detto:

- Magari non avessimo il petrolio.

Forse il popolo del Sahara è colpevole perché nelle sue lunghe coste c'è il maggior tesoro peschereccio dell'oceano Atlantico e perché sotto le immensità di sabbia, che sembrano così vuote, giace il maggior riserva mondiale di fosfati e ci sono forse anche petrolio, gas ed uranio.

Nel Corano ci potrebbe essere, anche se non ci sta, questa profezia:

Le ricchezze naturali saranno la maledizione delle genti.

Gli accampamenti di rifugiati, nel sud dell'Algeria, sono nel più deserto dei deserti. È un vastissimo niente, circondato da niente, dove crescono solo le pietre. E tuttavia, in questa aridità, e nelle zone liberate che non sono molto migliori, i saharauis sono stati capaci di creare la società più aperta, e la meno maschilista, di tutto il mondo musulmano.

Questo miracolo dei saharauis che sono molto poveri e molto pochi, non si spiega solo con la loro testarda volontà di essere liberi, che non è poi tanto normale in quei posti dove tutto manca: si spiega anche, in larga misura, con la solidarietà internazionale.

E la maggior parte degli aiuti proviene dai popoli della Spagna. La loro energia solidale, memoria e fonte di dignità, sono molto più potenti del viavai dei governi e dei meschini calcoli delle imprese.

Dico solidarietà, non carità. La carità umilia. Non si sbaglia il proverbio africano che dice:

La mano che riceve sta sempre sotto alla mano che dà.

I saharauis aspettano. Sono condannati a pene di angoscia perpetua e di perpetua nostalgia. Gli accampamenti dei rifugiati portano i nomi delle loro città sequestrate, dei loro perduti luoghi d'incontro, dei loro affetti: L'Aaiún, Smara...

Loro si chiamano figli delle nuvole, perché da sempre inseguono la pioggia.

Da più di 30 anni inseguono, anche, la giustizia, che nel mondo del nostro tempo sembra più schiva dell'acqua nel deserto.

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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