Rivista Collegamenti Wobbly N. 7, Nueva serie, Gennaio-Giugno 2005
GLOBALIZZAZIONE E GUERRA DELL’ACQUA IN MESSICO
Claudio Albertani

Dobbiamo difendere i nostri piccoli eroi (e ne abbiamo molti. Proprio molti). Dobbiamo combattere guerre specifiche con mezzi specifici. Chissà?, forse il secolo XXI ci riserva lo smantellamento di tutto ciò che è grande: grandi bombe, grandi dighe, grandi ideologie, grandi nazioni, grandi guerre, grandi eroi, grandi errori.
Arundhati Roy

“All’inizio del terzo millennio, almeno una persona su tre nel mondo soffre a causa del problema dell’acqua. Questa persona è più spesso una donna che un uomo”.1 Non sono le parole di un attivista sociale, ma di Michel Camdessus, ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) tra il 1987 ed il 2000: una (tardiva) confessione di fronte al fallimento della strategie di privatizzazione che lo stesso Camdessus impose mentre era a capo dell’organizzazione.

Oggi sono molte le voci che annunciano per il prossimo futuro una generalizzazione di guerre interne e conflitti geopolitici a causa dell’acqua. Così come il XX Secolo fu dominato dalle guerre per il petrolio, afferma la scienziata indiana Vandana Shiva, quelle del XXI Secolo avranno come oggetto l’acqua.2

Qual è la situazione in Messico? La stessa della Cina, Israele, India, Bolivia, Stati Uniti e tanti altri paesi. Una situazione che, secondo tutti i pronostici, precipiterà a breve termine.

Nell’estate 2004, il Parlamento messicano cominciò a martellare la popolazione con un ambiguo annuncio diffuso attraverso i principali mezzi di comunicazione che informava su un’imminente e generalizzata penuria d’acqua, concludendo però con un messaggio rassicurante “Il Senato della Repubblica ha votato una legge per garantire la qualità ed il buon utilizzo dell’acqua. Acqua per tutti! Acqua per sempre!”.

Di fronte all’approssimarsi della crisi, si cerca di propagandare l’idea che i poteri pubblici, e concretamente quello legislativo, vegliano sulle sorti della cittadinanza. Il proposito è encomiabile, però corrisponde davvero alla realtà?

ACQUA PER TUTTI?

Il Messico ha una superficie di poco inferiore ai due milioni di kmq. Di questi, il 52% è arido o semiarido, il 13% è tropico secco, il 20% temperato ed il 15% è tropico umido. L’orografia e molto accidentata: il 64% del territorio è composto da monti e solo il 36% presenta pendii inferiori al 10%. Le altitudini vanno dal livello del mare fino ai 5.000 m.3

Il Paese riceve in media 772 mm. di pioggia l’anno; di questi il 73% è soggetto ad evaporazione ed il resto scorre attraverso i fiumi, torrenti o finisce in bacini acquiferi. La disponibilità per abitante ammonta a circa 56 m3 l’anno (pari a circa 153 litri al giorno), cosa che non colloca il Messico tra i paesi con abbondante accessibilità alle risorse idriche, però neppure tra quelli meno favoriti.

I problemi principali riguardano l’irregolarità del regime delle piogge così come l’accessibilità alle risorse idriche ed alla loro qualità. Le piogge durano in media solo quattro mesi l’anno e presentano una distribuzione territoriale molto variata: mentre le regioni settentrionali e centrali (dove vive la maggior parte della popolazione) ne captano un magro 32%, il 62% si riversa nelle regioni tropicali del Sud-est.

A ciò bisogna aggiungere che, da sempre, le attività e gli insediamenti umani si concentrano proprio nelle zone in cui l’acqua scarseggia. Così, in un’area che capta appena il 20% delle precipitazioni, si ammassa il 76% della popolazione, il 90% delle produzioni agricole ed il 70% di quelle industriali, ovvero il 77% del PIL del Paese. A tali acuti contrasti bisogna aggiungere anche gravi problemi di distribuzione che obbediscono a ragioni socioeconomiche e non naturali.

Esattamente come in Cina o in Egitto, in Messico gran parte dell’acqua si canalizza al settore agricolo (83%). L’uso pubblico urbano è del 12% mentre quello industriale si riduce ad un magro 5%. E’ interessante sapere che un paese come la Francia, dove esiste un’analoga disponibilità d'acqua per abitante, impiega la maggior parte delle risorse idriche nel settore industriale.

Secondo cifre ufficiali, nel 2000, l’87% della popolazione messicana disponeva del servizio d’acqua potabile, tuttavia nei cinque stati dove si concentra la popolazione indigena (Chiapas, Guerrero, Oaxaca, Veracruz e Yucatán) la percentuale scende al 30%. Mentre la popolazione delle città raggiunge, in media, una copertura pari a quasi il 95%, nelle campagne è del 68%.4 Qui, il 25% dei giovani (soprattutto le donne, va aggiunto) tra i 18 ed i 25 anni, si trova nella situazione di dover raggiungere a piedi la fonte più vicina e trasportare in spalla i secchi d’acqua per uso domestico. Come altrove nel mondo, in Messico l’acqua scorre solo verso i ricchi.5

PROVOCARE LA SCARSITÀ

A partire dagli anni Ottanta, lo stato messicano smise di essere il principale agente dello sviluppo sociale per limitarsi ad assumere la funzione di garante del mercato. Di fronte alla ritirata del settore pubblico, la privatizzazione l’acqua si presentava come una tappa importante nella strategia d’incorporazione delle abbondanti risorse naturali nei meccanismi dell’accumulazione capitalista.

Secondo gli imperativi neoliberali in voga, in primo luogo era necessario smantellare le ultime vestigia delle organizzazioni comunitarie tradizionali. Non importa che il Paese avesse tradizioni millenarie proprio nell’ambito della gestione comunitaria dell’acqua. Alcune di queste, come i giardini galleggianti o chinampas, di Xochimilco (nei pressi di Città del Messico) e le “confraternite dell’acqua” di Tehuacán (Puebla), esistevano ancora ed erano oggetto di ammirazione a livello internazionale.

Le agenzie governative incominciarono a diffondere una cultura della “scarsità” che, secondo l’ecologista Jean Robert, ha origine in un malinteso. La verità –afferma– è che l’offerta d’acqua dolce è limitata ovunque; è sempre stato così e sempre lo sarà. Ciò che è nuovo, e specificatamente moderno, è invece l’idea che, così stando le cose, non vi sia acqua per tutti.

In realtà –prosegue Robert– l’offerta limitata di un bene può coesistere con bassi livelli di scarsità. Inoltre, più spesso si presenta la situazione opposta: un’offerta immensa coesiste con livelli insopportabili di scarsità.6

Nel caso dell’acqua, un primo esempio è dato dalle culture del deserto. In alcuni villaggi dell’Egitto, ancor oggi, gli abitanti sono soliti lasciare una giara d’acqua sulla porta di casa perché il passante possa saziare la sete. Sul fronte opposto, si può citare (tra i tanti) il caso degli indigeni mazahua del Messico, che vivono in una regione che rifornisce d’acqua l’immensa zona urbana di Città del Messico e tuttavia, in buona parte, mancano di accesso alla rete idrica.

Giacché occupa un posto centrale negli ineffabili meccanismi economici, proclamare la scarsità di un bene comune non è innocente: è il primo passo per inserirlo negli inesorabili circuiti del mercato.

Che cos’è l’economia? L’economia, risponde Serge Latouche, è tutto un luogo di malintesi, contraddizioni e paradossi.7 Si presenta come una “scienza naturale”, però, a ben vedere, ha più a che fare con la religione, i suoi idoli, i suoi dogmi.

Uno di questi paradossi è che l’economia inventa, letteralmente, la scarsità al fine di estendere il regime della proprietà privata ai beni collettivi e alle risorse naturali.

Denunciare le trappole del discorso economico non implica, evidentemente, negare l’esistenza di gravi problemi nell’ambito dell’acqua. Nel caso del Messico, i livelli delle sorgenti acquifere si abbassano d’anno in anno, contaminandosi sempre di più. Ricerche scientifiche indicano che negli ultimi 50 anni si sono esaurite riserve d’acqua che avevano tra i 10.000 e i 35.000 anni d’antichità.

Nella regione de La Laguna -situata nel nord, tra gli stati di Coahuila e Durango-, l’acqua per il consumo umano si estrae da profondità sempre maggiori con crescenti percentuali d’arsenico. Da elemento vitale, l’acqua finisce così per diventare una causa d'avvelenamento.

A ciò bisogna aggiungere che la desertificazione avanza in tutto il paese a ritmi sostenuti. La stessa Città del Messico, che una volta era conosciuta come la “Venezia delle Americhe”, sta letteralmente affondando sui resti di un lago disseccato.

Assegnare un valore di mercato all’acqua, significa tuttavia confondere la malattia con la cura. La Banca Mondiale, per esempio, sostiene che l’acqua è una necessità umana e non un diritto umano. Come scrivono Maude Barlow e Tony Clarke, questa non è una questione puramente semantica. Le necessità umane si possono soddisfare in molti modi, specialmente con i soldi, però (fino adesso) nessuno ha posto un prezzo ai diritti umani.9

Così, le strategie di privatizzazione imposte dalle agenzie internazionali per lo sviluppo ed accettate di buon grado dal governo messicano non offrono nessuna soluzione e semmai sono parte del problema.

PRIVATIZZARE TUTTO

La mercificazione dell’acqua segue molte strade. Una è a concessione a privati dello sfruttamento di sorgenti, pozzi, acquedotti e canali. In Messico, le riforme per aprire questo tipo di mercato trovano qualche resistenza perché la Costituzione stabilisce che la gestione dell’acqua è riservata allo stato. Ciò significa che, almeno in teoria, questa non è una merce come le altre e che può essere oggetto di concessioni solo per un tempo limitato, il che ovviamente è visto molto male dalle imprese multinazionali.10

Tali difficoltà legali si aggirano grazie a una parola magica: “decentralizzazione”. Magica e ingannevole giacché nei fatti “decentralizzare” ha voluto dire consegnare i sistemi idraulici ai governi locali con l’unico obiettivo di aprire il passo alle privatizzazioni.

L’altra via della mercificazione è quella del consumo d'acqua in bottiglia a detrimento di quella del rubinetto, che dappertutto è una truffa colossale visto che da nessuna parte gli imbottigliatori usano acqua di fonte, ma pongono il proprio sigillo all’acqua della rete pubblica.

Il Messico è sempre stato un gran consumatore di bibite a base di cola e ora è il secondo consumatore pro capite d’acqua imbottigliata, preceduto solamente dall’Italia. Secondo Gustavo Soto, ricercatore del CIEPAC, nelle comunitá indigene, le famiglie spendono fino al 17.5 per cento del salario minimo che è di 40 pesos (meno di tre euro) per otto ore di lavoro.11

La Coca Cola –uno dei cui ex dirigenti, Vicente Fox, è presidente della Repubblica– possiede qui una rete di 17 imprese d’imbottigliamento, seguita dalla Pepsi con solo 6.12 Il risultato è che un litro d’acqua in bottiglia costa adesso come un litro di benzina.

In pochi anni, l’effetto combinato di questi fattori ha dato luogo ad un notevole aumento delle tariffe che adesso cominciano ad approssimarsi al prezzo di “mercato”, proprio come esigono i dogmi della teoria economica neoclassica. Le ultime barriere sono cadute quando, il 29 aprile 2004, il Parlamento ha approvato una riforma alla Legge delle Acque Nazionali (quella stessa le cui lodi sono tessute con tanta insistenza per radio) che favorisce le concessioni alle imprese private a danno degli organismi municipali rinunciando ai principi fondamentali della giustizia sociale.

La nuova legge stabilisce, infatti, che le imprese che costruiscono le dighe avranno anche il diritto a vendere i servizi d’irrigazione ed elettricità. Al tempo stesso, gli utenti sprovvisti di contatore potranno essere sanzionati con multe fino a 225.000 pesos, che, nel caso di campesinos le cui entrate raramente superano i 50 pesos al giorno, rappresentano cifre enormi.

Non è tutto. A pochi mesi dall’entrata in vigore della legge, il titolare del Segretariato dell’Ambiente e delle Risorse Naturali (Semarnat), Alberto Cárdenas Jiménez, afferma di non voler riposare fino a che il prezzo dell’acqua non raggiunga un livello “da far male”.13 Fa male già adesso. Secondo studi recenti, i settori sociali più emarginati spendono fino al 30% dei propri averi per comprare il vitale liquido.14

LE MALEFATTE DI VIVENDI UNIVERSAL

Fin dalla nascita, il mercato globale dell’acqua ha presentato caratteristiche singolari giacché è sempre stato controllato da un pugno di giganti europei i quali, bisogna dirlo, esibiscono attitudini depredatrici simili o anche peggiori a quelle dei concorrenti nordamericani.

Le due imprese più grandi, Suez e Vivendi Universal, sono francesi; insieme si ripartiscono il 70% del mercato mondiale dell’acqua: la prima opera in ben 130 Paesi, la seconda in 90.15

Per giustificare il loro operato esse diffondono l’idea che di fronte all’inefficienza generalizzata delle istituzioni pubbliche, è meglio optare per l’impresa privata che è “dinamica, produttiva e onesta”. In Messico, la penetrazione delle multinazionali del ramo sta appena cominciando, ma vi è già per lo meno un caso, la città di Aguascalientes, che permette di trarre conclusioni interessanti.16

Nel 1993, il governatore di Aguascalientes, autorizzò il sindaco a dare in concessione il servizio pubblico d’acqua potabile, captazione e trattamento delle acque residue. Nello stesso tempo, la Riforma della Ley Estatal de Aguas legalizzò la partecipazione dell’impresa privata, il che aprì il cammino a Servicios Hídricos de Aguascalientes S.A. de C.V., un’impresa creata ad hoc e composta da: Ingenieros Civiles Asociados (ICA), Banamex e la Compagnie Générale des Eaux, una sussisidiaria di Vivendi.

Le autorità giustificarono la privatizzazione con il cattivo stato del servizio, però questo non migliorò. Gli unici effetti visibili furono il repentino aumento delle tariffe e la sospensione della fornitura nei casi di morosità, una pratica fino allora quasi sconosciuta. Secondo la compagnia quello era l’unico modo per frenare il consumo stimolando il risparmio e limitando così lo sperpero.

L’impresa passò, malgrado ciò, per molteplici disavventure finanziarie accumulando debiti. Con la svalutazione della moneta nel 1994, questi diventarono pressoché ingestibili. Per evitare la bancarotta e la sospensione del servizio, la giunta municipale dovette apportare grandi dosi di capitale pubblico mostrando ancora una volta che i grandi monopoli privatizzano i ricavi, ma socializzano le perdite.

Il colmo: nel 1996 il contratto originale fu modificato per favorire ancor più l’impresa, ampliando a 30 anni la durata della concessione e rendendo tuttavia più flessibili i suoi obblighi, esimendola dall’investire nella costruzione di infrastrutture.

Bustarelle? Per il momento non si è provato nulla, salvo che il passaggio dall’acqua come bene pubblico all’acqua come merce “scarsa” non conduce certo ad una gestione efficiente. A dispetto di promesse e discorsi, il caso di Aguascalientes dimostra che l’impresa privata non fa meglio dello stato.

Il già citato studio di Clarke e Barlow documenta decine di situazioni analoghe nei quattro angoli del mondo, ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Ci sono casi limite, come in Cile, dove i Chigago boys sono riusciti a privatizzare perfino i fiumi.

Non sempre, tuttavia, la popolazione accetta passivamente le canagliate delle corporazioni. Nel 2000 di fronte agli abusi dell’impresa nordamericana Bechtel la Bolivia è stata teatro di una ribellione popolare vittoriosa, passata alla storia come la “Guerra dell’acqua”.17

UN POZZO D’ACQUA VALE DI PIÙ CHE UN POZZO DI PETROLIO

I problemi dell’acqua possono avere gravi ripercussioni geopolitiche. Nel caso del Messico, si è recentemente aggravata una vecchia disputa con gli Stati Uniti per il controllo dei fiumi e delle acque sotterranee lungo la frontiera.

La regione si trova alle soglie di un grave disastro ambientale. La maggiore falda acquifera del vicino del nord -la Ogallala con circa mezzo milione di chilometri quadrati- che rende possibile l’irrigazione di circa 6,5 milioni di ettari coltivati a mais, sorgo, soia e grano, è contaminata da pesticidi, fertilizzanti e scorie nucleari. Visto che si tratta d’acqua fossile, il ricambio è molto lento e si prevede che la falda diventerà improduttiva nel giro di 40 anni.18

Uno dei punti ardenti del conflitto riguarda lo sfruttamento del fiume Colorado, che nasce nelle montagne Rocciose, attraversa il Colorado, lo Utah, l‘Arizona e la California pieno d’acqua, ma sbocca nel Golfo di California -in territorio messicano- ridotto ad un modesto torrente d’acqua fangosa e tossica.19

Ciò è dovuto al fatto che dal lato americano si trova la maggiore concentrazione d’industrie, insediamenti umani e attività agricole del mondo intero. Il sistema del Colorado rifornisce, infatti, gran parte delle zone metropolitane di Los Angeles, San Diego e Phoenix, sostentando inoltre gran parte della produzione invernale di verdura.20

Nel lontano 1944, i due paesi sottoscrissero un “Trattato Internazionale delle Acque” che regolava il flusso dei fiumi di frontiera stabilendo che ogni anno gli Stati Uniti devono destinare al Messico 850 milioni di metri cubi del Colorado, mentre a sua volta il Messico si impegna a inviare al vicino del nord 431 milioni di metri cubi del Bravo, l’altro gran fiume della regione.

Negli ultimi anni, con la scusa del ritardo con cui il Messico invia la propria quota, gli Usa hanno deciso di rivestire di cemento il Canal Todo Americano, un affluente del Colorado la cui gestione non è purtroppo contemplata nel Trattato del 1944. Dato che quelle acque ricaricano una falda condivisa tra le due nazioni, il governo degli Stati Uniti avrà adesso la possibilità di captare non solo le acque di superficie del Colorado, ma anche quelle sotterranee.21

Il conflitto è incandescente, però, mentre il governo messicano si è limitato a fare qualche timida protesta, gli americani hanno esibito la consueta arroganza imperiale.22 La giustificazione? Nessuna, poiché, come spiega il neoconservatore Robert Kaplan in un testo piagato da riflessioni razziste, il Messico è un paese incline al “dispotismo idraulico”, il che è incompatibile con la “tradizione democratica anglosassone”!23

Se si continua così -osservano da parte loro i compagni di Equipo pueblo- presto vedremo i marines sfondare le chiuse delle esangui dighe messicane, spillandone l’acqua fino all’ultima goccia affinché gli agricoltori texani possano irrigare a piacimento i propri acri di terreno.24

MIRAGGI

Le vie della ragione mercantile sono infinite. Una di queste passa per la costruzione di opere gigantesche che si sottraggono al controllo degli utenti. “C’era una volta – scrive Arundhati Roy in un appassionato appello contro la costruzione di 52 dighe lungo il fiume Narmada, in India – un mondo che amava le dighe.Tutti ne avevano –comunisti, capitalisti, cristiani, musulmani, indiani e buddisti. Le dighe non incominciarono come un'impresa cinica, ma come un sogno. Però finirono in un incubo. Adesso è giunto il momento di svegliarsi”.25

Nel corso del XX secolo, si costruirono nel mondo più di 40.000 grandi dighe a fini di irrigazione, approvvigionamento d’acqua potabile o produzione di energia idroelettrica. Secondo calcoli prudenziali, ciò causò la deportazione di circa 100 milioni di persone.

A partire dagli anni 50, le dighe furono presentate come cattedrali della modernità, la prova lampante che l’umanità può riuscire domare la natura. A differenza delle cattedrali, le dighe non sopravvissero però alla prova del tempo: durarono unicamente il lasso che la natura impiega per logorarle e riempirle di fango.26

Inoltre per le popolazioni che si opponevano le cose potevano finire male. Molto male. Nel 1982, la Banca Mondiale si alleò con i militari guatemaltechi per la costruzione di una nuova diga sul fiume Chixchoy (quello stesso che più giù, al segnare la frontiera con il Messico, assume il nome di Usumacinta).

Poiché le comunità maya che abitavano la regione si rifiutavano di essere trasferite, l’esercito reagì con la consueta violenza massacrando circa 400 persone nel giro di pochi mesi. La Banca Mondiale affermò di non saperne nulla, però, anche se autentica, quell’ignoranza è imperdonabile.27

Sarebbe facile apportare altri dati, visto che –prosegue Arundhati Roy– “le grandi dighe stanno allo sviluppo come le bombe nucleari alla guerra. In entrambi i casi, sono armi di distruzione di massa. Armi che i governi impiegano per il controllo delle popolazioni”.28

Sottoposta a molteplici pressioni, la Banca Mondiale si ritirò dall’affare, pubblicando poi un interessante documento in cui si ammette apertamente che le dighe, oltre ai gravi danni ambientali, causano il trasferimento involontario di grandi contingenti umani il che è particolarmente tragico nel caso dei villaggi indigeni che spesso versano in condizioni economiche, culturali e psicologiche disastrose.29

In Messico, le cose non sono andate diversamente: come in India, come ovunque, la costruzione delle dighe si è risolta in un miraggio. Le prime risalgano ai tempi del presidente Cárdenas (1934-1940) e al suo generoso progetto di sviluppo, però negli anni Sessanta, di fronte alla crescente domanda d’elettricità e all’incipiente rivoluzione verde, il governo messicano decise di incrementare drasticamente la costruzione di dighe. Visto che nella maggior parte dei casi, le popolazioni locali non volevano andarsene, si moltiplicarono i conflitti.30

Oggi, la frastagliata geografia messicana è punteggiata da decine di dighe gigantesche. Mentre gran parte di esse sta compiendo il ciclo di vita utile di 50 anni (e ben presto si porrà il problema di cosa fare di esse), ci troviamo, assurdamente, agli albori di un nuovo ciclo. Perché? Perché in questo modo, i governi neoliberali attraggono investimenti esteri ed aggirano i divieti costituzionali che impediscono la privatizzazione dell’industria elettrica e dell’acqua.

La Comisión Federal de Electricidad (CFE) ha in progetto la costruzione di 56 nuove dighe, gran parte delle quali si trova in territori indigeni, il che, come sempre, significa sottrarre l’acqua a chi più ne ha bisogno. In queste condizioni è da prevedere un’intensificazione dell’ostinata guerra d’aggressione che da tempo lo stato messicano sferra contro le comunità originarie.

In questa situazione non è da stupirsi se multinazionali spagnole come Endesa e Unión Fenosa, francesi come EDF, tedesche come Siemens o statunitensi come AES, si mostrano ansiose di investire i propri capitali.31

RESISTENZE

Scommettere sulla passività della gente è sempre rischioso. La battaglia per salvare un fiume, un acquedotto o una sorgente può avere conseguenze impreviste. Prendiamo il caso di una diga in progetto, La Parota, sul fiume Papagayo, nello stato del Guerrero. Se dovesse costruirsi, questa avrebbe una superficie tre volte maggiore della sottostante baia di Acapulco ed inonderebbe 24 villaggi oltre ad un numero ancora non precisato di terre agricole.

Da anni, ed in particolare negli ultimi mesi, i 25 mila campesinos coinvolti si trovano sul piede di guerra. Dopo aver fondato il Consejo de Ejidos y Comunidades Opositoras, il 2 ottobre 2004, insieme con altre comunità che soffrono problemi analoghi, hanno fondato il Movimiento Mexicano de Afectados por las Presas y en Defensa de los Ríos (Mapder) i cui partecipanti si dichiarano “in resistenza totale e permanente conto la costruzione delle dighe nel Paese”.

Il Mapder è un’alleanza legata a livello continentale con la Red Internacional de Ríos di San Francisco, California, e con il Movimiento Mesoamericano contra las Presas. Quest’ultimo, che oltre al Messico comprende i paesi centroamericani, si oppone alla costruzione di circa 350 dighe nella regione di confine tra il Messico e il Guatemala.

Il movimento esige che lo Stato messicano ripari i danni arrecati nel passato a più di 100 mila persone, il risanamento degli ecosistemi, la modifica della legislazione in materia d’acqua e medio ambiente ed il rispetto del diritto delle popolazioni all’acqua, stabilito dal Trattato 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.32

Fino ad ora la lotta dei campesinos di Guerrero è stata pacifica, ma di fronte alla repressione selettiva ed al tentativo da parte del CFE di dividere le comunità comprandone i leader, potrebbe prendere un’altra piega.33

Un’altra guerra dell’acqua si svolge tra gli indigeni mazahua della regione del fiume Cutzamala e la Commissione Nazionale dell’Acqua (CNA). Il sistema Cutzamala soddisfa, come già detto, una parte importante del fabbisogno di Città del Messico. Lo stato stanzia ogni anno la somma di 1.600 milioni di pesos (circa 100 milioni di euro) per trasportare alla zona metropolitana 19 mila litri d’acqua il secondo provenienti da Cutzamala. In tal modo, ogni litro d’acqua che giunge a Città del Messico percorre una distanza di circa 160 km, superando un dislivello di 1.366 metri grazie ad un costoso sistema di pompe.

La cosa assurda è che, mentre diverse comunità mazahua soffrono della mancanza d’acqua potabile, circa il 38% dell’acqua spedita a Città del Messico si disperde a causa del cattivo stato dei tubi.

Durante la stagione delle piogge del 2003, la diga Villa Vittoria, una delle sette che alimentano il Sistema Cutzamala, straripò danneggiando le colture e le comunità mazahua. Il 10 agosto 2004, dopo molteplici e fallimentari tentativi di dialogo, i membri del Frente para la Defensa de los Derechos Humanos y Recursos Naturales del Pueblo Mazahua marciarono alla volta di Città del Messico esigendo dal governo federale l’indennizzo di 300 ettari di coltivi.

Di fronte alla chiusura delle autorità, essi fecero un picchetto davanti all’impianto d’acqua portabile di Berros che rifornisce la valle del Messico. A quel punto, le donne decisero di prendere in mano le redini del movimento organizzando, sull’onda lunga della ribellione degli indigeni del Chiapas, un Ejército zapatista de mujeres en defensa del agua.

Armate di rudimentali fucili di legno, macete e attrezzi agricoli, bloccarono per tre giorni le forniture di cloro dell’impianto, minacciando inoltre di tagliare il flusso d’acqua e perfino di farsi esplodere con dinamite se il governo non rispondeva alle richieste.

Domenica 26 settembre, una delegazione di 25 donne mazahua investite con il grado di “comandante” richiese un incontro con il Ministro della Difesa, Clemente Vega, per “parlare di temi relativi alla sicurezza nazionale e spiegare perché protestiamo in modo diverso dai nostri uomini”.

In un messaggio ai mezzi di comunicazione, le comandanti denunciavano la politica idraulica del Messico come ingiusta perché “giova solo agli abitanti delle grandi città”.34 Allo scopo di risanare la regione del Cutzamala, le comandanti, richiedevano che il governo s’impegnasse a piantare almeno 20 milioni d'alberi nei prossimi mesi.

Affermare che le autorità avessero preso sul serio questa lotta, sarebbe un’esagerazione. È vero, tuttavia, che le donne mazahua riuscirono a sollevare un’onda di simpatia nazionale che impedì che si scatenasse un’ondata repressiva contro il movimento ed obbligò il governo a trattare.

Un mese dopo, il 26 ottobre, il Ministero degli Interni e le comunità mazahua firmarono un accordo che, oltre ai risarcimenti richiesti, prevedeva la riforestazione e il risanamento del medio ambiente.

Tuttavia, le comandanti mazahua dichiararono che la lotta continuava e che eventuali inadempienze sarebbero sfociate in nuove mobilitazioni.35 Di fronte alla (prevedibile) inadempienza del governo, queste ripresero vigore nel febbraio 2005, con uno sciopero della fame di fronte alla sede del Ministero dell’Ambiente.36

La crisi dell’acqua appare, in conclusione, come un’allegoria –una delle tante- del mondo in cui viviamo. Non sembra avere soluzione all’interno dell’attuale modello neoliberale. Solo le popolazioni, le reti, i movimenti e le organizzazioni che lottano per preservare il patrimonio comune possono vincere la guerra che conducono gli stati e le imprese multinazionali per il controllo dell’acqua e delle risorse naturali. In Messico questa guerra è già iniziata.

NOTE:

1. Michel Camdessus introduzione a: James Winpenny, Financing water for all. Report of the world panel on financing water infrastructure, World Water Council, Global Water Partnership, 3d Water Walter Forum, marzo 2003, pag. V.
2. Vandana Shiva, Le Guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano, pag. 9.
3. Enrique Castellan Crespo, “los Consjos de Cuenca en el Desarrollo des la Presas en México”. Third World Center for Water Management.
4. Dati presi dalla relazione di Félix Hernàndez Gamundi e Raùl Àlvarez Oseguera nel seminario El agua bien provado o bien comùn. Hacìa una nueva cultura planetaria, Universidad de la Ciudad del Mexico, 21-23 settembre 2004 di prossima pubblicazione.
5. Encuesta Nacional sobre el NiveleS de vida de los Hogares, realizzata per una ricerca dell’Università Iberoamericana e del Centro de Investigacioned en Dociencia Economica, La Jornada, 11 novembre 2004.
6. Jean Robert, Water is a common, Habitat International Coalition, Messico, D.F., 1994, pag.17
7. Serge Latouche (coordinatore) L’economia svelata, Edizioni Dedalo, Bari, 1997, pp.11 e 31.
8. Luis Hernándes Navarro “La Laguna: nueva guerra del agua”, La Jornada, 10 nov. 2004.
9. Maude Barlow e Tony Clark, Oro Azul. Las multinacionales y el robo organizado de agua en el mundo, Paidos Controversias, Barcelona 2004, p. 15
10. Eduardo Viesca de la Garza, Gobernabilidad del Agua. Aspectos legislativos, ponencia en el seminario El agua bien privado o bien común, UCM, 23 de septiembre de 2004.
11. Nel Chiapas la Coca-Cola è accusata di provocare divisioni tra le comunità, di saccheggiare le risorse naturali, di vendere acqua inquinata e di inquinare i fiumi con piombo. Gustavo Soto, “Coca-Cola en Chiapas. Agua, contaminación y pobreza”; Hermann Bellinghausen, La Jornada, 22 febbraio 2005.
12. Maude Barlow e Tony Clarke, op.cit., pag. 231
13. La Jornada, 30 settembre 2004.
14. Luís Marín Stillman, ricercatore dell’Università Autonoma Nazionale del Messico (UNAM), La Jornada, 23 settembre 2004.
15. Barlow e Clarke, op. cit., pag. 173; si veda inoltre: Barlow e Clarke, Global Water Lords.
16. AAVV, Aguascalientes, Mexico. A case study, PRINWASS, Oxford (GB), agosto 2003.
17. Barlow e Clarke, op. cit. pag 284-5.
18. Alejandro Nadal, “Ogallala: para remplazar el clima” La Jornada, 13 febbraio 2002.
19. María Rosa García Acevedo, “El río Colorado en la relación México-Estados Unidos: visiones, acciones y posibilidades”, Comercio Exterior, marzo 2004
20. Marc Reisner, Cadillac Desert: The American West and its Disappearing Water, Penguin Books, 1986
21. Angélica Inciso, “Estados Unidos pelea a Mexico cada gota del canal Todo Americano”, La Jornada, 3 novembre 2003.
22. Nel corso della riunione della Commissione Bilaterale Messico - Stati Uniti si firmò un patto ambientale che non include l’affare del fiume Colorado: si veda La Jornada, 10 novembre 2004.
23. Robert Kaplan, “Mexico and the southwest”, The Atlantic Monthly, luglio 1998.
24. si veda: htpp://www.equipopueblo.org.mx/oc77-editorial.htm
25. Arundhati Roy, The Algebra of infinite Justice, Peanguin Books, Nuova Delhi, India, 2002, pag 57
26. Lo studio migliore sugli impatti ecologici delle dighe è: Patrick McCully, Silenced Rivers. The ecology and politics of large dams, Orient Longman, Hyderabad, India, 1998; si veda anche: M. Barlow e R. Clarke, op.cit. pagg- 87-91 e 107-111.
27. Si può consultare la storia completa del massacro di Chixchoy nel sito http://irn.org
28. Arundhati Roy, op.cit. pag. 136
29. Si veda la Guida cittadina sulla Commissione Mondiale delle Dighe, pubblicata da International Rivers Network (IRN), Berkeley California, 2004 che riassume il rapporto di 400 pagine della Banca Mondiale
30. María del Rayo Campos, “Expropriaciones y desarrollo nacional: la presas hidroelécticas”
31. CIEPAC, Chiapas al día, boletín No. 434, 7 ottobre 2004.
32. Rosa Rojas, La Jornada, 2,3 e 4 ottobre 2004
33. Rosa Rojas, La Jornada, 13 novembre 2004
34. El Universal, 26,27 e 28 settembre 2004
35. La Jornada, 27 ottobre 2004
36. La Jornada, 5 febbraio 2005.

Indice delle Notizie dal Messico


home