La Jornada - domenica 23 ottobre 2005
Isabela, base d'appoggio dell'EZLN, è morta sepolta: unico decesso accertato
SCOMPARE IL VILLAGGIO ZAPATISTA CHE GUEVARA AL PASSAGGIO DELL'URAGANO STAN

HERMANN BELLINGHAUSEN E GLORIA MUÑOZ RAMIREZ - Inviato e collaboratrice

Villaggio Che Guevara, Chis., 22 ottobre - Isabela, base d'appoggio dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), è morta sepolta dal ciclone Stan. Fino ad ora è l'unica morta zapatista accertata ma ancora non si è potuto raggiungere tutte le comunità autonome colpite.

"Non siamo riusciti a tirarla fuori. Era molto malata e non poteva camminare, è arrivata l'acqua e la terra ed è rimasta sepolta nel dormitorio dei promotori di educazione che in quei giorni tenevano i corsi", racconta José, uno dei 48 zapatisti disastrati che sono ora alloggiati in una piccola casa di mattoni di fango nel villaggio Belisario Domínguez, municipio autonomo Tierra y Libertad, nella regione della Sierra.

Di questo piccolo villaggio zapatista non rimane più niente. La finca La Paz, recuperata dagli zapatisti di questa regione costiera l'8 luglio del 2002, ora è distrutta. Si vedono solo i tetti dei depositi di caffé, dell'allevamento dei maiali, che era un progetto collettivo di recente creazione, e delle case delle otto famiglie che sono rimaste senza niente, letteralmente.

"Siamo scappati con quello che avevamo addosso; sono rimaste per strada perfino le scarpe. Abbiamo perso tutto" - dice Olga e poi Dolores prosegue il racconto: "Dalla mia casa vedevo precipitare tutto. Io stavo preparando la colazione per i miei figli, pensavo di aver tempo e in quel mentre una stanza ha cominciato a crollare ed allora siamo scappati".

Le basi di appoggio zapatiste della Sierra, meticce in maggioranza, sono poco conosciute all'esterno. È raro osservare la presenza ribelle in posti poco abituali, quasi urbani. Senza dubbio, è un'altra regione ed una storia diversa da quella degli zapatisti della Selva, del Nord o de Los Altos.

Roberto continua a spiegare l'incubo: "Il difficile è cominciato alle otto di sera. A quell'ora ci siamo riuniti tutti con i promotori: stavano facendo un corso. Dapprima ci siamo messi tutti nella cucina, poi siamo andati più in alto, in cima alla collina e lì siamo stati per 10 minuti. E poi siamo ancora scappati più dentro e attraverso i campi di girasole siamo arrivati fin dove ci ha accolto un uomo, che è priista, che ci ha trattato molto bene e ci ha dato cibo e vestiti".

Sono trascorsi sei lunghi giorni prima di poter scendere dalla montagna. "Adesso sì che gli indios sono morti. Gli zapatisti sono finiti", commentava la gente di Belisario Domínguez e della Unión Villa Flores, in maggioranza priista, osservando il villaggio Che Guevara completamente sepolto.

La tappa successiva è stata la chiesa di Belisario Domínguez: lì la loro condizione di zapatisti li ha costretti ad andarsene perché i disastrati del PRI si lamentavano che gli aiuti non stavano arrivando a causa della loro presenza. "Ma la verità è che non stava arrivando niente per nessuno, è solo perché volevano sbatterci fuori", assicura Guadalupe.

Gli zapatisti hanno lasciato la parrocchia e sono andati in una casa offerta da uno dei loro parenti. È lì che dormono ora, spalla a spalla, perché lo spazio è molto ridotto. Sono cominciati ad arrivare gli aiuti della giunta di buon governo (farina di mais, olio, un po' di medicine, riso, fagioli, eccetera), ma non sono sufficienti.

"Quello che più urge - dicono - è un ponte per poter ritornare al villaggio, poi costruire un edificio per dormire ed incominciare ad organizzare il taglio del caffé, ma non abbiamo dove seccarlo né sgranarlo".

Spiegano che, invece dei cortili per l'essiccazione useranno i tetti ancora buoni. "Ora dove siamo sicuri? Non c'è più un posto", segnala Fernando, convinto, come gli altri, che non torneranno a costruire nello stesso posto. "Si cercherà un posto nuovo, magari più in collina. Non sappiamo ancora", dice.

"La piantagione di caffé se l'è portata via l'acqua"

"Io vivevo qui" - dice indicando il terreno incolto Macario, sedendosi su una grande roccia lungo le sponde del fiume Belisario Domínguez, tra il corso d’acqua ed il terrapieno che fino a poco fa era la carrozzabile Comalapa-Huixtla. Siamo nel villaggio Unión Villaflores, sulla riva opposta rispetto a dove era ubicato il piccolo villaggio Che Guevara. Macario, maya mam, vive su questa sponda del fiume ed è anche zapatista del municipio autonomo Tierra y Libertad.

La devastazione in queste comunità e la vicina Belisario Domínguez è quasi totale, come lungo il tragitto da Mazapa de Madero fino a Tapachula e la costa chiapaneca. A giudicare dai cavi malridotti dell'unico e malconcio ponte di amaca che rimane nella zona e che permette oggi di attraversare il fiume, l'acqua deve aver raggiunto più di otto metri rispetto al suo attuale livello, dove corre orami veloce fino all'oceano Pacifico, cambiando varie volte di nome, "secondo dove va": río Negro, o Huixtla, per esempio. Con le acque del ciclone Stan sono andate perdute vacche, galline, cimiteri, coltivazioni, migliaia di alberi, colline, strade, ponti.

Davanti a noi si osserva quello che rimane di Che Guevara. Solo un pantano da cui emergono, tra rocce e fango, tetti di case quasi totalmente sepolte. Resta in piedi, con un grande squarcio in un lato e la metà volata via, l'aula del centro dei promotori del municipio autonomo.

Dopo aver attraversato il fiume, un ragazzo del villaggio commenta: "Quella che si vede lì è Fabiola, l'unico sopravvissuto degli animali". Indica un'asina legata all'ombra di un pezzo di tettoia dove conservavano i loro attrezzi e macchinari. "È corsa con noi sulla montagna, solo lei". L'animale ha accompagnato i contadini la notte del 4 ottobre quando riuscirono a risalire la ripida collina.

"Si è trattato di pochi minuti" – aggiunge - "Abbiamo visto la collina crollare improvvisamente. L'acqua e il fango sono arrivati dappertutto. Tutti, meno la compagna Isabela, sono riusciti a fuggire". Siccome non smetteva di piovere e la collina a crollare, la gente si è arrampicata fino alla cima ed è quasi crollata del tutto e stava per travolgere tutti.

Poco prima, Felipe aveva detto: "Qui, dove stiamo camminando adesso, c’era la coltivazione di caffé. Se l'è portata via l'acqua". Ancora una volta qui si vede solo un grande terreno incolto, una spiaggia di fango disseminata di tronchi spezzati di tutte le dimensioni. Percorrendo quello che sono state le strade del villaggio, basta chinarsi un po’ sulle ginocchia per toccare i tetti delle case che non sono finiti completamente sepolti sotto terra.

Gli zapatisti non accettano niente dal governo, ma quelli che lo fanno hanno ricevuto molto poco, commentano gli autonomi. La verità è che non si nota molto la presenza governativa a Belisario e Unión Villaflores. "Subito hanno portato alcune borse di provviste, un chilo di riso, un altro di fagioli, un litro di olio. Poi neanche più questo. Il governo ha installato una cucina 'per quelli che hanno fame', ma in realtà tutti si stanno aiutando fra di loro".

I macchinari delle imprese costruttrici private hanno continuato a farsi largo lungo la strada devastata ma da nessuna parte si vede che rimuovano le macerie dai villaggi. Gli uomini tagliano i tronchi con le motoseghe o rimuovono la terra che copre alcune case di Unión e Belisario, mentre le donne puliscono pavimenti e cortili dove è possibile. Anche se non è stata dichiarata ufficialmente così, questa è una zona disastrata. "Un giorno sono venuti i soldati dicendo di fare lavoro sociale, poi se ne sono andati via senza aiutare la gente", dice Felipe. Oggi rimane un distaccamento militare in Belisario Domínguez solo per vigilanza. L’unica attività evidente dei soldati è scattare foto ai visitatori.

"Siamo ad un punto morto", commenta un uomo adulto e osserva: "Quando le cose precipitano non c'è più tempo. Bisogna far attenzione con la natura".

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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