SE SI SVEGLIA IL VULCANO
di Gianni Proiettis - 12 luglio 2006

Città del Messico - Il Messico sta vivendo in queste ore la più grave convulsione sociale dal 1988 ad oggi. Allora, il Partido Revolucionario Institucional, un ossimoro longevo quanto il Pcus sovietico, forte della sua condizione di partito-stato, riuscì a deviare la storia nazionale portandola sul binario morto della continuità. Per perpetuarsi, il Pri scelse sfacciatamente la via della frode elettorale.

Non che l’avesse disdegnata in precedenza, anzi. Decenni di elezioni vinte a “carro completo” gli avevano fatto disegnare una complessa utensileria: la “urna embarazada”, l’urna già piena di schede prima della votazione; il “rasuramiento del padrón”, la misteriosa sparizione di votanti dalle liste elettorali; il “ratón loco”, la corsa disperata degli elettori in cerca di un seggio introvabile; la “compra de votos”, a volte con viveri o regali, spesso in contanti.

Ma quella volta, nel 1988, l’ingegner Cuauhtemoc Cárdenas, candidato dell’opposizione di centro-sinistra e figlio del presidente più amato del Novecento messicano, andava forte. Bisognava escogitare qualcosa di grande e nuovo. Si ricorse allora alla storica “caída del sistema”, un improvviso blackout che sospese il computo elettronico delle preferenze.

Mentre prima dell’interruzione il conteggio favoriva Cárdenas e il composito Frente Democrático Nacional che lo sosteneva, quando si riallacciarono i collegamenti Carlos Salinas de Gortari era ormai in testa e fu dichiarato vincitore. Anche allora, di fronte all’evidenza di brogli, il Frente chiese un nuovo spoglio delle schede, garanzia prevista dalla legge. Ma il Pan si associò al Pri, disponendone invece l’incinerazione in nome della “pacificazione nazionale”.

Quella mossa, con cui il Pri credeva di perpetuarsi al potere, servì comunque a mantenerlo alla presidenza per i successivi 12 anni. Nel 1994 non ci fu neanche bisogno di mettere le mani nelle urne. Bastò il “voto del miedo”, imperniato sull’insurrezione zapatista di gennaio e sull’omicidio di Donaldo Colosio, il candidato del Pri assassinato in marzo a Tijuana, che provocò un prevedibile “effetto simpatia”. Quella di Ernesto Zedillo, un grigio burocrate educato alla scuola neoliberale, fu l’ultima presidenza (1994-2000) del Partido Revolucionario Institucional. Poi, nel 2000, arrivò Fox, che era più simpatico a Washington degli impresentabili dinosauri priisti, e vinse.

Lo aiutarono certamente gli esperti di marketing politico e i capitali statunitensi, convogliati attraverso un’apposita associazione di finanziatori, gli Amigos de Fox. E il nuovo “presidente del cambio” corse subito, dopo la vittoria, a regalare un paio di stivali di sua produzione al presidente Bush. Qualcuno si domandò, in quell’occasione, se glieli avesse anche lucidati prima.

Nell’elezione del 2 luglio scorso hanno prevalso nuovamente gli interessi dell’onnipotente vicino, preoccupato dalla presenza di un “pericoloso populista” nella sua backyard di sempre. L’amministrazione Bush non ha lesinato aiuti alla candidatura di Felipe Calderón, espressione dell’estrema destra cattolica e degli imprenditori-finanzieri più rapaci e “malinchistas” tanto ammirati dagli strateghi neoliberali. Non è un caso che George W. Bush, che ha aiutato la campagna di Calderón con l’invio di consiglieri, sia stato il primo a felicitarsi con il nuovo “presidente”.

Quello che appare più grave – e meno previsto - sono le congratulazioni dello spagnolo Rodriguez Zapatero, che rappresentano una presa di posizione prematura in un processo ancora in corso, e la campagna informativa a favore della destra orchestrata dai grandi media internazionali, alcuni insospettabili. La Repubblica, per esempio, ha pubblicato un articolo senza firma, nella sua edizione in internet, intitolato “La destra vince le elezioni”, in cui si designa Felipe Calderón “presidente eletto” quando la stessa stampa messicana si limita a definirlo “virtuale presidente”.

Le “irregolarità” elettorali, commesse prima, durante e dopo la giornata del 2 luglio, continuano ad affiorare come cadaveri mal zavorrati. Una campagna di odio senza precedenti, che dipingeva Lopez Obrador come “un pericolo per il Messico” e a cui non era estraneo il consigliere aznarista Antonio Solá, è costata decine di milioni di dollari in spot televisivi. In un paese in cui la maggioranza non riesce a riempirsi lo stomaco e va a cercare lavoro negli Stati Uniti a rischio della vita. Nell’ultimo sessennio, ben quattro milioni di disoccupati hanno dovuto prendere il cammino dell’autoesilio da Foxilandia, il migliore dei paesi possibili secondo l’ex-gerente della Coca Cola.

Domenica 2 luglio, la parte più sofferente della società messicana sperava di voltare pagina recandosi alle urne. Li aspettava più di una brutta sorpresa. Migliaia di elettori che non hanno potuto votare per mancanza di schede o per un’inspiegabile cancellazione dalle liste, l’Instituto Federal Electoral che si è comportato come un qualsiasi arbitro venduto, milioni di voti spariti e poi improvvisamente ricomparsi - ma non tutti – proprio negli stati con una forte preferenza per Amlo.

Poi l’ultima, impressionante rivelazione. Il Pri ha “venduto” milioni di suoi voti al Pan grazie alla mediazione della potentissima Elba Esther Gordillo, soprannominata “la maestra assassina”, e alla complicità di vari governatori.

Andrés Manuel Lopez Obrador, candidato del popolo con i colori del Partido de la Revolución Democrática, fondato da Cárdenas dopo la sua sconfitta, ha riempito lo Zocalo domenica scorsa, contestando l’intero processo elettorale e chiamando alla resistenza civile pacifica e di massa. Il Prd ha addirittura evocato l’immagine di Gandhi. Sembrava la riedizione della lotta contro il “desafuero”, quando nell’aprile del 2005 più di un milione di persone – non necessariamente perrediste – avevano smontato una manovra per inabilitare Amlo alle elezioni. In Messico, il popolo si è ormai svegliato e, a quasi un secolo dalla Rivoluzione del 1910, somiglia sempre più a un vulcano prima dell’eruzione, per riprendere un’immagine di Elena Poniatowska.

Se Washington – e Enron, Halliburton, Walmart e la spagnola Repsol – pensavano di aver fatto un buon affare, avranno tempo per ricredersi. Intanto, la festa in borsa è rovinata. O quanto meno rimandata. Con un’elezione che puzza di scippo sarà difficile convincere i messicani a inghiottire quest’ultimo rospo.

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