"Gli zapatisti non vogliono il potere, cercano la ribellione"
Intervista a Gloria Muñoz Ramirez di María Esther Gilio
30 giugno 2005

"Sono arrivata in Chiapas il 3 gennaio del 1994".

L'esercito zapatista aveva appena dichiarato guerra.

"Sí, io lavoravo da tre anni per Punto, un settimanale di sinistra, e dissi che avrei voluto andare in Chiapas per raccontare la guerra. Loro dubitavano. Gli dissi che, se non mi avessero mandato, avrei chiesto delle vacanze e sarei andata lo stesso. Alla fine mi mandarono. Arrivai in Chiapas e vi trovai centinaia di giornalisti di tutto il mondo. Quel giorno, inoltre, entrava in vigore il Trattato di Libero Commercio con Stati uniti e Canada. Gli occhi del mondo guardavano il Messico".

Già appariva Marcos come figura visibile?

"No, Marcos ancora non era apparso. C'era l'insurrezione, c' erano gli indigeni che insorgevano in armi per le loro rivendicazioni: democrazia, libertà, giustizia, indipendenza, terra salute, educazione, pace, diritti delle donne, diritti alla cultura e all'informazione".

Raccontaci del tuo arrivo e di come iniziasti a sistemarti. In questa zona, come penso, c'è la selva e ci sono villaggi indigeni situati nella selva.

"E c'è anche la montagna. Nella selva ci sono le comunità e nella montagna, l'esercito".

Quale parte del popolo appoggia gli zapatisti in Chiapas?

"Più della metà del territorio dello stato del Chiapas conta con una presenza zapatista. Quanto ai miei inizi lì, quando arrivai cercai contatti ovunque. Molto velocemente iniziai a notare le necessità".

In quale momento hai deciso di rimanere, o lo hai mai deciso chiaramente?

"Semplicemente, rimasi per tre anni. Raccoglievo informazioni e comunicavo per telefono con il mio giornale e con l'agenzia tedesca per la quale lavoravo. Poi tutto si risolse quando il giornale decise di farmi tornare, ma io non sono tornata, e sono rimasta. E allora mi hanno comunicato che eventualmente sarei dovuta uscire dall'organigramma del periodico, però se avessi voluto, avrei potuto continuare come collaboratrice, ed è ciò che accettai. Nel '94, '95 e '96 ho conosciuto varie comunità, mentre la mia base era San Cristóbal de Las Casas. Nel '96, già molto addentrata in questo mondo, ho deciso di passare due mesi in una comunità".

Eri l'unica bianca.

"No, meticcia. Io sono meticcia".

Si suppone che tutto il Messico è meticcio, no?

"Beh, non tutto. Ci sono gli indigeni, che sono il 15 per cento della popolazione".

Qual è la situazione del meticcio e dell'indigeno all'interno del Messico?

"Il Messico è un paese razzista, l'indigeno è richiesto, ma solo folcloristicamente. Tuttavia, a partire del 1994 le cose sono cambiate. C'è maggior rispetto. Ora non si può essere tanto cinicamente discriminanti ed escludenti".

Parliamo di come ti è andata rimanendo in comunità.

"A partire dal '96 iniziai a fermarmi sempre di più nella comunità zapatista indigena e ribelle. Uscivo solo per mandare gli articoli al giornale o all'agenzia tedesca, o per cercare un assegno o pagare qualcosa".

Quando dici "esco", cosa intendi?

"Vado a San Cristóbal de Las Casas, una delle sette città che occuparono gli zapatisti. Che occuparono, però non vi rimasero, poiché tornarono sulle montagne".

Presero la città per dimostrare che esistevano e potevano farlo. Da allora, ti sei vincolata sempre più con gli zapatisti.

"Poi ho capito che queste uscite - nemmeno così importanti- stavano interrompendo il mio processo di accettazione nelle comunità. Alla fine del '96 ho chiesto l'autorizzazione alla comunità zapatista per rimanere durante un tempo indefinito. Mi hanno detto di sì".

A questo punto già si era costruita una relazione.

"Sì, allora sono rimasta, senza sapere per quanto tempo".

Oggi si sa che sei rimasta altri sette anni e non prevedi una data di partenza.

"Sì, ho cercato di eliminare ogni tipo di pressione che avrebbe potuto spingermi ad andarmene".

Raccontaci come si sviluppa la relazione tra chi decide e il resto. Mi sembra sia un punto di conflitto in quasi tutte le società.

"Allora, ti parlerò di due strutture zapatiste. Da un lato c'è la struttura politico-militare, in altre parole: gli accampamenti dei guerriglieri situati sulle montagne. Dall'altro esiste la struttura civile dell'organizzazione autonoma che costituisce le Giunte del Buon Governo. La prima, che si trova nelle montagne, è organizzata molto singolarmente".

Stiamo parlando dell'esercito.

"Sì, un esercito con tutto ciò che significa gerarchicamente parlando".

Cosa ha di particolare?

"Si tratta di un esercito che obbedisce ad un ordine collettivo, conosciuto con il nome di Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno. Questo comitato è costituito da rappresentanti indigeni di tutte le religioni".

Sarebbero loro a decidere nell'esercito? Vuol dire che....

"...che si tratta di un esercito munito di un organo supremo collegiale".

Dov'è situato Marcos in questo panorama?

"Marcos è il capo militare di quest'esercito, però non ha alcun potere di decisione su di lui. Egli obbedisce al comando collettivo indigeno".

Marcos ha una formazione piuttosto importante.

"È noto che ha una formazione molto buona, universitaria probabilmente. Però l'aspetto più evidente è la sua capacità di comuncazione. Il ruolo da interlocutore che ha svolto con il mondo esterno è molto interessante. E altrettanto lo è quello che svolge all'interno e che è diverso. A Marcos è attribuito il ruolo di portavoce ed interlocutore. È lì che lo fanno parlare. Spesso lo fanno anche tacere".

In quale caso gli dicono di tacere?

"Quando i partiti politici in Messico votano una legge contraria al riconoscimento dei diritti e della cultura indigeni, c'è un momento di silenzio, silenzio ordinato dal Comitato".

Si tratta di un silenzio strategico.

"Certo, tutte le vicissitudini di questi 11 anni sono piene di parole e silenzi, però il silenzio inteso in quanto parte della parola".

Chi ha inventato questa strategia tanto sofisticata ed efficace?

"È nella cultura indigena. Quindi, quando si dice che è stata un'invenzione di Marcos, certamente non è vero! Come sarebbero sopravvissuti altrimenti per 500 anni questi gruppi indigeni? Cinquantasei gruppi indigeni? Con un uso differente del tempo, con un uso del silenzio e della parola, con l'uso del fuoco. Con una cosmovisione differente. Questo è ciò che li ha fatti permanere e resistere.
Si tende a ritenere Marcos il creatore delle nuove tecniche con cui vengono comunicate e pubblicizzate le cose nel movimento zapatista. È evidente che lui è un anello -ovviamente molto abile, molto intelligente- di una catena che proviene da molto lontano".

"Qual'è la virtù di quest'esercito? Aver saputo rispettare questo tipo di sapere. Non aver cercato di imporre cose che non hanno nulla a che vedere con la loro storia, la loro cultura".

Ho sentito a proposito di questa differenza nella valorizzazione del tempo, quando ho intervistato Rigoberta Menchú e lei mi parlò del "ritorno alla casa della madre". In tutti i movimenti che mi descriveva c'era un ritmo ed una pace che noi non conosciamo.

Come hanno fatto ad organizzarsi migliaia di persone senza far sapere nulla della propria esistenza se non dopo diversi anni?

"Dal 1983 al 1993 si sono organizzate clandestinamente".

Puoi immaginare mille, diecimila, decine di migliaia di persone che mantengono un segreto per dieci anni?

"Sono stati dieci anni di preparazione senza conoscere una data precisa. Sapevano che in un dato momento avrebbero iniziato ad agire, però non sapevano quando.
Si preparavano con questo uso del tempo differente. E nessuno sapeva niente, nessuno in Messico, tranne loro. Quando apparvero ci colsero di sorpresa".

Apparvero il primo gennaio del 1994. Quale fu la prima cosa che fecero?

"Occuparono i sette municipi principali. Quando arrivai, il 3 gennaio, stavano nel punto più cruento della guerra".

Che si è fermata e ripresa diverse volte.

"Però oggi continua. Per capire questo movimento è fondamentale sapere che le questioni si affrontano e risolvono in modo orizzontale".

Vuoi dire che si risolvono sempre nelle assemblee.

"Sì, e ciò significa che la discussione può essere eterna perchè non hanno fretta. Continua fino a quando non ottengono il consenso. Allora si decidono la guerra e le altre questioni".

Vuol dire che le cose possono decidersi in venti minuti o in tre giorni.

"O spesso in un mese".

Un mese a discutere.

"Loro dicono: 'Perchè dobbiamo risolvere oggi qualcosa che condiziona tutta la nostra vita?'. E così e basta".

Noi viviamo ossessionati dall'idea che è necessario approfittare del tempo. E ciò forse dipende dalla nostra relazione con la morte.

"Questo è un movimento per la vita. Ha un grido: 'Viva la vita, che muoia la morte'. Si tratta di un movimento che lotta per la vita, la vita con dignità, non per sopravvivere. Perchè sopravvivono da cinquecento anni".

Quale sarebbe la dignità a cui aspirano?

"Loro non credono che il problema si risolva con scuole, ospedali, strade. Che si risolva con il rispetto dei diritti. Sono stati presi in giro per moltissimi anni e ora vogliono essere ascoltati. Dicono: 'Noi vogliamo scegliere il nostro proprio destino. Vogliamo scegliere per noi stessi. E questo non si risolve attraverso la costruzione di una clinica o di una scuola, o un allevamento di polli'. Le parole dignità, rispetto, possiedono una forza molto grande... Si tratta di una lotta che non terminerà".

Il fatto curioso è che rinunciano a prendere il potere.

"Chiaramente non è il potere che gli interessa. La loro lotta è per le ribellioni permanenti contro il potere, di chiunque esso sia".

Il loro obiettivo è dunque di ottenere una vita degna che non sia rappresentata da strade, ospedali o scuole. Come si raggiunge tale obiettivo?

"In questo momento si stanno dedicando alla costruzione di un'alternativa politica che tenga limitazioni territoriali e uno spazio temporale. Dicono: 'Noi stiamo facendo questo ora. Non si tratta di unificare la resistenza, né che l'intero paese rispetti il nostro esempio, noi diciamo: Non seguitelo'. Ognuno deve seguire la sua propria esperienza, la sua propria storia".

-Però Dio mio, da dove esce tanta saggezza?

"Da questa organizzazione che resiste tutti i giorni.
Dalla sua cosmovisione. Loro dicono 'Noi non stiamo inventando niente'. E quando qualcuno dice agli zapatisti: 'Questa è una nuova esperienza politica', gli zapatisti rispondono che non è vero, che questa è solo la punta dell'iceberg che permette di vedere ciò che sta più in basso".

In definitiva che fanno i differenti gruppi ? Come uniscono le forze?

"Cercano di gemellarsi con il resto delle lotte del paese senza unificarle. Si scambiano le esperienze. Ottengono una forza che aspira costantemente a resistere al potere e a obbligarlo a guardare in basso e a sinistra".

C'è qualcosa di sorprendente in Messico e nella politica messicana: il livello di corruzione dei governi.

"Le forme di controinsurrezione che il governo crea funzionano male perchè la catena di corruzione è così grande che impedisce alle azioni stesse di concretizzarsi. Da 12 anni il governo sta cercando di annientare il movimento attraverso differenti programmi. Nei pressi delle comunità ci sono almeno 60 mila soldati".

E quante persone vivono nelle comunità?

"Più di centomila tra donne, uomini e bambini organizzati".

E hanno armi con cui difendersi dall'esercito.

"Ci sono inoltre milizie nei villaggi. Gente ben preparata per combattere. In più, c'è l'esercito che vive nelle montagne".

Sintetizzando: quale sarebbe oggi la proposta del movimento zapatista?

"Estendere la resistenza in tutto il territorio, senza unificarlo. Rafforzare i movimenti di autonomia e autogestione. Non solo nelle comunità ma anche nei quartieri, nelle fabbriche, nei differenti settori della società".

In questo momento cosa stanno facendo concretamente?

"È ciò che molta gente si domanda. Questo è l'aspetto più interessante di questo tipo di movimenti, la sua invisibiltà. Non si tratta solo della tua domanda, tu sei lontana, però nemmeno in Messico si sa cosa stanno facendo gli zapatisti. C'è gente che si domanda: 'Esistono?'"

E allora? Cosa stanno facendo?

"Si trovano in un momento molto vivo, anche se molto invisibile. Stanno organizzando il proprio territorio nella salute, nell'educazione, nel commercio, nella giustizia. E tutto in modo autonomo. Così si fa reale la proposta di creare un governo dal basso verso l'alto".

Bene, questo è importantissimo. Raccontaci.

"Iniziamo dall'educazione. Non vi è nemmeno un peso del governo, che sia municipale, statale o federale".

Da dove proviene il denaro?

"Per cominiciare, dall'organizzazione interna. Alla quale si aggiunge l'aiuto nazionale e internazionale. Però nemmeno dipende solo da questo aiuto, perchè ci sono ancora scuole senza pareti nè tetti".

Spiegaci meglio cosa sono questi aiuti.

"Per esempio, arriva un medico e dice: 'mi fermerò qui 15 giorni, ogni tre mesi, per visitare la gente della comunità'. O arrivano e dicono: 'Prepareremo un gruppo di promotori della salute'. O un gruppo di studenti e di educatori che si offrono per dare lezioni. I promotori dell'educazione sono indigeni scelti nelle rispettive comunità per abilitarsi e andare in altre comunità, non per impartire conoscenze ma per costruire conoscenze. I programmi di salute ed educazione non si ripetono. Tutto si va creando, costruendo".

A partire da che?

"Da ciò che già esiste e da ciò che è scomparso".

Vuoi dire che stanno cercando di ricostruire la propria identità.

"È qualcosa di importante: cercando di non perdere il vincolo con il mondo esterno. Ovvero, non sono chiusi nella loro propria esistenza, nel loro proprio essere indigeni, non rivendicano la purezza indigena e basta.
No, tutto al contrario. Rivendicano la relazione con il mondo esterno. Gli zapatisti del 1983 non sono gli stessi zapatisti del 1994 nè quelli del 2005".

In cosa si differenzierebbero quelli del 2005?

"Questi zapatisti sono la loro e la nostra costruzione".

Vuol dire che accettano cose di questo mondo che non è il loro.

"Sì, sì, le accettano. E inoltre rifiutano alcune cose del loro. Per esempio, la condizione della donna. Non vogliono la situazione patriarcale che ha relegato e oppresso la donna durante i secoli passati. 'Questo non ci serve', dicono le donne. E cercano di lottare per ottenere uno spazio tutto loro. Però non a partire da ciò che gli altri possono dire dal di fuori ma a partire da loro stesse. Pensando a ciò che hanno e ciò di cui hanno bisogno. Le loro rivendicazioni non sono le stesse della donna urbana. E nemmeno è uguale il modo di rivendicare i proprio diritti. Non hanno il ritmo che le donne urbane vorrebbero. Né il loro tipo di esperienza. Ti racconto un episodio concreto. È giunto un gruppo di donne femministe urbane che volevano essere appoggiate nella lotta per i loro diritti. Le donne zapatiste le ascoltano e dicono che capiscono quella lotta, pero vogliono raccontare la loro storia. 'Se noi rimaniamo incinte e andiamo a raccogliere la legna e perdiamo sangue durante il tragitto, noi puliamo e continuiamo. Noi non vogliamo abortire, vogliamo avere i nostri figli. Allora, la nostra prima rivendicazione è la salute. Sicuramente, più in là accompagneremo la vostra lotta per la legalizzazione dell'aborto. Ma ora, vogliamo che i nostri figli siano in buona salute'".

Che hanno detto le femministe?

"Alcune hanno capito e altre no".

Parliamo di educazione. Cosa c'è di nuovo riguardo a ciò?

"Tutta l'educazione è marcata da quelle 13 domande di cui ti ho parlato. Si sta costruendo dal basso verso l'alto e ogni programma è distinto. Non c'è un sistema di educazione zapatista, non c'è un manuale nè un ricettario. Ogni regione costruisce il proprio".

Dove studiano storia? Deve essere difficile accettare la storia scritta da coloro che li hanno emarginati da centinaia di anni.

"Vedi. Essi dicono: 'Inizieremo con la nostra propria storia'. Perciò hanno cominciato a intervistare i più anziani affinchè questi raccontassero da dove provenivano. Perchè questi popoli, spesso, si sono trasferiti da un luogo all'altro in cerca di terre. Migrazioni che si sono svolte 50 anni fa e che, se non vengono subito raccolte, possono perdersi. Allora vanno, li intervistano, fanno dei libretti, li fotocopiano, li rilegano e questi sono i primi testi di storia. Un'altra differenza riguarda la lingua.
L'educazione ufficiale prende in considerazione solamente lo spagnolo. La comunità zapatista è bilingue, e a volte trilingue. Così, nelle scuole si è soliti ripetere la stessa frase due o tre volte. In spagnolo e in una o due lingue indigene. La radio trasmette il 70 o 80 per cento in lingua materna, a seconda del luogo da cui viene trasmessa e il resto in spagnolo".

E che trasmette? Solo tematiche locali?

"Certo che no. C'è un interesse internazionale molto forte. È un movimento che si apre. Un anarchista catalano, con i capelli lunghi e un orecchino all'orecchio è un fratello, un contadino greco, è un fratello, un sindacalista 'gringo', è un fratello".

Non si chiudono nella loro cultura.

"No. Questo atteggiamento verso il mondo esteriore permette di evitare fondamentalismi. Inquiniamo e siamo inquinati".

Che bella parola per esprimere ciò che sta succedendo. Ora, che succederà tra un po' di tempo, come veranno considerati dentro il Messico?

"Ciò che vogliono è ricostruire la nazione incluendo la popolazione indigena. 'Siamo stati esclusi per centinaia di anni. Ora, mai più un Messico senza di noi', dicono".

Quando gli zapatisti si riferiscono alle altre minoranze che, come loro, sono escluse, menzionano sempre gli omosessuali e le lesbiche. Questa accettazione ha a che vedere con la loro cultura o si tratta di qualcosa di acquisito?

"Lo hanno costruito. Condividono a partire dall'esclusione che entrambi soffrono. Senza pregiudizi. C'è una comunità indigena fuori dal Chiapas dove l'omosessualità è molto rivendicata. Lì governa l'inclusione e il rispetto alla differenza. Pero dicono 'l'inclusione non arriverà dall'alto. Noi dobbiamo rifondare la nazione attraverso la nostra presenza'".

Raccontaci un po' della difficile relazione con il governo. Su quei colloqui che finiscono sempre con la frustrazione degli zapatisti. E di tutto il mondo.

"Non si tratta solo del governo ma anche di tutta la classe politica".

Leggendo il tuo libro si nota la quantità di occasioni in cui gli zapatisti furono ingannati, traditi.

"Gli zapatisti giungono a un dialogo con il governo rispondendo a una domanda della società, la quale condivide le richieste degli zapatisti, però non è d'accordo con la guerra. Questo gli zapatisti lo ascoltano e si fermano decisi ad intraprendere un cammino differente, però senza consegnare le armi. Così decidono di iniziare i dialoghi con i settori della società - contadini, operai, studenti- ed anche con il governo. In questo incontro con il governo si dà l'ipocrisia, la simulazione e il tradimento".

Gli zapatisti si sono fidati.

"No, non si sono mai fidati. Hanno sempre usato cautela, tutta la precauzione, senza aspettarsi niente, dando però un'oppportunità alla parola".

Si è visto chiaramente il tradimento del governo?

"Ormai la gente non può dire un'altra volta: 'Negozia con il governo', perchè hanno negoziato e sono stati traditi. Però la gente non si sbaglia, capisce perfettamente cosa è successo e appoggia. A volte in modo invisibile, senza manifestarlo nelle strade, però appoggia. Si vede in ciò che fa un gruppo di pescatori o di prostitute. O in ciò che rappresenta un quartiere. È un altro tipo di appoggio, meno visibile però più reale".

Come sono in questo momento le relazioni con il governo?

"Non c'è nessun avvicinamento con il governo federale, non c'è un negoziato nè un dialogo. Tutto è sospeso. C'è invece una coesistenza a livello municipale. Perchè con i municipi si condivide buona parte del territorio. Essi sanno, perchè gli zapatisti in molti modi glielo fanno sapere, che non potranno governare senza di loro. Puoi vedere come avviene uno scambio e un dialogo tra i governi municipali ufficiali e i governi autonomi zapatisti. E puoi vedere alla fine, dopo un accordo, un documento su cui ci sono le firme di entrambi i governi".

Tratto da Pagina 12
[traduzione a cura di Fabio Bianchi e Francesca Fanali]

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