La Jornada - Domenica 18 giugno 2006
Italia Méndez narra le aggressioni di cui è stata vittima da parte dei poliziotti in Atenco
"Quando mi penetravano sentivo molta paura, che si è trasformata in rabbia"

EMIR OLIVARES ALONSO

La vita come quella che ho vissuto prima del 3 maggio "non ritornerà mai più: ho paura per la mia sicurezza e per quella della mia famiglia, ma anche troppo rabbia per quello che mi hanno fatto", assicura Italia Méndez, la prima donna messicana che dà la sua testimonianza, senza chiedere l'anonimato, di ciò che ha subito durante l'operativo di polizia in San Salvador Atenco.

Italia, come il resto dei detenuti, è stata picchiata e torturata, ed inoltre violentata da tre poliziotti. "In quel momento, mentre mi penetravano, sentivo molta paura, che man mano si è trasformata in rabbia, perché non potevo credere che ci stessero trattando così".

Era arrivata di sera ad Atenco il 3 maggio, poiché lavora in una fondazione che si occupa dei bambini in situazioni difficili. Quando la sua organizzazione è venuta a sapere quanto accadeva in Atenco, hanno deciso di inviarla insieme ad altri due compagni per contattare i parenti dei minori detenuti, così come quelli di Javier Santiago Cortés, l'adolescente deceduto, per aiutarli psicologicamente.

Malgrado avessero i documenti della loro organizzazione che avallavano la loro presenza nel villaggio, gli agenti di polizia non ci fecero assolutamente caso. "Quando ci hanno arrestato mi sentii incerta, non sapevo che cosa sarebbe successo. Ma immaginai tutto, meno cò che è successo dopo: la brutalità".

Nonostante il trauma che ha vissuto, narra che cosa è successo quando l'hanno aggredita: "mi hanno trascinato fino ad un sedile dietro del camion, mi hanno messo sopra ad altre due persone e lì mi hanno picchiato, spogliata e sono stata violentata da tre individui. Mi minacciavano di violentare mia madre e le mie sorelle, perché avevano il mio indirizzo. Il primo poliziotto ha detto ad un altro: 'vieni a provare la puttana che mi è toccata'. Mi voltano continuamente, supina o prona. Poi un terzo mi ha violentato con un oggetto. Sentivo paura, incertezza: non ho voluto dir niente, perché se no mi avrebbero picchiato ancor di più".

Il conflitto per quelle aggressioni subito l'ha fatta tacere, ma poi con un miscuglio di paura, rabbia e coraggio ha deciso di denunciarlo, "perché ho pensato che era necessario che si sapesse quello che ci era successo".

Italia è libera sotto cauzione, visto che è stata accusata di attacco alle vie generali di comunicazione, procedimento che si porta dietro e che si dice disposta ad affrontare, anche se sa che sarà complicato e pesante. "Continuo ad essere una presunta colpevole, e questo non può essere definito libertà". Aggiunge che ripetere continuamente quanto le è successo "è doloroso e terribile, ma credo che sia necessario".

Confessa che ora non osa uscire in strada da sola, per la sfiducia che ha verso tutti, ma soprattutto verso i poliziotti: "mi impressiona il fatto di non sentirmela di andare a comprare un litro di latte. In ogni posto dove vado, lavoro, casa, ufficio, vado accompagnata".

Considera risibili le punizioni alle quali sono stati condannati alcuni poliziotti ed chiede che il caso non si chiuda così, perché "se hanno agito obbedendo a degli ordini, il colpevole è lo Stato e tutti sappiamo i nomi e cognomi dei responsabili". Aggiunge che anche se è importante l'attenzione che è stato dato al tema delle donne aggredite sessualmente, non ci si deve dimenticare che anche gli uomini hanno subito aggressioni e torture.

La giovane ha sporto la sua denuncia formale alla procura contro la violenza alle donne mercoledì scorso. Ha consegnato un documento con due richieste: che la dipendenza si occupi del caso delle donne violentate e che il pubblico ministero sia imparziale.

Italia non si fida delle autorità, perciò la sua sfida è per la consapevolezza sociale: "confido che la società sia sensibile rispetto a quanto ci è successo e che eserciti davvero pressione sullo Stato affinché riconosca il danno e la tortura a cui quali ci ha sottoposto. Speriamo che i Mondiali non finiscano con l'indignazione: esigiamo giustizia per tutti quelli che sono stati picchiati e torturati. Non dobbiamo dimenticare il nostro passato, perché ora è toccato a me, ma in ogni momento tutti corriamo il rischio che il governo torni a far questo sull'altare dell'oblio".

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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