il manifesto - 6.12.2006
Il volto di Calderon: breve storia del tradimento in Messico
Roberto Zanini

È un arresto a tradimento il primo vero atto di governo di Felipe Calderon Hinojosa, presidente insediato a viva forza di un Messico «così lontano da dio e così vicino agli Stati Uniti», come ebbe a dire il suo remoto predecessore Porfirio Diaz, che era un dittatore tremendo ma non uno stupido.

Attirare a Città del Messico e gettare in un supercarcere Flavio Sosa, suo fratello e un altro paio di capi della rivolta di Oaxaca è un gesto che si iscrive a buon diritto nella luminosa tradizione messicana di invitare il nemico a cena per negoziare e invece sbarazzarsi di lui. Insomma il tradimento, categoria che in Messico ha radici profonde e ottimamente conservate nella revolucion che con gli anni diventò istitucional e adesso è finita spaccando il paese come una mela. Dal padre della rivoluzione Madero che viene tradito e ucciso dal suo generale Huerta, il quale a sua volta viene costretto alla fuga dal suo generale Carranza, il quale Carranza manda i sicari all'appuntamento-trappola che uccide Zapata e ne fa una leggenda, e via così per tutto l'inizio del secolo che dissero breve.

In Messico quel secolo terminò con la sollevazione zapatista, quel capodanno armato del '94 e quello successivo che porta il marchio di un altro tradimento. Il tavolo del negoziato tra lo stato e l'Ezln era aperto, il vescovo di San Cristobal mediava stretto dai pochi borghesi e latifondisti delle montagne che prendevano a fucilate i suoi preti e volevano la sua pelle - quasi la presero, assaltando a sassate la sua chiesa - e il presidente Ernesto Zedillo che all'improvviso annuncia ecce homo, questa è la foto, Marcos si chiama Rafael Guillen Vicente e adesso le mie truppe andranno a prenderlo.

E le truppe andarono nella selva, spazzarono via i fragili posti di blocco dei guerriglieri-ragazzini che avevano il passamontagna ma non le scarpe, arrivarono a Guadalupe Tepeyac che era un paesino di poche case col tetto di lamiera, un ospedale che un programma elettorale aveva fatto arenare nella jungla messicana, le baracche di legno della comandancia zapatista e una strepitosa grande biblioteca proprio in mezzo alla foresta, che studenti-ragazzini venuti dalla capitale andavano componendo con regali di tutto il paese e di mezzo continente.

Quella biblioteca era una specie di miracolo subtropicale. Traduzioni in spagnolo di libri cinesi di quando Pechino riempiva il mondo di marxismi in edizione economica, vita e opere di Mao edite l'anno prima della morte del celeste presidente, un capolavoro della beat generation come «Trout fishing in America» finito nella sezione biologia perché chi lo conosce questo Richard Brautigan, e poi con quel titolo può mai essere narrativa? Quindi biologia, decretò un accidioso giovane studente pieno di zelo rivoluzionario. Poi arrivarono i blindati e gli elicotteri Cobra (dono nell'antinarcotici americana) a caccia di Marcos e le case di lamiera, le baracche di governo zapatiste, la biblioteca miracolosa bruciarono per tre giorni e tre notti. Il fumo si vedeva fuori dalla Selva Lacandona e una gigantesca macchia di cenere bollente fu tutto quanto trovarono i primi ardimentosi che osarono sfidare i posti di blocco dell'esercito messicano.

Marcos era fuggito, la selva si era richiusa benigna dietro di lui, ritornò dopo settimane con racconti di tregenda sulla paura, il sonno, la fame, la sete placata bevendo la propria urina. Ma aveva salvato la pelle e la sua sollevazione. Era il febbraio del 1996. Qualche anno dopo, il subcomandante sarebbe entrato nella piazza più grande di Città del Messico scortato da mezzo milione di persone.

Quella caccia all'uomo decretata dal presidente Zedillo era stata l'ultima puntata della storia messicana del tradimento. La trappola di Calderon rinnova una tradizione pestilenziale, dato fondativo di una presidenza appena nata che già mostra il suo volto peggiore. O forse il solo che ha.

 

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