il manifesto - 6 settembre 2006
Messico, il tribunale dice destra
Ultima, inappellabile sentenza sulle elezioni presidenziali: per lo 0,58% «vince» Felipe Calderon
Ma Lopez Obrador non ci sta, annuncia un governo-ombra e dice ai suoi sostenitori accampati in piazza da un mese: contare i voti non basta, bisogna rifondare il paese
Gianni Proiettis

Emessa ieri in seduta pubblica, la sentenza definitiva del «Tribunal electoral del poder judicial de la federación» sull'esito delle elezioni presidenziali del 2 luglio è tutto tranne che una sorpresa. L'imposizione del candidato della destra, Felipe Calderón, delfino del presidente uscente Fox e dei faccendieri del Pan, perpetrata attraverso un processo elettorale segnato da frodi evidenti, può esibire grazie a questa sentenza anche il crisma della legalità.

La decisione dei sette giudici suona come una dichiarazione di guerra civile. La faticosa avanzata del Messico verso la democrazia viene così bloccata dal tribunale elettorale e dal macigno degli interessi costituiti, che hanno fatto quadrato per mettere a segno quello che il candidato «perdente» della sinistra Andrés Manuel Lopez Obrador ha definito «un vero e proprio colpo di Stato».

Ma il Messico del 2006 non è lo stesso del 1988, quando Carlos Salinas de Gortari riuscì a usurpare la vittoria al candidato di centro-sinistra, l'ingegner Cuauhtemoc Cárdenas, grazie a un incredibile blackout del sistema elettorale di computo. Oggi, malgrado l'esistenza di un duopolio televisivo - Televisa e TvAzteca - ben piantato nel campo della destra, i messicani sono molto più informati e meno disposti a cedere all'imposizione di un presidente spurio. Il movimento che appoggia Lopez Obrador, il popolarissimo Amlo, conquista ogni giorno nuovi adepti ed è già passato dalle prime rivendicazioni - un riconteggio generale dei voti - a un programma molto più ambizioso: rifondare le istituzioni ed elaborare una nuova Costituzione.

È il clima politicamente soffocante a costringere Obrador e sostenitori a rivendicazioni così radicali. Il sessennio del presidente Fox, che si chiude fra meno di tre mesi, lascia una società polarizzata e un paese impoverito, in cui il narcotraffico è il primo dei poteri reali, l'emigrazione illegale verso gli Stati Uniti è a un massimo storico, il governo è ridotto a un comitato d'affari (spesso sporchi), la perdita della sovranità quasi completa. Per ciò che hanno già fatto e per ciò che si ripromettono di fare, il Partido de acción nacional, che ha conquistato il potere nel 2000, e il governo di Vicente Fox sembrano essere stati infiltrati dal Yunque, un'associazione segreta dell'estrema destra cattolica che sogna «il dominio mondiale delle milizie cristiane».

È questa destra, decisa a non mollare la presa e a perpetuarsi nel potere, che ha ideato e realizzato il piano per escludere Amlo e la sinistra dal governo, passando dalle montature giudiziarie alle campagne d'odio, senza trascurare i brogli elettorali e la corruzione di magistrati. A parte la «vittoria» di Calderon, il risultato a breve termine è che la credibilità delle istituzioni - specialmente quelle elettorali - è ormai nulla, la società messicana sembra contagiata dai germi dell'odio e dello scontro fratricida, e si rischia di portare il paese in una zona di ingovernabilità assoluta. Tutto pur di escludere «el señor Lopez» e le sue schiere di nacos, di cafoni, dalle stanze del potere.

Ma i tempi sono cambiati anche nelle istituzioni. Il nuovo Congresso, in cui Vicente Fox non è riuscito a entrare venerdì scorso per pronunciare il suo ultimo Informe a la nación, ne è una chiara mostra. La geometria parlamentare disegnata dalle elezioni del 2 luglio obbliga ad alcune riflessioni.

Sebbene il Pan abbia ottenuto il suo miglior risultato, passando da 148 a 206 deputati, il ridimensionamento del Pri - il partito-stato al potere per più di 70 anni, fino al Duemila - che si è ridotto da 201 a 104 seggi, e la crescita del Prd, che passa da 97 a 127 deputati, spostano gli equilibri politici. La sinistra, cui vanno aggiunti il Pt e Convergencia con 16 deputati ciascuno, dispone oggi di quasi un terzo della Camera e la destra non può governare da sola. Paradossalmente il Pri, per quanto declassato a terzo partito in un Congresso di 500 deputati, diventa l'ago della bilancia e, grazie alla sua centralità, potrà decidere se la prossima maggioranza parlamentare sarà di centro-destra o di centro-sinistra.

Le prime assegnazioni di cariche, in cui le presidenze delle due camere e le maggiori commissioni sono state sequestrate dal Pri e dal Pan lasciando fuori il Prd, malgrado sia il secondo partito, lasciano intravedere la direzione decisa per il prossimo sessennio: una diarchia conservatrice che mantenga sottomessa la sinistra e, anche a costo di scelte repressive, imponga l'approfondimento delle politiche neoliberali e completi l'allineamento alle posizioni statunitensi.

Non è una novità che gli interessi del Pan e del Pri coincidano - già ai tempi della presidenza Salinas (1988-1994) si era creato il neologismo «Prian» e si diceva che il Pri governava con il programma del Pan - ma oggi la saldatura fra i due partiti si scontra con l'esistenza di un movimento popolare di protesta di dimensioni inedite, su cui la repressione può avere lo stesso effetto della benzina sul fuoco. Non è affatto sicuro che al danno, rappresentato da un'elezione rubata, possa aggiungersi la beffa di un'imposizione sessennale.

E che i giochi siano ancora aperti lo dimostra il vigore di un movimento di resistenza civile che ha occupato pacificamente il centro della capitale per più di un mese e che denuncia con crescente vigore e sempre più prove la frode elettorale, convoca una convenzione nazionale basata sull'articolo 39 della Costituzione - «El pueblo tiene en todo tiempo el inalienable derecho de alterar o modificar la forma de su gobierno» - e si ripromette di riscattare le istituzioni dal sequestro di una minoranza avida e aggressiva.

Lopez Obrador ha già annunciato che il 15 settembre, giorno dell'indipendenza dalla Spagna, sarà il popolo a lanciare il tradizionale «grido», disputando lo Zocalo al presidente Fox, ma che permetterà la parata militare, pur giudicandola «noiosa», prevista per il giorno dopo. Amlo ha anche lanciato un appello alle forze armate perché non entrino nella disputa politica e disobbediscano a eventuali ordini di reprimere il movimento.

Fra i punti del suo nuovo programma spicca quello del diritto a un'informazione veritiera, costantemente violato dalla grande stampa e dalle due maggiori catene televisive, responsabili della campagna d'odio che ha avvelenato il clima elettorale. Un odio arrivato anche in formato esportazione: negli ultimi tempi anche la stampa estera - la statunitense e la spagnola in prima linea - ha presentato come «intransigente» il candidato della sinistra, invitandolo ad accettare il «verdetto delle urne» e a dissolvere il movimento che lo sostiene, in nome della pacificazione nazionale.

logo

Indice delle Notizie dal Messico


home