da il manifesto del 23 novembre 2005
ZAPATISTA DALLA ZETA ALLA A
di Gianni Proiettis

San Cristóbal de Las Casas - Con l’inizio della nuova campagna, che dal 1º gennaio 2006 porterà il subcomandante Marcos e altri delegati in giro per il Messico – poi, forse, anche all’estero – si apre una seconda fase nella vita dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

Per il movimento messicano che fa riferimento allo zapatismo – e, parallelamente, per il movimento no-global che si incontra nel FSM – è arrivato il momento di mettere la seconda, di impegnarsi nel salto di qualità. Immanuel Wallerstein, di passaggio qui in Chiapas nel giugno scorso, all’epoca della alerta roja, l’aveva previsto come parte di un processo di crescita, indispensabile per superare la stasi del presente.

Di fatto, gli zapatisti era un bel po’ che se ne stavano zitti e buoni, vivendo la loro autonomia, applicando gli accordi di San Andrés. Nei due anni di funzionamento, le Juntas de Buen Gobierno installate nei cinque Caracoles si sono guadagnate un grande prestigio per la loro incorruttibilità, tanto che anche molti non zapatisti ricorrono alle loro istituzioni per questioni di giustizia, istruzione, salute.

In fondo alla Sierra de Corralchén, vicino al Rio Jataté, il municipio autonomo La Garrucha, a partire dal 15 settembre, giorno dell’Indipendenza, ha visto affluire visitatori da ogni angolo della Repubblica messicana e anche da altri paesi. Venivano per partecipare a un’inconsueta assemblea di fine settimana: il decollo ufficiale della otra campaña, annunciata dalla Sexta declaración de la selva lacandona.

Terra promessa, ultima frontiera

Negli anni ’60, Jacques Soustelle aveva fatto conoscere all’Europa, grazie a Les quatre soleils, l’esistenza e le immagini dei lacandón, presentati come i più puri discendenti dei maya, sopravvissuti alla Conquista e rifugiati nella giungla, ridotti ormai a poche centinaia. L’immagine romantica di un piccolo popolo indifeso e in via d’estinzione è stata smentita dalla piega degli ultimi decenni: i lacandón si sono avvicinati al governo, si sono beneficiati di decreti che li dichiarano legittimi proprietari dell’immensa selva lacandona, ricevono royalties per l’estrazione del legname, sono proprietari di resort di lusso.

Finiti i tempi delle monterías descritte da B.Traven, gli accampamenti per disboscare foreste centenarie dove la vita di un indio valeva meno di quella di un cavallo. Ma è proprio dagli anni ‘60-‘70 che questi enormi territori, ormai privi delle gigantesche caobas originarie, vedono affluire una crescente ondata migratoria. Quell’ultima frontiera è utilizzata dal partito al potere – l’eterno Pri – come valvola di sfogo per numerosi conflitti agrari. Chi perde le sue terre per colpa di un potente, o chi non ne ha mai avute e le necessita, potrà tentare la sorte nella selva lacandona. A volte perfino con titoli di proprietà.

L’aver decretato che i selvatici lacandón, ancora oggi riconoscibili dalle loro tuniche bianche e dai lunghi capelli incolti, sono i legittimi proprietari della regione equivale a considerare abusivi tutti gli altri insediamenti creati in questi decenni. Illegali, quindi sgomberabili. A partire dai più recenti, come quelli dei Montes Azules. Con alcune comunità il governo è riuscito a negoziare la riubicazione, con altre, più politicizzate o apertamente zapatiste, la situazione è di stallo.

Il piano ufficiale è chiaro: riservare quell’ultimo paradiso all’ecoturismo di lusso, attraverso operatori come Conservation International. E all’estrazione di risorse biologiche, nuovo oro dell’eterna Conquista.

Una storia di resistenza

Nelle cañadas, le valli fra le montagne della selva ad est di Ocosingo, approdano intere comunità inseguendo un sogno e trovando una durissima realtà. La Lacandona diventa il crogiuolo di nuove identità, comunità eterogenee che si fondono al calore della lotta per la sopravvivenza. Sognano di fughe dall’Egitto e di terre promesse ma sono disposti a lottare per i propri diritti, come insegna la teologia della liberazione. Credere in Dio e in un Cristo indio non impedisce loro di organizzarsi in combattive associazioni autonome.

Lo storico Jan De Vos, che ha scritto la migliore storia della selva lacandona, vede in quelle terre, e soprattutto in quelle comunità, l’ambiente ideale per la nascita dello zapatismo. Preceduto da altri gruppi di “salvatori” che pretendevano di addottrinare le comunità al vangelo foquista della rivoluzione, il drappello dei fondatori dell’Ezln approdò nella selva nel 1983, con un programma che sembrava copiato dai quaderni del Che.

Per fortuna, invece di insegnare agli indigeni – in maggioranza tzotzil, tzeltal, chol e tojolabal – le bontà del marxismo-leninismo, quei guerriglieri universitari venuti dal nord si lasciarono conquistare dalla cosmovisione maya. Chi insegna a chi? Se si considera che l’ultimo ridotto maya sul lago Peten-Itzá fu preso dagli spagnoli nel 1696 e che la prima rivolta indigena scoppiò in Chiapas nel 1712, bisogna riconoscere in questo popolo, ancora oggi forte e in piena ripresa, un grande maestro di resistenza.

E per fortuna che è andata così. Se non fosse stato il vecchio Antonio a indottrinare il subcomandante Marcos, se non si fosse prodotta la simbiosi fra la saggezza millenaria e la visione del primo e le capacità organizzative e strategiche del secondo, il sogno zapatista non sarebbe ripartito in forze dalla selva lacandona, non avrebbe mai fatto il giro del mondo. Il primo miracolo dell’Ezln è quello di nascere e crescere nelle cañadas della selva restando completamente segreto per dieci anni.

Quando esce alla luce del sole, il 1º gennaio 1994, prende sette città del Chiapas, fra cui San Cristóbal, e dichiara guerra all’esercito messicano, denunciando come illegittimo il governo di Salinas de Gortari. La festa per l’entrata in vigore del Tlc – il trattato di libero commercio fra Messico, Stati uniti e Canada – è irrimediabilmente rovinata. E le immagini dei maya armati e dei loro passamontagna conquistano per la prima volta l’attenzione della società civile planetaria.

Marcos fa il gioco del Pri?

Da quella storica irruzione sulla scena, che aprì una nuova stagione di movimenti antisistemici da Seattle a Porto Alegre, l’Ezln ha dovuto sopportare una guerra di bassa intensità, la militarizzazione del Chiapas, i tradimenti del governo in piena trattativa, le stragi affidate a corpi paramilitari e un’incessante campagna di diffamazione. Tre successivi governi si sono rifiutati di ratificare gli accordi di San Andrés, che sanciscono il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni, e il governo di Vicente Fox, che aveva promesso di risolvere il problema del Chiapas in 15 minuti, ha permesso nel 2001 l’approvazione di una ley indígena che beffava tutte le aspettative.

In quell’occasione, i tre poteri, ignorando la grandiosa mobilitazione popolare originata dalla marcha color de la tierra, fecero muro di fronte alla richiesta di un nuovo patto sociale e mostrarono al mondo il perdurante razzismo delle classi dominanti. Malgrado il ferreo assedio militare e la costante pressione, gli zapatisti hanno convocato una grande solidarietà internazionale in questi anni e, soprattutto, hanno prodotto cambiamenti irreversibili nella realtà messicana.

L’amministrazione autonoma delle loro comunità, coordinate dalle Juntas de Buen Gobierno, le loro iniziative catalizzatrici – la più recente, la otra campaña, diretta alla creazione di un fronte nazionale di lotta -, l’autorità morale acquisita in questi anni ne fanno un punto di riferimento primario per la sinistra extraparlamentare.

In un paese in cui tutto è peggiorato negli ultimi cinque anni – l’economia, l’ordine pubblico, la disoccupazione, l’emigrazione, il narcotraffico, la dipendenza alimentare, la dittatura delle multinazionali – il potenziale di lotta cresce di pari passo all’ingiustizia e alla scandalosa concentrazione della ricchezza. Gli zapatisti non credono nella speranza rappresentata da un governo del Prd, il Partido de la Revolución Democrática di centro-sinistra, per il 2006.

Forse lo sentono come una specie di governo dell’Ulivo. Gli attacchi di Marcos a Andrés Manuel Lopez Obrador, ex-sindaco della capitale considerato favorito nella corsa alla presidenza, lo indicano come un aggiornamento del progetto neoliberale.

La rotta di collisione con il Prd, un partito giovane ma già ampiamente screditato, ha provocato molte critiche agli zapatisti, che però non sono disposti a dimenticare il tradimento del gruppo parlamentare sul tema della ley indígena. Intanto, Lopez Obrador, che si era dichiarato “di centro” per captare voti moderati e simpatie statunitensi, dopo gli attacchi dell’Ezln, ha ripreso a definirsi di sinistra.


A SCUOLA DI DEMOCRAZIA

Trasmessa in diretta con un fluido streaming in internet, presieduta da una comandancia zapatista insolitamente disarmata, la prima assemblea generale della otra campaña è rimbalzata, nel fine settimana fra il 16 e il 18 settembre, dalla selva lacandona al villaggio globale. Ancora una volta gli zapatisti, dati per spacciati o in declino dai malevoli, riescono, dal loro anus mundi, a fare tendenza. E che tendenza.

Si tratta di un nuovo movimento sociale volto a creare un nuovo movimento politico-pedagogico di organizzazione e azione, che risponda, in Messico, alle rivendicazioni espresse da molti popoli e organizzazioni sociali che né il sistema elettorale né il sistema dei partiti né i regimi di governo includono nei loro programmi”.

A parlare così è Pablo González Casanova, il più radicale degli intellettuali messicani, sognatore di rivoluzioni. Da quando, nel luglio scorso, il subcomandante Marcos ha diffuso la Sexta declaración de la Selva lacandona, vi hanno aderito 162 organizzazioni sociali, 55 organizzazioni politiche – il solo requisito è che siano di sinistra e che non partecipino alle elezioni -, 453 fra ong, gruppi e collettivi, più di 60 organizzazioni indigene, 1624 persone a titolo individuale. Ma le cifre crescono in progressione geometrica. Sarà una valanga di lunga durata? Tutto lo lascia prevedere.

Frutto di una consultazione che ha coinvolto più di mille comunità nel giugno scorso, la Sexta declaración sancisce la necessità, per il movimento zapatista, di passare a una seconda fase. Di uscire in tutto il Messico, stato per stato, in un’assemblea itinerante – “dovunque saremo invitati”, dicono – che durerà sei mesi, dal gennaio al giugno prossimi, e prenderà il via da San Cristóbal de Las Casas nel Capodanno del 2006.

Il fine? Realizzare una sorta di “censo rivoluzionario”, prendere contatto con le altre realtà in lotta – “anticapitaliste, di sinistra, contro il neoliberismo” – e costruire una solida rete di resistenza. La coincidenza con la campagna elettorale (le prossime elezioni generali si svolgeranno ai primi di luglio del 2006) è voluta, ha spiegato il sup, per “mettere in contrasto” le due campagne, ma quella zapatista ha tempi molto più lunghi e obiettivi ben più ambiziosi della conquista di una presidenza.

La costruzione di un “programma nazionale di lotta” che inverta la svendita neoliberale della nazione, un nuovo processo costituente originato dal basso e soprattutto “la ricerca di un nuovo modo di far politica” sono le tre frecce dell’arco zapatista. Le armi vere, quelle da fuoco, questa volta non sono comparse. “Per rispetto alle autorità civili, perché nei municipi autonomi è proibito portare armi”, spiegano i comandantes. I fotografi si devono accontentare di un corpo di guardia che impugna bastoni.

Preceduta da sei riunioni preparatorie, la prima sesión plenaria è trascorsa continua, sotto un sole-giaguaro che ha dato passo alla pioggia, di fronte a circa duemila persone che rappresentavano centinaia di organizzazioni, ma è stata seguita da decine di migliaia di ascoltatori (attraverso il sito www.fzln.org.mx). “La reinvenzione della polis”, l’ha chiamata un euforico maestro di Oaxaca.

Gli interventi, con un limite di 5 minuti, si susseguivano ininterrottamente. Dagli anarcopunk della capitale ai delegati campesinos del Messico profondo, dai telefonisti zapatisti alle femministe anarchiche, ognuno diceva la sua, dimenticando con frequenza il punto in discussione. C’è stato chi ha denunciato la privatizzazione strisciante del petrolio, chi i persistenti feminicidios di Ciudad Juarez, chi ha diffuso manuali per montare radio libere.Una donna ha inneggiato alla costruzione dell’autonomia indigena, un anziano ha raccontato un mito maya dello Yucatán sul cordone ombelicale dell’umanità, un giovane ha proposto di reintrodurre la coltivazione preispanica dell’amaranto. Si è parlato di difesa delle lingue indigene, di liberare i prigionieri politici, di espellere gli agenti dei partiti dal movimento, di proteggere i gay dall’omofobia, di denunciare il machismo. Si è discusso sul posto da dare alle diversità. E c’è chi ha suggerito di cancellarle, in nome dell’unione nella lotta.

Il discorso, a volte, si tingeva di colori e termini antichi. Il nuovo è sempre fatto di pezzi vecchi, ricombinati con originalità. Con una pazienza da certosino, il sup fungeva da segretario, annotava il succo degli interventi e li sintetizzava alla fine di ogni punto. La consegna era “imparare ad ascoltare”. Pare facile. Era come una diga dinamitata. Dei primi 37 interventi, solo sette si sono pronunciati sul punto iniziale in discussione, che era l’agenda della otra campaña.

Uno dei dibattiti più interessanti, che l’assemblea zapatista condivide con il Forum Social Mundial e con la camera di consultazione italiana, è stato quello sulla struttura organizzativa da darsi e, sebbene tutti si siano pronunciati per l’orizzontalità, nessuno ha presentato una formula convincente o definitiva. L’assemblea non ha emesso documenti finali, molti aderenti alla Sexta declaración non erano presenti e il sup non ha voluto forzare conclusioni.

Se la trasmissione audio/video via internet, realizzata da Indymedia, dalla rivista Rebeldía e da radio KeHuelga, avesse consentito un feedback immediato degli ascoltatori, si sarebbe prodotta quella “comunicazione orizzontale”, teorizzata da Hans Magnus Enzensberger, primo passo verso la democrazia diretta. La strada è quella.


SPAZZATI DALL’URAGANO

L’uragano Stan, che ai primi di ottobre ha colpito il Chiapas con furia inusitata, ha lasciato intere regioni devastate e decine di migliaia di senzatetto. Molte comunità non sono ancora raggiungibili per via terrestre e contano solo su sporadici aiuti alimentari trasportati per elicottero dall’esercito. Alcuni villaggi sono letteralmente scomparsi dalla mappa, come la comunità zapatista Che Guevara, sommersa da una valanga di fango. Le coltivazioni di caffè, uno dei maggiori prodotti di esportazione del Chiapas, ci metteranno vari anni a riprendersi. I problemi più pressanti sono la mancanza di alimenti e il diffondersi di malattie respiratorie e gastrointestinali.

Mentre il grosso delle comunità riceve qualche aiuto, anche se tardivo e col contagocce, dalle autorità – che si sono invece adoperate con solerzia a ricostruire la zona alberghiera di Cancun, colpita dall’uragano Wilma – i municipi autonomi zapatisti, che rifiutano l’assistenza del governo, dispongono solo della solidarietà della società civile. Chi volesse aiutarli può farlo mettendosi in contatto con www.ezln.org.mx .

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