La Jornada - Giovedì 21 Luglio 2005
Sergio Zermeño
Che cosa vorrà dire oggi, in Messico, essere di sinistra?

Tanto il subcomandante Marcos come Cuauhtémoc Cárdenas hanno rimproverato ad Andrés Manuel López Obrador di non essere di sinistra, ed il primo estende la sua critica a tutto il PRD.

Sorge inevitabile la domanda: che cosa vorrà dire oggi, nel nostro paese, essere autenticamente di sinistra?

È ovvio che ci sono almeno quattro eredità dei modelli classici (alle quali supponiamo sia legato il termine "la sinistra") che non sembrano dirci più molto: uno, prendere il potere attraverso un atto violento rivoluzionario; due, stabilire un campo del conflitto che abbia per obiettivo spodestare la classe borghese del suo controllo sui mezzi di produzione e sostituirla come classe dinamica dello sviluppo; tre, organizzare un scenario di scontro che allinei, di un lato, in forma di accumulazione di forze, i settori sfruttati, emarginati, esclusi per affrontare le forze della dominazione economica, politica, mediatica e militare, nazionale ed internazionale; quattro, costruire una convergenza di volontà politiche che diventi Stato ed autorità e da lì redimere il nazionale, il popolare e le classi diseredate.

Il primo punto è fuori discussione, lo stesso zapatismo ha preso le distanze rispetto alla violenza ed, anche se si può argomentare che la storia delle collettività non è per niente aliena alle rotture, allo scontro ed il sangue, credo che più del 99 per cento degli abitanti di questo paese pensino che questa non sia la strada.

Il secondo punto è più semplice da capire, perché nelle nostre società è sempre più difficile trovare borghesi in carne ed ossa camminare sui marciapiedi, perché, tra l’altro, si tratta di paesi in processo di deindustrializzazione accelerata (tanto Cuauhtémoc Cárdenas come López Obrador si riuniscono con gli ultimi che rimangono, ai quali il capitale transnazionale non ha fatto ancora offerte irresistibili per vendere i loro affari) […]

Cosicché oggi, essere di sinistra vorrebbe dire, più che farla finita con la borghesia, ricostruire gli imprenditori dinamici intermedi ed in generale ricostruire gli attori sociali medi nelle loro organizzazioni lavorative, negli spazi urbani, nei bacini [...]

Il terzo punto, quello che ci hanno appena esposto lo zapatismo e Marcos nella Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona ha un senso ambiguo: ci dice che approfittando di questa epoca elettorale i diseredati devono rendersi presenti da tutte parti, indigeni, casalinghe, parroci, venditori ambulanti, studenti[...]) in consonanza con le confluenze altermondiste (intergalattiche), dove si riuniscono poderosi sindacati, raggruppamenti ecologisti, di genere, gay e lesbici, contadini, anarchici[...] perché partendo da questa accumulazione congiunturale si possa discutere un nuovo modo di fare politica […]

È ovvio allora che il tema che stiamo trattando ha a che vedere… con "la democratizzazione della democrazia". Ma questa non è una questione elettorale o di alcuni mesi: è una strada che richiede anni, nelle regioni del paese, nei caracol, come sanno gli zapatisti e come ce lo stanno insegnando.

Né la proposta di Cárdenas né quella di López Obrador hanno a che vedere con ciò, non sono proposte di ricostruzione né di valorizzazione degli attori civili come ci hanno dimostrato chiaramente i fallimenti nella partecipazione cittadina del Distretto Federale. Allora la questione non è se si è di sinistra o no, bensì se si vuole il potere per la società o per la politica. Questo sarebbe, in effetti, un cambio nella cultura dei messicani.

(ridotto e tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)

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