Supplemento de La Jornada - Ojarasca n. 96 - aprile 2005
LA FRONTIERA CRESCE / LA FRONTIERA SPARISCE
Hermann Bellinghausen

Il fenomeno migratorio degli indigeni messicani, attualmente in fase di accelerazione, funziona come il liquido rivelatore dei fotografi di un tempo, i tempi delle camere oscure e del nitrato d'argento. Non si vede, e dal punto di vista dell'immagine sviluppata, neppure esiste. Ma senza la sua catalisi non ci sarebbe foto. Simile effetto rivelatore hanno avuto la sollevazione indigena in Chiapas dal 1994 e la lotta a livello nazionale per l'autodeterminazione dei popoli. Sono un'accusa attiva al sistema politico ed economico del Messico.

I popoli indigeni hanno preso l'autodeterminazione nelle proprie mani correndo rischi immensi. Che cosa sarà più pericoloso per i popoli, dichiarare una guerra o disperdersi nel vicino paese alla ricerca di lavoro e denaro? Da tempo (un tempo che continua a crescere), i popoli indios se la giocano senza paura. Sopravvivere è stata la condanna per secoli, ma ha sempre significato resistere. Terminato il XX° secolo, i popoli indigeni hanno abbandonato la secolare "pazienza" che attribuisce loro il luogo comune creolo-meticcio; il "fatalismo" che ha inquietato gli antropologi e i romanzieri dell'indigenismo.

La diaspora degli indios messicani verso il nord, nello stesso tempo passeggera e a lungo termine, è una protesta. Ed uno si domanda che cosa si portano dal Messico ai campi di cotone e di pomodori degli Stati Uniti: la condizione di schiavi, o la volontà di organizzazione e resistenza? Le risposte non sono semplici, e sono inevitabilmente contraddittorie.

Ha ragione il reazionario intellettuale organico al regime bushita, Samuel Huntington, quando esprime anglosassoni paure per l'ondata scura che non solo castiglianizza la cultura anglo, ma, sempre di più, indianizza spazi del territorio statunitense e genera cambiamenti insospettabili nelle relazioni sociali.

Non tutti i messicani soffrono la sindrome Wall Mart (sinonimo di sconfitta "soft" nelle città e periferie), ma sempre più messicani soffrono lo sfruttamento smisurato dei padroni stile wallmart. Il restringimento dei diritti lavorativi ed agrari nel Messico neoliberista, si pareggia con l'assenza di diritti di qualsiasi tipo per chi, per il semplice fatto di trovarsi negli Stati Uniti, è fuori legge.

E' comprensibile il disgusto di puristi e xenofobi, il castigliano è già la seconda lingua nazionale in Stati Uniti ed i "latini" (concetto che include "indios") il settore della popolazione più in crescita. Per il resto, nei recenti decenni si è costruita un'intricata rete di sentieri e scorciatoie che riportano ai paesi di origine a Oaxaca, Guerrero, Michoacán, e servono come vie di fuga dalla povertà per le nuove generazioni. Miraggio od opportunità, questo movimento di popolazione parla in lingua, traduce il primo mondo al mixteco, purépecha, maya, nahua, tzotzil, zapoteco. Inoltre, entra in un mix socioculturale che può divorarli: nuova versione della sempiterna "integrazione o morte" dei viceré, i dittatori, i presidenti, ed ora i dirigenti.

Si avvicina il momento in cui si deve scrivere, non più la storia del Messico, bensì la storia del popolo del Messico. Solo così potremo vedere la fotografia completa. E se questa storia la scrivono i popoli stessi (come stiamo vedendo in Chiapas, Oaxaca, il DF, le strade di New York e Chicago, i campi del North Carolina o la Valle di San Joaquín), significherà che la sua storia per il momento tiene.

Non si possono minimizzare qui gli effetti della contrainsurgencia (di ispirazione governativa, deliberata e vergognosa) nei "punti caldi" di Chiapas, Guerrero, Michoacán, Oaxaca, Stato del Messico. Né l'effetto "contro" degli sradicamenti, per la disgregazione culturale a cui sono esposte le comunità. Quando migrano nel ventre della balena, mettono a prova i loro legami di fraternità e solidarietà comunitaria. I programmi assistenziali ("sociali") del governo (sia PRI, che PAN) creano rotture e mettono contro tra loro le comunità. In modo simile, il passaggio alla "legalità" di alcuni messicani negli Stati Uniti li trasforma in lupi dei propri fratelli ai quali negano i vantaggi della loro integrazione al sistema yankee e vedono i nuovi clandestini come rivali. Non è per mera scommessa che molti messicano-statunitensi hanno votato per Arnold Schwarzenegger a governatore della California: appoggiavano il suo "protezionismo", perché si considerano "dentro" il cerchio "protetto."

Sebbene gli emigranti indigeni, rispetto ad altri connazionali, si integrino con minore intensità all'american way of life, la distanza mette a rischio i legami familiari, comunitari, regionali e perfino nazionali. Si sovrappone la doppia difficoltà di
essere illegali messicani e per di più indios, e riescono a formare fronti, associazioni e comunità con effetto sociale, politico e civico nella loro terra di origine ed in quella dove li trapianta la miseria economica, la fame, l'ingiustizia e la violenza.

Benché i cacicazgos stessi della Mixtecas poblana e oaxaqueña, la catena montuosa Juárez, la Meseta Purépecha, Yucatan o Chamula oramai trafficano, negoziano e perfino costruiscono dagli Stati Uniti, è più rilevante la costruzione/ricostruzione di identità e dignità. Detto senza schematizzare: gli effetti della migrazione in centinaia di comunità indigene sono anche disgregatori, d spopolamento delle campagne e sono perfino etnocidi.

È indispensabile approfittare delle esperienze di organizzazione, ricostruzione economica e risveglio culturale che si generano sull'altro versante della diaspora, e al di là del concetto geografico di "frontiera". Il fenomeno migratorio coinvolge milioni di messicani. Si parla molto ma è relativamente poco quello che si fa per capire e documentare. Come si costruiscono la cittadinanza transnazionale (o binazionale), le organizzazioni produttive, culturali, lavorative? Come si conservano e rigenerano comunità linguistiche che sfidano l'assolutismo delle lingue inglese e castigliana?

La migrazione indigena è una reazione al disastro economico, agrario e sociale che il sistema politico ha provocato da molto tempo e che con la sua conversione al neoliberismo denazionalizzatore sta diventando uno degli assi dell'annichilimento del Messico come lo intendevamo. Ma è anche un'opportunità paradossale di liberazione e ricostituzione dei popoli indigeni messicani. Oggi che le frontiere sono più vaste dei paesi, alcune nazioni corrono più rischi dei popoli originari che vi vivono ai margini, in basso, alla radice.

Note dal libro Indígenas mexicanos migrantes en Estados Unidos, scritto da Jonathan Fox e Gaspar Rivera-Salgado (Miguel Ángel Porrúa, México 2005)

(tradotto dal Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)

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