La Jornada 19 agosto 2005
Pablo González Casanova
LA GRANDE DISCUSSIONE

Molti cittadini progressisti e di sinistra credono che le elezioni del 2006 siano come quelle precedenti. Pensano che lo Stato messicano è lo stesso di prima. Credono che il governo messicano ha la stessa capacità di risolvere i problemi che sembrava avere prima e che la cosa nuova è che ora un buon partito con un buon leader può ottenere con le elezioni il potere necessario per risolvere i problemi sociali e nazionali o, per lo meno, per frenare la politica neoliberista di privatizzazione e denazionalizzazione ed iniziare uno sviluppo simile a quello precedente; questo a patto che ci si accontenti di diminuire il numero di emarginati ed esclusi ma che non si fantastichi di eliminare l'emarginazione e l'esclusione e, neppure, di scontrarsi con il potere dei caciques e delle élite, né con i privilegi di cui godono le megaimprese transnazionali ed i loro soci. A queste convinzioni si aggiungono ragionamenti su quanto è politico e prudente e quanto è insensato o estremista. Con questa logica, i più cauti si limitano a proporre alcune misure sociali e a difendere alcune cause nazionali, mentre i più audaci o decisi cercano di formare fronti e blocchi nazionali sullo stile di quelli che in passato hanno guidato i leader populisti e le loro clientele civili e militari, tra alleanze tattiche e strategiche con quella che prima si chiamava borghesia antimperialista.

Tutti criticano con ragione una democrazia elettorale sempre più vuota di programmi ed idee e piena di immagini ed icone che vendono i candidati più attrattivi. I candidati, da parte loro, affrontano un dilemma: se dicono tutto quello che è necessario fare per risolvere i problemi minimi del paese considerano di perdere la possibilità di vincere, e se propongono di installare una nuova politica di difesa degli interessi sociali e nazionali, quando arrivano al potere si trovano a non avere né il potere di nominare i propri ministri né di lanciare una nuova politica di entrate fiscali né di disporre del bilancio di spesa senza dare priorità al pagamento del debito estero ed interno, e senza ricorrere ai consigli economici degli esperti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale i cui solidi argomenti devono soddisfare l'unica soluzione che viene lasciata loro: un piano transnazionale per pagare interessi ed importare beni e servizi - comprese le armi obsolete - dai paesi usurai; la liberalizzazione crescente dell'economia a beneficio delle cordate imprenditoriali che dominano dalla finanza fino all'agricoltura; lo stimolo agli investimenti stranieri che include concessioni ed esenzioni; la deregolamentazione del mercato del lavoro per aumentare la capacità di competizione del Messico abbattendo salari e servizi; il riequilibrio del bilancio attraverso la diminuzione del carico fiscale ai più ricchi e l'aumento delle imposte sul consumo che pesa sui più poveri; l'abbattimento contemporaneo dei salari "indiretti", privatizzando e commercializzando i servizi di salute, educazione, previdenza sociale, di cui prima beneficiavano nuclei importanti di lavoratori; privatizzare e denazionalizzare beni ed imprese nazionali, come alleggerimento al pagamento del debito estero, che ad ogni modo cresce, come incremento naturale della dominazione ed accumulazione delle grandi imprese agricole, industriali, di servizi, commerciali e finanziarie degli Stati Uniti e dei suoi grandi soci europei e messicani, ai quali va parte della torta globalizzatrice in cui si trovano accordi e trattati con calcoli dei costi della corruzione di funzionari pubblici, tutto ciò implica un indebolimento della morale e della forza dello Stato e del governo, processo a cui partecipano numerosi leader di partiti politici ed a volte la maggioranza o l'insieme dei loro portavoce.

Così, quando un candidato della sinistra arriva in questo tipo di governo e di Stato, politicamente, economicamente, monetariamente, finanziariamente e moralmente debole, si trova di fronte ad una chiara alternativa: o cade perché realizza un progetto nazionale che non è stato elaborato dalla Banca Mondiale, o cade perché le manifestazioni di collera dei cittadini e del suo popolo provocano il previsto problema di ingovernabilità, un problema che gli esperti cercano di risolvere con le nuove ricerche sulla governabilità e che i governi associati e dipendenti dei nostri ex paesi cercano di imporre combinando le politiche di cooptazione e corruzione con quelle di repressione e sterminio, entrambe focalizzate, applicate in punti chiave (e nient'altro) ed entrambe attente a mantenere il paese formale e la sua democrazia di élite corrotte e cooperative e di commercianti all'ingrosso.

La situazione è ben nota alla classe politica, e questa, sia di sinistra, centro o destra, più che essere attratta da una politica centrista, è sottomessa agli "adescatori" di una condotta "politicamente corretta", nella quale è ovviamente insensato, per esempio, esigere la cancellazione di un debito estero il cui importo è stato pagato dal paese più di otto volte. Siccome numerosi cittadini sono consapevoli anche di tutto questo e vivono sulla propria pelle le conseguenze, c'è un astensionismo in aumento che spesso supera il 50% dei messicani con diritto di voto, cosa che lungi dall'essere inteso come un indice della crisi che sta colpendo questa democrazia di pochi, con pochi e per pochi, riempie di allegria i neoliberisti paternalisti panisti ed i successori del populismo priista, con le loro rispettive politiche di asservimento e di clientele che caratterizzano le élite nel potere e nei partiti.

Date tutte le condizioni sopra indicate, la cosa logica delle forze progressiste e di sinistra sarebbe pensare che al margine della lotta politica e di chi cerca solo basi di appoggio per le elezioni, si deve organizzare, si voglia o no, una politica dal basso, con quelli che sono in basso e per quelli in basso... che addirittura salvi l'esistenza di "quelli in alto", perché la verità è che il sistema in cui viviamo è sull'orlo del precipizio finanziario, politico, morale, militare, culturale, educativo, sanitario, per non dire che vi è già caduto, almeno su molti terreni, fenomeno presente non solo su scala nazionale, ma regionale e mondiale, secondo i più seri ed informati esperti. Nonostante tutte queste circostanze, la logica delle forze progressiste e di sinistra continua ad essere molto simile a quella del passato e a quella dei blocchi o fronti nazionali che, paradossalmente, contribuirono a partorire quello che accade oggi tradendo le loro basi sociali ed accontentandosi delle loro reti di clientele e di protetti funzionali.

Inoltre, la vecchia logica dei fronti nazionali abbraccia oggi la coscienza ed i sentimenti anche dei dirigenti ed attivisti politici e sociali di numerose organizzazioni di base, con le loro strutture piramidali di popolazioni anche emarginata ed esclusa che crede nei suoi leader e partiti e nel carattere naturale e necessario del sistema politico e sociale; comprende anche importanti intellettuali, artisti e pensatori, giornalisti, editorialisti e caricaturisti, che nella migliore buona fede credono che ritornare alla posizione di sinistra degli antichi fronti nazionali e popolari sia la soluzione più indicata, non solo possibile ma desiderabile, per unire le forze di fronte al neoliberismo.

Controbattere alle loro posizioni e mostrare la debolezza delle loro convinzioni non è affatto facile. Insistere che il neoliberismo di guerra non corrisponde ad una strategia imperialista le cui politiche privatizzatrici, denazionalizzatrici e predatrici possano essere bloccate dagli stati, governi e partiti elettorali ereditati, indeboliti e modernizzati, risulta un'impresa talmente difficile che nessun ragionamento né argomento basato su queste tesi riesce ad arrivare alla gente o alle sue teste pensanti ed agenti se non è supportato da un movimento democratico che conti sulla forza organizzata dei cittadini e dei popoli. Ed anche cosí, è sicuro che ci si dovrà scontrare con le politiche più aggressive dell'impero - confessate e pubblicizzate o smentite da questo - come ne è la prova il caso del presidente Hugo Chávez, in Venezuela, che ha dovuto non solo ricorrere alle elezioni popolari più di otto volte, ma all'organizzazione democratica e sempre più autonoma della cittadinanza, cosa che gli permette di contare sull'immensa maggioranza di questa e delle forze progressiste civili e militari, in un nuovo progetto nazionale che per sostenersi deve approfondirsi, e combinare il carattere autentico di una democrazia con organizzazioni popolari, con i progetti di liberazione e socialismo, in cui si pensa ad un'altra democrazia, un'altra liberazione ed un altro socialismo che sfruttino le esperienze precedenti per essere più efficaci nel raggiungimento dei suoi obiettivi di libertà, giustizia, indipendenza, autonomia e sovranità.

In Messico il salto creativo è avvenuto su un sentiero diverso. La necessità di un'altra politica, di altri fronti e di altri blocchi è stata esposta dal Coordinamento Nazionale Contro il Neoliberismo, guidato dal Sindacato Messicano degli Elettricisti che comprende oltre 220 organizzazioni di massa e della società civile che in Querétaro, al principio del presente anno, ha approvato un "Programma minimo non negoziabile" che non ha meritato l'attenzione attiva e impegnata di nessuna forza elettorale progressista o di sinistra. Ma, più recentemente, gli zapatisti hanno commosso non solo il paese ma il mondo con la loro "allerta rossa" che ha preceduto la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, concordata da tutti i popoli indios del movimento maya ed in cui espongono la necessità di una nuova politica degli oppressi e sfruttati. Il progetto è di un'enorme creatività nella storia mondiale dei movimenti rivoluzionari.

La novità del progetto è molteplice. In questo si ritrovano, arricchite, molte delle esperienze precedenti della resistenza indigena, dei movimenti di liberazione nazionale degli anni 60 e 70, o di altri precedenti, e dei movimenti socialisti ed operai, specialmente le esperienze della resistenza e dell'insurgencia che non finirono con l'accettare l'indigenismo populista, né sfociarono nel populismo del capitalismo di Stato o si conformarono al parlamentarismo neoliberista dimenticando le loro identità originali, le loro lotte per l'autonomia decolonizzatrice, la liberazione nazionale di fronte all'imperialismo, la transizione al socialismo con la mediazione di una rivoluzione democratica (sic).

Il progetto de l'altra campagna e la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona comprende dunque una critica al sistema politico, una critica al sistema sociale ed una critica ai movimenti e forze che lottano nel sistema elettorale e nello Stato per un Messico meno iniquo, meno dipendente, meno oppressivo, meno corrotto; ma in cui tutte le loro lotte si incentrano in attività elettorali, parlamentari e governative, senza dare primaria importanza alla coscientizzazione ed organizzazione del potere della cittadinanza e delle comunità, etnie, popoli e dei lavoratori, impiegati, maestri, studenti, tecnici, laureati, dottori ed intellettuali.

Il progetto de l'altra campagna si scontra così sia con il sistema politico come con lo Stato egemonico e la forma di dominazione ed accumulazione capitalista preminente in Messico e nel mondo. Coscienti della portata di tale compito, i suoi promotori zapatisti riconoscono di essere come un piccolo villaggio di fronte ad una grande città che è il mondo. Nello stesso tempo ci ricordano, nel caso l'avessimo dimenticato, che: "Siamo professionisti della sopravvivenza allo sterminio", verità entrambe che completano con un programma di lotta con le richieste ed obiettivi che hanno già presentato di "educazione, casa, salute; di libertà, giustizia e democrazia", e di rispetto di tutte le religioni, ideologie e civiltà, delle sovranità ed autonomie dei popoli, a cui aggiungono le lotte per una morale ed una cultura della solidarietà che si inserisca nella lotta per il socialismo e la sostituzione di una politica economica in cui prevale la logica dell'accumulazione e l'arricchimento privato e personale per un'altra in cui i popoli organizzati si articolino in reti o "caracoles" ed esercitino il potere con giunte di buon governo che "comandino ubbidendo", o con altre strutture ed istituzioni che, in ogni caso, rendano effettiva la democrazia, la libertà umana e la giustizia sociale in alcuni angoli della Terra, con la riserva di collaborare per la sua diffusione per contagio morale in tutta la Terra e da tutti i popoli della Terra, cioè, da "tutti i mondi che sono un mondo".

Il subcomandante Marcos cita le parole di un indigeno di Città del Messico che disse: "La gente pensa che siamo mostri. Pensa che siamo gente che non pensa". Ma che pensino, pensano, e quelli che camminano nell'altra campagna sanno molto bene che stanno intraprendendo una strada lunga e pericolosa, ma l'unica che resta all'umanità per sopravvivere: organizzare la forza e la coscienza dei popoli della Terra, incominciando ora con i popoli indios e "da lì avanti" fino ad incontrare gli altri nella confluenza dei sentieri di Messico, America Latina, Stati Uniti e mondo.

Nella grande discussione, con le sue cerimonie di iniziazione, di tutte le critiche la più difficile è quella che cerca di precisare l'identità di chi intraprende l'altra campagna. Facendolo, i portavoce indios, compreso Marcos, rivivono la discriminazione ed il rifiuto, il rimprovero paternalistico, l'appello integrazionista caratteristico delle politiche di assimilazione del Messico e del mondo colonialisti, predatori, espansionisti, razzisti, in cui perfino i socialisti, i marxisti, i rivoluzionari, i lavoratori, i poveri urbani - come gli inglesi del XIX° secolo di fronte agli irlandesi - si sentono lavoratori o poveri, rivoluzionari o marxisti, o socialisti ma "inglesi" e, nel nostro caso, messicani per antonomasia, per eccellenza, "di per sé", che "non vedono l'Altro della periferia", il discriminato, il rifiutato, il negato, salvo quando è, come diceva una proprietaria terriera yucateca, "un indio eccitato", ed in questa categoria collocano tutti quelli che violano la complicata "etichetta coloniale" a cui si riferiva K. N. Panikkar con queste parole: "nelle società coloniali - scrisse - c'è una complicata etichetta che segnala i termini in cui ci si deve e ci si può rivolgere ai differenti gruppi sociali; il grado di cortesia o di volgarità accettabili; il tipo di umiliazioni che sono naturali".

E la stessa cosa accade con i politici ed intellettuali "bersagli" del Messico - come piace che si dica al poeta Bañuelos - che oggi vivono in una polis in cui la calunnia, la volgarità, il pettegolezzo, l'ingiuria, l'aneddoto, lo scandalo di moda, sono cosa di tutti i giorni senza che si antepongano dibattiti, precisazioni e consensi per le lotte fondamentali per una politica sociale e nazionale, etica ed ideologica, che spinga ed organizzi il potere centrato nelle forze popolari e non in presunti"rappresentanti", e politici esperti o abili le cui bugie, inadempienze e corruttele, di varie dimensioni, rafforzano le politiche di alienazione, dipendenza, ingiustizia, destrutturazione e distruzione del paese e del mondo.

Ma come il razzismo dominante non ci porta ad una ribellione razzista, così la volgarità regnante non può portarci ad una volgarità ribelle il cui uso, seppur rigoroso, esatto ed accertabile che sia, in generale oscura la grande discussione che lancia l'altra campagna, che si vuole rinchiudere in un'altra volgarità e nel Messico sublime delle volgarità, o in un'ulteriore rottura delle forze progressiste e di sinistra che lottano per l'indipendenza, la giustizia, la libertà, l'autonomia, la democrazia ed il socialismo.

Con tutto il rispetto, penso che gli zapatisti devono accentuare, con l'immensa cortesia e chiarezza che tanto bene maneggiano, la loro identità ribelle ed autonoma che oggi esercitano iniziando una campagna molto diversa da quelle elettorali, che "né si arrende né si vende" e che è disposta a lottare, con tutti i rischi che implica, per la costruzione di una forza dei popoli e dei cittadini organizzati, pensanti ed agenti, l'unica che in Messico e nel mondo ha probabilità di difendere, con la giustizia e la sovranità effettive, con la libertà, la democrazia ed il socialismo, moralmente e realmente esistenti, la sopravvivenza dell'umanità di fronte ad un sistema di dominazione ed accumulazione che diventa sempre più autodistruttivo qui ed ora, in tutta la terra e nel futuro immediato, nell'impero degli Stati Uniti e nel nuovo blocco asiatico, due imperi nascenti il cui confronto potrà solo conservare i limiti della pace se i popoli si organizzeranno per recuperare il loro potere di decisione rispettoso delle diverse civiltà e culture, ma rispettoso soprattutto della libertà umana, immaginata dai più grandi movimenti della storia universale.

Che questo trionfo sia difficile e che altri lotteranno con diversi metodi, compresi quelli della democrazia elettorale e parlamentare, non c'è dubbio, come non c'è dubbio che gli zapatisti devono ratificare espressamente il loro rispetto per chi si mantiene fedele all'abitudine dei metodi elettorali, e che parteciperà alle elezioni. A tutti, a loro e a noi, ci manca un'interpretazione della Sesta Dichiarazione in cui gli stessi zapatisti dichiarino in maniera non congiunturale - né limitata alle lotte del 2005/2006 - le loro posizioni non negoziabili e le loro posizioni di consenso.

Chi come loro crede nel nuovo modo di fare politica e ne l'altra campagna, non può erigersi a loro interprete e a guardiano della loro memoria, né a conoscitore dei loro reali progetti. Molti di noi sanno che gli zapatisti stessi sono i più indicati a chiarire in maniera precisa che, senza partecipare alle elezioni né competere in esse, non chiedono a chi vi partecipa di smettere di farlo, ma gli chiedono solo di non stare contemporaneamente nelle due campagne e gli riconoscono il diritto di continuare a lottare nel modo a cui è abituato, a patto che il giorno dopo si unisca anima e corpo al modo che noi crediamo possa essere il più efficace affinché i popoli trionfino in un mondo incerto.

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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