Lunedì 15 maggio 2006
Enrique Dussel A. *
La vita, la legge e la forza

La forza è una componente del potere politico. La volontà-di-vivere (come diceva Arthur Schopenhauer) è il momento che apporta la forza al potere politico. Tutti i membri della comunità politica "vogliono vivere" (questo "volere" è la volontà). Il potere politico, oltre a questa volontà di tutti i cittadini, ha bisogno dell'unità fornita dal consenso o dall'accordo o dal patto razionale tra tutti i membri. Se a questo aggiungiamo la fattibilità (cioè, una volontà di vita consensuale e con i mezzi per conseguirla), abbiamo l'articolazione minima di una prima definizione di "potere politico" [si veda tutto questo in un'opera che apparirà tra poco in Siglo XXI Editores: Veinte tesis de politica].

In un secondo momento, il potere della comunità o del popolo (potentia) deve darsi delle istituzioni per poter utilizzare costruttivamente gli strumenti legittimi necessari per lo sviluppo della vita del paese. È per fare questo che nasce tutta la struttura istituzionale dell'esercizio delegato del potere (potestas), in ultimo termine: lo Stato (come macro-struttura istituzionale). Le strutture istituzionali sono mediazioni o strumenti per la riproduzione e lo sviluppo della vita (ecologica, economica, culturale e religiosa) della comunità. Per poter vivere, per non ammazzarsi gli uni con gli altri, come suggeriva Thomas Hobbes, è necessario qualche accordo basilare, qualche consenso.

L'insieme di queste mediazioni di legittimità è costituito dalla costituzione e dal sistema delle leggi. Il rispetto abituale di queste leggi, e delle istituzioni preposte alla loro applicazione (i giudici) e non "l'occhio per occhio" del cittadino che vuol farsi giustizia con le sue mani, costituisce lo "stato di diritto". Tra gli strumenti dello "stato di diritto", lo Stato o società politica deve avere il monopolio dell'esercizio della forza come indicava Max Weber (per evitare "l'occhio per occhio" sopra nominato).

Tuttavia, bisogna considerare una certa gerarchia tra i termini. La vita umana ha dignità assoluta ed è il fine. La legge e lo "stato di diritto" sono un mezzo. Già il fondatore del cristianesimo, visto che viviamo in una cultura che appartiene a questa tradizione possiamo usare questo esempio, disse: "Il padrone del sabato è l'uomo" (Luca 6,5). Se devo aiutare un malato e trasportarlo all'ospedale faccio un lavoro che la "legge" me lo proibisce il sabato. E bene, per quel illustre etico, la "vita" del malato valeva più che rispettare la "legge", perché il "sabato è per l'uomo" e non viceversa.

Quando un'autorità, sia governatore o presidente, applica sproporzionatamente la forza della coazione monopolica, producendo la morte (perché quegli assassinati hanno nei loro corpi pallottole delle forze dell'ordine pubblico) per dissolvere uno sciopero operaio o per evitare che alcuni venditori ambulanti trasformino la strada in un mercato, ha usato la forza, di cui ha legittimamente il diritto, ma usandola sproporzionatamente, elevando il mezzo (la legge) al di sopra del fine (la vita umana) il suo atto smette di essere legittimo e si trasforma in un atto dispotico, illegittimo, barbaro.

Ha messo il carro davanti ai buoi, ha invertito i valori ed ancora peggio quando pretende di giustificare l'atto sproporzionato fondandosi sull'applicazione della legge - che è un mezzo per la vita del paese - e non riconosce il suo errore. Giustificando gli assassinii in nome della legge dimostra la sua colpevolezza. L'occulto è che ha basato la sua volontà dispotica sul fondamento della legge dietro la quale si difende, perché un'applicazione indebita della legge è ingiusta e niente ha a che vedere con la legittimità o no della legge. Socrate non criticò la legge di Atene, bensì i giudici ingiusti che lo condannarono a morte, per quanto i giudici ingiusti si barricassero dietro l'applicazione della legge.

In effetti, l'esercizio delegato del potere da parte delle istituzioni della società politica (lo Stato), si realizza in nome del popolo. Ma può essere deviato nel suo esercizio. Ci sono due maniere estreme di detto esercizio. Qui coincide il subcomandante Marcos con il fondatore del cristianesimo. Dal Chiapas abbiamo letto che quando chi esercita il potere lo fa ascoltando il popolo, è come se “quando colui che comanda, comanda ubbidendo" (in Marco 10,44 leggiamo: "colui che voglia essere il primo, sia servitore di tutti"). È il modo giusto e legittimo dell'esercizio del potere che emana dal popolo.

Mentre, quando colui che esercita il potere dello Stato crede di farlo a partire solo da sè (cioè, quando pretende che lo Stato sia la sede ultima del potere politico), cade nel feticismo: prende il mezzo per il fine. Di questo tipo di governanti si dice che "quando comandano, comandano comandando" ("i leader dei popoli le tirannizzano ed i grandi li opprimono”, Marco 10, 42). In questo secondo caso, la volontà del governante pretende di essere la sede del potere e la fonte della legge. Sembra che compiere la sua volontà sia applicare la legge. Quando si dice che bisogna rispettare la legge, significa che bisogna obbedire alla sua volontà. George Washington si ribellò contro il re d'Inghilterra. Miguel Hidalgo y Costilla non obbedì al re di Spagna né alle Leggi delle Indie, le uniche vigenti in quel momento. Lottò per la vita dei messicani e si oppose all'autorità e alla legge che li opprimeva. Fu un bandito, un anarchico o un terrorista? Non sta la "vita" sopra alla "legge" quando in caso di estrema necessità bisogna fare uno sciopero affinché si ricordino i diritti non rispettati o usare una strada come mercato per vivere? È la legge, la volontà del governante, fondamento sufficiente per privare della vita i cittadini?

Sto difendendo dei principi e non criticando delle persone! Come in altre occasioni. Certamente, è razionale riconoscere che la vita ha maggior dignità della legge e della volontà di un governante che non ascolta , perché se ascoltasse avrebbe negoziato pacificamente la soluzione di un conflitto senza ricorrere all'uso sproporzionato della forza - la violenza è il contrario della parola nel raggiungere accordi. Se si vuole arrivare ad accordi con la forza sembrerebbe voler ripetere la politica dei crociati o della Guerra Santa dove si pretende di convincere con le armi l'altro del proprio credo, il che è contraddittorio perché: come otterranno l'accordo pieno e libero del rivale proponendo con violenza le proprie ragioni? L'unica maniera di giungere ad accordi politici, democratici, profondi, a lungo termine, è attraverso la discussione nella quale coloro che argomentano godano di simmetria: cioè, siano ammessi come uguali e liberamente (non sotto coercizione). Questo è democratico. Possono le pallottole distruggere i buoni argomenti del rivale? Qualcuno disse: "Le idee non si ammazzano", neanche i diritti. Può la coercizione illegittima (perché sproporzionata) dello Stato fondare la sua azione sulla legge quando la sta distruggendo nelle sue fondamenta (perché la legge è il frutto di accordi a partire da una discussione ragionata del Potere Legislativo, cioè dei rappresentanti dei cittadini, e non frutto di una volontà dispotica basata sui revolver della polizia)?

La situazione è grave. Nuovamente si usano le parole contro i loro significati. La vita ha dignità assoluta e fonda anche il valore della legge. Non si può usare la forza dello Stato pretendendo di applicare la legge contro la vita del popolo. La storia - che ha memoria, più di quella che alcuni governanti suppongono nella loro ignoranza - li giudicherà!

* Filosofo

Nota:
1) “Ascoltare chi si ha davanti” (ob-audiere) significa “obbedienza” in latino

(tradotto da Daniele - corrodan@freemail.it)

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