La Jornada - Sabato 15 luglio 2006
Carlos Montemayor
Imparare a vincere

Il potere in Messico si rifiuta di evolvere, forse perché sono stati troppi gli anni del vecchio priísmo. Il potere in Messico si rifiuta di evolvere, per quanto si può vedere, quando afferma pubblicamente che i candidati ed i partiti devono imparare a perdere in democrazia. In effetti, anche in paesi come il nostro, che economicamente non è democratico con le maggioranze, ma generoso solo con le minoranze, l'aspirazione alla democrazia elettorale spinge i candidati ed i partiti a saper perdere.

Il potere in Messico passa deliberatamente sopra al fatto che in una democrazia i candidati ed i partiti devono imparare pure a vincere. Il potere in Messico non ha imparato di sicuro a vincere in trasparenza. Qui salta fuori l'incongruenza: il potere in Messico non vuole imparare a vinvere inoppugnabilmente.

Quando il potere esige che gli altri imparino a perdere ma non si impegna nella trasparenza nella sua vittoria, non sta dando esempio di virtù democratiche, ma di atteggiamento fraudolento. Forse i lunghi anni della priísmo nazionalista hanno fatto credere ai politici messicani che la continuità al potere non era una questione di voti né di un loro conteggio effettivo, ma invece di induzione tendenziosa o clientelare degli elettori e di manipolazione del conteggio delle schede.

Questo potrebbe, forse, spiegare che in Messico la possibile alternanza dei partiti ha come unica regola il controllo a qualsiasi costo dei risultati elettorali. La scuola politica del vecchio potere priísta batte ancora in molti cuori: nei gruppi che si rifiutano di sparire, in cupole che si rifiutano di perdere le loro poltrone, in gruppi economici che vedono il potere politico come un'estensione dei loro interessi. Questa zavorra storica sta intaccando l'attuale processo elettorale che non si concluderà fino alla sentenza del Tribunale Elettorale del Potere Giudiziario della Federazione.

In molti abbiamo creduto che il consolidamento dell'Istituto Federale Elettorale (IFE), avrebbe rafforzato la certezza della democrazia in Messico. Ora l'IFE pare smentire un processo che sembrava irreversibile: si è inchinato per chiudere gradualmente le strade che avrebbero dato trasparenza alle attuali elezioni. Tutti partiamo dalla stessa premessa: le elezioni si vincono con i voti, non con le pressioni politiche di strada.

Ma l'espressione "pressioni politiche di strada" ha molti significati. Affinché il paese accetti i risultati elettorali in favore dell'ancora - in termini strettamente legali - candidato panista Felipe Calderón, "sono scese in strada" pressioni diverse e gravi: dipendenze dell'amministrazione foxista, media informativi, alcune organizzazioni imprenditoriali, certi gruppi economici nazionali ed internazionali e la struttura stessa dell'IFE.

Contro queste pressioni di gruppi di potere, non so se l'occupazione perredista delle strade possa essere più persuasiva o più efficace. Quello che entrambe le pressioni politiche stanno dimostrando è che uno dei partiti concorrenti, il PRD, non è ancora preparato a perdere senza trasparenza e certezze, e che l'altro, cioè il PAN, non è ancora preparato a vincere con trasparenza e certezze.

L'unica opzione che rimane ora al paese per salvare la sua integrità istituzionale è il Tribunale Elettorale del Potere Giudiziale della Federazione. Ma anche qui c'è uno scoglio che devono superare i sostenitori di Felipe Calderón e quelli di Andrés Manuel López Obrador: la tentazione di manipolare un capriccioso discorso di legalità invece di afferrarsi al diritto.

Una prima dimostrazione di evoluzione politica dei contendenti sarebbe quella di non sporcare in anticipo le possibili prove che si presenteranno al tribunale. Una futura decisione del tribunale che dia certezza alle elezioni, che dia trasparenza inoppugnabile ai risultati elettorali o in via estrema, ne sentenzi l'annullamento, faciliterebbe quel apprendistato essenziale a saper perdere ed a saper vincere. Non propiziare la trasparenza nel processo di decisione del tribunale elettorale porterebbe all'impugnazione permanente e pericolosa del nuovo governo come illegittimo.

Adesso è una questione di buon senso politico, di equanimità minima. Non lo è la sfida di una resistenza popolare indefinita né la risposta di essere pronto contro ogni resistenza sociale futura. Entrambe le posizioni sono segni che il potere in Messico si rifiuta di evolvere. Sono segni che l'Istituto Federale Elettorale non ha svolto bene il suo compito di non lasciar dubbi sulla sua obbligatoria imparzialità. Le sue azioni lente, ambigue e parziali - difese e chiarite nei discorsi, ma non nei fatti - hanno costretto i contendenti a continuare il loro confronto. Se si verificasse legalmente davanti al tribunale elettorale che l'IFE sta aprendo i pacchi dei seggi elettorali per far quadrare tendenziosamente le cifre, si metterebbe davvero a rischio la validità delle elezioni. Questa è l'ultima opportunità per risolvere istituzionalmente le elezioni.

Ma forse non si tratta di una questione di mancanza di immaginazione ed il fatto che il potere accetti che saper perdere e saper vincere è un apprendistato necessario per tutti. Forse il potere in Messico continua ad essere lo stesso, ma con un'altra faccia. Da Carlos Salinas de Gortari a Vicente Fox ha avuto una continuità nella politica economica e nelle equipe di governo. L'ideologia del gabinetto zedillista è la stessa di quella del governo foxista e si prepara per proseguire per altri sei anni, a quanto sembra, se Felipe Calderón risulta trionfante. Il gruppo di neoliberisti e nemici dell'economia mista ha distrutto il PRI nazionalista ed ha già avuto, se si sommano gli ultimi anni del governo di Miguel de La Madrid, una continuità di più di tre sessenni. In più di 20 anni di continuità, il nuovo potere ha imparato, forse, che la modernità del paese e delle sue istituzioni elettorali non aveva nulla a che vedere con l'evoluzione democratica del Messico. Il nuovo potere che si prepara ad arrivare ai suoi primi 30 anni di permanenza non è ancora la dittatura perfetta - come diceva Mario Vargas Llosa - dei vecchi priísti, ma aspira a riprodurre gli stessi meccanismi di controllo e di manipolazione dei suoi predecessori.

Ma l'IFE non è un'istituzione di completa fiducia. Attraverso l'IFE e molte altre istanze si manifesta la chiara tendenza del governo federale ad assicurare il trionfo elettorale del candidato ufficiale, Felipe Calderón. Ci sono alcune similitudini con le elezioni di 1988, quando il governo messicano manipolò le elezioni a favore di Carlos Salinas de Gortari contro Cuauhtémoc Cárdenas. Ma nel 1988 non esisteva il Tribunale Elettorale del Potere Giudiziario della Federazione. Ora ci rimane solo questo spazio.

Se anche così la nuova elite del potere si ostina a non imparare a vincere in modo equanime e trasparente, starà buttando fuori dall'alveo istituzionale le opzioni di soluzione pacifica. Se un negoziato, realista e necessario, fosse possibile tra le elite di potere panista e perredista, dovrebbe essere non sulla legalità apparente, non sulle formule legaliste, ma - oggi - sul diritto e su un processamento valido nel tribunale elettorale, e domani, su un cambiamento istituzionale dell'IFE che lo allontani dalla transazione congiunturale e di cupola e lo riaffermi come uno spazio dello Stato messicano al servizio trasparente ed imparziale dei voti cittadini e non dei voti dei gruppi di pressione che dopo 20 anni di continuità economica e politica si dimostrano più aggressivi, intolleranti e pericolosi di qualsiasi pressione politica appaia per le strade.

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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