La Jornada 20 maggio 2005
Gilberto López y Rivas
IL FANTASMA DELL'AUTONOMISMO

Recentemente è stato pubblicato su "Socialismo o Barbarie" l'articolo di Claudio Katz "I problemi dell'autonomismo" in cui, a partire dalla critica alle idee di Antonio Negri e John Holloway, termina collocando in uno stesso concetto un insieme eterogeneo di prospettive teorico-politiche dei processi autonomistici. Dall'esperienza dei popoli indigeni non è possibile trovare concordanza con l'immagine delle autonomie creata da Katz ed il suo utilizzo generico del termine "autonomismo".

Non viene mai messa in dubbio la matrice classista imposta dal capitale né il tipo di Stato nel quale si muovono le lotte per le autonomie e, di conseguenza, la necessità di alleanze tra i movimenti indigeni con tutti quelli che prospettano riforme democratiche, contro il capitalismo e perfino per la costruzione di un nuovo tipo di socialismo.

Non è responsabilità dei popoli indigeni il poco interesse mostrato dai partiti e dalle organizzazioni di sinistra nella definizione di accordi per una lotta unica sul terreno politico, elettorale o di mobilitazione sociale. Ci sono esempi, alcuni tragici, dell'uso strumentale degli indigeni nei processi politici istituzionali e perfino in momenti della guerra rivoluzionaria.

I movimenti autonomisti indigeni non coltivano la resistenza popolare spontanea. Solitamente i loro movimenti sono preceduti di lunghe elaborazioni e, come dimostra l'insurrezione zapatista del 1994, dovettero trascorrere molti anni prima dell'esplosione della ribellione e fino ad ora non sono mai stati fatti passi che derivino dalla spontaneità o dall'avventurismo politico. Questo movimento dimostra il valore che si conferisce alla coscienza e all'organizzazione degli oppressi e sfruttati nella lotta contro uno Stato che vuole eliminarli e perfino distruggerli politicamente e militarmente.

Le forme di organizzazione politica della democrazia diretta sorte dai processi autonomisti indigeni non possono essere applicate come una formula che organizzi la società nazionale e lo Stato nei suoi molteplici ambiti e complessità. Tuttavia, è stata esattamente l'assenza di partecipazione della società e dei lavoratori in particolare nell'esercizio del potere ed il controllo statale che ha caratterizzato e, in parte, ha mandato in rovina l'esperienza del socialismo reale.

Sottolineando la partecipazione di tutto il popolo nelle giunte di buon governo, per esempio, non si vuole dire che queste forme di autogoverno si generalizzino o si idealizzino, ovviando alle sue limitazioni ed ostacoli imposti dalla contrainsurgencia e dall'avanzamento espropriante neoliberista.

Ciò nonostante, la sua esistenza negli spazi zapatisti è una realtà che dovrebbe motivare la sua analisi per concepire forme di organizzazione e partecipazione cittadine e popolari che sostituiscano la macchina burocratica che ignora i mandati delle maggioranze. In che modo può pregiudicare la lotta per la costruzione del socialismo difendere l'autorganizzazione e risaltare i valori solidali e comunitari?

Particolarmente nel caso dei maya zapatisti non si fa un'apologia della loro esperienza né si pone come un "modello da seguire" per la costruzione della società presente e futura.

Non è corretto estendere all'autonomia indigena la critica espressa da Katz secondo cui "gli autonomisti magnificano il ruolo degli esclusi a detrimento dei salariati tradizionali perché attribuiscono maggior peso alle relazioni di dominazione piuttosto che alle forme di sfruttamento", quando è esattamente l'etnomarxismo la prospettiva dalla quale si è insistito sul fatto che la dominazione basata su fattori etnici costituisce una forma concentrata ed addizionale dello sfruttamento capitalista, e questa corrente ha fatto opportunamente critica all'etnicismo, che in seno al movimento indigeno vuole stabilire una dicotomia insanabile tra il mondo indigeno (profondo) e non indigeno (immaginario), mettendo da parte l'analisi di classe.

Le autonomie indigene non ignorano lo Stato né il potere che esercita a partire dal monopolio della violenza legalizzata da un marco giuridico e "legittimata" da un'egemonia di classe. Da questa premessa, le autonomie sono considerate forme di resistenza e di formazione di un soggetto autonomo che si costituisce come interlocutore di fronte allo Stato e di fronte al quale impone una negoziazione, ma parallelamente, se questa fallisce, si costruirà l'autonomia di fatto. Per questo, le autonomie non si concedono, si conquistano attraverso cruenti sollevazioni e diffuse mobilitazioni. Gli autogoverni non sono considerati "isolotti libertari dentro l'universo capitalista".

In "Leggere un video", gli zapatisti segnalano chiaramente: "il nostro non è un territorio liberato né una comune utopica. Neppure il laboratorio sperimentale di uno sproposito o il paradiso della sinistra orfana". Gli indigeni non diffondono un'immagine idilliaca dei loro movimenti "supponendo che questi raggruppamenti avanzano saltando tutti gli ostacoli", critica di Katz che non sembra fondata sulla ricerca empirica né sulla conoscenza profonda dell'autonomia indigena. Nell'ampia bibliografia che ha consultato non esiste nessun testo scritto dagli stessi attori dell'esperienza autonomista. Per questo mi permetto di dare un consiglio: se si desidera discutere dell'autonomia, sarebbe bene conoscere quello che esprimono direttamente gli interessati e non semplicemente confutare teorici che interpretano l'esperienza, i quali molte volte invece di arricchirla, l'impoveriscono. Naturalmente, se si vuole che il dibattito sia produttivo e non un concorso di appuntamenti scelti appositamente.

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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