il manifesto 17 maggio 2006
Usa, dalla frontiera al fronte
Saranno 6.000 i membri della Guardia nazionale mandati a vigilare sulla sicurezza del confine sud. In un discorso televisivo alla nazione, Bush svela il suo piano sull'immigrazione: oltre a blindare la frontiera, il presidente annuncia anche la regolarizzazione per chi sta già dentro
Franco Pantarelli - New York

Tutto come previsto: i soldati della guardia nazionale da spedire al confine fra Stati Uniti e Messico saranno seimila, il loro compito non sarà di arrestare la gente, cioè non faranno i poliziotti - cosa che avrebbe sollevato seri problemi costituzionali - ma si limiteranno a fornire alle guardie di frontiera un'assistenza «logistica» e informazioni che possano facilitare il loro lavoro. George Bush ha detto lunedì sera ciò che tutti sapevano che avrebbe detto, eccetto il numero dei soldati, risultato inferiore a quello che si vociferava prima del suo discorso. A quanto pare le discussioni per stabilire la cifra sono andate avanti fino all'ultimo momento per via dei già gravosi carichi che la guardia nazionale ha attualmente e che sono stati enormemente aumentati dal suo uso in Iraq e Afghanistan. E infatti a un certo Bush ha insistito che «è importante che gli americani sappiano che la guardia nazionale è sufficientemente forte per vincere la guerra al terrore, per rispondere ai disastri naturali e per aiutare a difendere i nostri confini». Tutto ciò comunque durerà solo un anno, giusto il tempo di assumere e addestrare un numero equivalente di nuove guardie di frontiera da dislocare al posto dei militari.

Quelle nuove seimila guardie di frontiera, tuttavia, non sono una «necessità» manifestatasi improvvisamente ma un piano che Bush aveva da tempo annunciato senza mai realizzarlo. In pratica la guardia nazionale entra in campo per supplire a una promessa che il presidente non ha mantenuto. E questo costituisce un'ulteriore prova che l'unica, vera emergenza cui lui in questo modo vuole far fronte non è quella dell'immigrazione, il cui andamento è lo stesso da anni, bensì quella elettorale, con la base repubblicana di estrema destra che minaccia di disertare il voto del 7 novembre aumentando ancora di più la possibilità che i democratici conquistino la maggioranza almeno alla Camera dei deputati. Uno degli esponenti principali di quell'estrema destra, Mark Krikorian dirigente di una cosa chiamata Center for Immigration Stdies che sostanzialmente spinge per la deportazione degli immigrati «illegali», l'ha messa sul brutale con un «Bush ha lanciato un osso ai cani», e poi ha spiegato: «Non è altro che un modo di corteggiare la base. Una cosa che non so se sia più assurda o offensiva». E Jeff Sessions, senatore repubblicano dell'Alabama ha subito avvertito che l'iniziativa di Bush non servirà a nulla: «La presenza della guardia nazionale, per significativa che possa essere, non cambierà la situazione di illegalità in cui l'immigrazione si svolge e il popolo americano lo sa benissimo». Ma le critiche della destra vanno oltre.

Ammettiamo - dice Stewart Verdery, un altro dei «duri» - che in questo modo si riesca a fermare più persone che varcano illegalmente la frontiera, dove li metteremo? I centri di accoglienza che il presidente si era impegnato a fare non ci sono».

E la sinistra? «Fra la deportazione e la cittadinanza concessa immediatamente ci deve essere una via di mezzo», ha detto Bush, riconoscendo che sarebbe del tutto irrealistico cacciar via persone «che hanno profonde radici negli Stati uniti, che vivono e lavorano qui da anni, che hanno una casa e conducono una vita onesta e laboriosa». E ha perfino arricchito un po' la sua proposta di creare la categoria dei «lavoratori ospiti», cioè quelli cui viene concesso un permesso di lavoro «in modo da trasformare gli immigrati clandestini in gente che lavora e paga le tasse».

Conclusione, da una parte c'è l'accusa di «non avere fatto abbastanza» perché 6.000 soldati con il divieto di fare i poliziotti non cambieranno le cose; dall'altra parte c'è l'accusa di «pretendere di dare una soluzione militare a un problema politico». Se l'intenzione di Bush era quella di mettersi nel mezzo con un'azione «mediatrice», l'impressione è che sia riuscito invece a scontentare tutti. La sua presidenza era cominciata con una sorta di «grande promessa» agli immigrati, specie dopo che il suo stratega Karl Rove aveva indicato i latinos come un potenziale zoccolo duro repubblicano. E infatti il suo primo atto era stato quello di incontrare il presidente messicano Vicente Fox e mostrare il grande feeling che li univa. Poi Bush era stato distolto dagli attentati terroristici del 2001 e dalla sciagurata avventura guerresca, ma nel 2004 era tornato sul tema organizzando perfino un «raduno» di latinos alla Casa Bianca in cui aveva pronunciato un discorso pieno di parole spagnole. Poi, constatando che la cosa non giovava alla sua campagna per essere rieletto, fece rapidamente cadere la cosa rinviandola a tempi migliori. Una volta rieletto aveva ripreso il discorso tirando fuori la storia dei «lavoratori ospiti». Ma nel frattempo le cose erano precipitate e una parte del suo partito aveva preso a cavalcare la «paura dell'orda».

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