Il Manifesto - 15 marzo 2005
Nel Messico del presidente Fox la lotta ai narcos ottiene il risultato opposto
Quando lo stato sfida i padrini. E viene sconfitto
Il tentativo del governo di "riportare l'ordine" nelle carceri dove sono detenuti molti narcotrafficanti (con tutti i privilegi e con la possibilità di dirigere il proprio business) si sta risolvendo in una mattanza di poliziotti e funzionari, corrotti e incorruttibili
L'ossessione del presidente resta quella di escludere dalle prossime elezioni il suo principale rivale, il sindaco di Città del Messico

GIANNI PROIETTIS - SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS

A un anno e mezzo dalle prossime elezioni presidenziali, in un clima già rovente di successione anticipata, il Messico post-"dittatura perfetta" si sta incamminando a passi decisi verso l'ingovernabilità. L'opposizione di sinistra, rappresentata soprattutto dal Prd, il Partido de la Revolución Democrática, e la Cia nordamericana coincidono, sorprendentemente, in questa analisi. Di fatto, il governo del presidente Fox ha paralizzato la vita politica nazionale su un solo tema: l'ossessione di escludere a qualunque costo dalla corsa alla prossima presidenza l'attuale sindaco di Città del Messico, Andrés Manuel Lopez Obrador, del Prd, favorito da tutte le inchieste. Il tema del desafuero - la sospensione dell'immunità che permetterebbe di processare il sindaco per la costruzione di una strada su terreni privati, impedendogli di partecipare alle elezioni del 2006 - sta dominando l'agenda istituzionale e rischia di aumentare la frattura, già molto profonda, fra governo e società. Mentre il parlamento ha aperto senza limitazioni all'importazione di prodotti transgenici - la cosiddetta ley Monsanto è passata di sorpresa, quasi senza discussione - e la magistratura, con una recente decisione della Corte suprema, ha dichiarato prescritte le stragi di studenti commesse nel 1968 e nel 1971 dall'ex presidente Echeverria, rinunciando a fare giustizia e luce sul passato, il governo Fox, invece di disinnescare l'instabilità e il crescente disagio ha imboccato il senso vietato più pericoloso: quello della lotta al narcotraffico.

La guerra delle prigioni

A metà gennaio, la pretesa governativa di "riportare l'ordine" nelle prigioni, specialmente le tre carceri di massima sicurezza, e di "disciplinare" alcuni dei maggiori capos del narcotraffico, lì reclusi, ha finito con lo scatenare una vera e propria guerra per il controllo dei penitenziari. E ha provocato un'ondata di esecuzioni a suon di kalashnikov, l'arma preferita dei narcos. Un'ondata che non accenna a diminuire e ha già fatto decine di vittime fra poliziotti corrotti o incorruttibili, funzionari doppiogiochisti e scagnozzi di bande rivali.

Lo stato di Tamaulipas, all'estremo nord, frontiera con il Texas, è stato "affidato" il mese scorso all'esercito, che pattuglia strade e sentieri e mantiene accerchiate con carri armati le carceri di Matamoros e Reynosa. La prima frizione fra il governo Fox e George Bush non si è fatta aspettare. Dai nuovi uffici di Condoleezza Rice è uscito un comunicato fortemente critico sulle possibilità messicane di dominare la situazione: con la polizia e il sistema giudiziario che avete, hanno detto i gringos, è meglio che restiate a casa. E Tony Garza, ambasciatore Usa a Città del Messico, ha sconsigliato ai propri connazionali di fare turismo negli stati del nord del Messico.

Santiago Creel, delfino del presidente Fox e ministro degli interni di un paese che non ha inviato truppe in Iraq ma riempie i serbatoi della UsNavy sottocosto, è saltato sulla sedia, dichiarandosi indignato. Anche i servitori più fedeli hanno un loro orgoglio.

Il 31 dicembre scorso, nel Centro de Readaptación Social "La Palma" (un carcere di massima sicurezza non lontano dalla capitale) i botti non hanno aspettato la mezzanotte. Verso le otto di sera, nell'area del parlatorio, un detenuto si avvicina a Arturo Guzmán Loera, detto El Pollo, fratello del famoso Chapo Guzmán, e gli scarica sette colpi di calibro 9 nel petto, davanti agli occhi sbarrati del suo avvocato.

È subito scandalo. Come è possibile che in una delle tre prigioni più sicure del Messico entrino armi da guerra, specie quando una settimana prima c'era stata un'accurata perquisizione di tutte le celle?

La risposta è più inquietante della domanda. Alcuni dei maggiori narcotrafficanti - come Osiel Cárdenas, capo del cártel del Golfo, e Benjamín Arellano Félix, capo del cártel di Tijuana - continuano a dirigere i propri imperi dal carcere. Grazie al loro enorme potere di corruzione, questi superdetenuti godono di incredibili privilegi, che comprendono l'uso di telefoni cellulari e ore di colloquio con le loroéquipes di avvocati. Il fatto che il direttore di La Palma e vari custodi siano stati messi immediatamente sotto inchiesta non ha calmato le acque.

Una serie di perquisizioni in tutti i penitenziari e una raffica di trasferimenti selettivi hanno avuto l'unico effetto di esacerbare gli animi della popolazione carceraria e di aumentare l'aggressività dei loro complici esterni. Quasi non passa giorno senza che un funzionario pubblico o un narco - spesso le due funzioni si sovrappongono - venga assassinato, anzi giustiziato. Non bisogna dimenticare che un'organizzazione come quella dei fratelli Arellano Félix, oltre a fornire ogni anno cocaina per 5 miliardi di dollari a spacciatori e consumatori statunitensi, è ormai gestita come una moderna impresa multinazionale, con migliaia di dipendenti e mega investimenti nel settore immobiliare, nel turismo e nei trasporti.

Ma il governo del presidente Fox, definito dalla stampa d'opposizione "inutile e incapace", decide di mostrare i muscoli proprio dove potrebbe costargli più caro e opta per la linea dura. I capi del narcotraffico detenuti a La Palma vengono raggruppati in un cortile della prigione e ammoniti da un comandante delle guardie che d'ora in poi si applicherà senza eccezioni il regolamento. La scena ha un tocco di surreale. I guardiani, compreso l'ufficiale che legge il proclama, portano tutti il passamontagna. Gli illustri detenuti invece, che devono dichiarare alle telecamere identità, delitto e condanna, sono sbarbati e pettinati, sembrano quasi eleganti nelle giacche a vento termiche. Loro, almeno, danno la faccia e il nome. Dopo che il comandante ha letto l'avvertenza, uno dei capos sputa vistosamente nella sua direzione. I telegiornali riportano fedelmente la scena.

Due giorni dopo, sei funzionari del carcere di Matamoros, all'uscita dal lavoro su tre auto differenti, vengono fermati da un posto di blocco. Sembra un normale controllo di routine. Ma vengono lasciati morti tutti e sei, torturati, ammanettati e con il colpo di grazia alla nuca, a meno di un chilometro dal carcere. Si sospetta che i responsabili siano gli Zeta, un braccio armato del cártel del Golfo composto da militari di corpi speciali dell'esercito passati al servizio dei narcos. C'è addirittura chi approfitta dell'emergenza carceri per evadere. Tre prigionieri spariscono dal penitenziario delle Islas Marias, sorvegliato per mare e per aria dalla marina.

La posta non è da poco: si tratta di stabilire con chiarezza chi controlla il sistema carcerario nazionale. E se non fosse lo stato?

Apice dell'economia messicana, il narcotraffico, se si include la coltivazione, dà da vivere a più di un milione di persone, estende i suoi tentacoli sul potere politico e le istituzioni, genera entrate maggiori di quelle delle rimesse degli emigranti, del turismo e del petrolio. È la "industria" numero uno e sa di esserlo. I suoi enormi profitti - più di 60 miliardi di dollari l'anno - sono "lavati" in
maggioranza dalle grandi banche statunitensi, come ha dichiarato già due anni fa il giudice nordamericano Ronald K. Noble, segretario generale dell'Interpol.

I magnifici otto

Mentre i narcodollari stipendiano generali e governatori, finanziano campagne presidenziali, comprano emittenti televisive e aprono resort per il turismo di lusso, i grandi capos si trasformano in eroi popolari cantati nei narcocorridos, le ballate che ne narrano le gesta. Il Chapo Guzmán, la cui organizzazione opera in 19 dei 31 stati messicani, riuscì a scappare, nel gennaio 2001, dal penitenziario di massima sicurezza di Puente Grande, nello stato di Jalisco. Per evadere, nascosto in un camion di rifiuti, il boss del cártel di Sinaloa, che in carcere godeva di grandi privilegi e abitava in una specie di appartamento di lusso, teneva sul suo libro paga ben 73 guardiani, compreso il direttore. In questi giorni, si reclamizza con manifesti giganti una taglia di 5 milioni di dollari - quella per Osama bin Laden è arrivata a 15 - offerti dalla Dea per la sua cattura. Le denunce possono essere inoltrate via internet al www.delatealnarco.com.

A parte quella del Chapo, altre sette grandi organizzazioni si dividono il territorio. A volte stabiliscono accordi di cooperazione, più spesso combattono guerre per gruppi. Considerato uno dei più violenti, il clan degli Arellano Félix comanda il cártel di Tijuana. La morte di Ramón, che era tra i dieci maggiori ricercati dalle autorità statunitensi e sulla cui testa pesava una taglia di due milioni di dollari, avvenne a Mazatlán nel febbraio 2002, dopo uno scontro a fuoco con narcos rivali. La cattura di Benjamín, arrestato a Puebla un mese dopo con 4 milioni di dollari in una valigia, non bastò a decapitare la banda. Un altro dei fratelli, Francisco Javier detto El Tigrillo, continua saldamente al comando dell'organizzazione, diretta finora da Benjamín dall'interno del carcere di La Palma.

Parlando dei cárteles più potenti, non si può omettere quello di Juárez, in mano ai figli di Amado Carrillo Fuentes, soprannominato El señor de los cielos per via della sua imponente flotta aerea. Quando, nel 1997, il generale Gutierrez Rebollo fu arrestato, due mesi dopo essere stato promosso zar antidroga con l'appoggio di Washington, si scoprì che Amado Carrillo Fuentes gli pagava uno stipendio mensile di un milione di dollari. La presunta incorruttibilità dell'esercito, cui si affidava sempre di più la lotta al narcotraffico, si rivelò allora uno dei tanti miti ridotti in polvere dal "libero mercato".

È ormai certo che la legalizzazione delle droghe - pesanti e leggere - o almeno la loro depenalizzazione, farebbe crollare da un giorno all'altro questo gigantesco business e gli imperi criminali che ha prodotto. Ma è altrettanto certo che il fiume di miliardi di dollari destinati attualmente alla lotta al narcotraffico cesserebbe di fluire.

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