La Jornada - MASIOSARE 341 - DOMENICA 4 LUGLIO 2004
Progetto indigeno di successo
"Las Guacamayas", il sogno di un’altra Lacandona
CLAUDIO ALBERTANI e GIOVANNI PROIETTIS*

Alla confluenza dei fiumi Zendales e Lacantún, in piena selva Lacandona, si trova l'ejido "Reforma Agraria", una comunità indigena che pratica la conservazione di un pezzo di bosco tropicale vergine e del suo ecosistema mediante programmi di riproduzione di flora e fauna locali, tra cui, le bellissime guacamayas (particolare pappagallo tropicale) che danno il nome al singolare progetto. In questo servizio illustriamo la storia di 40 famiglie chinantecas, originarie di Oaxaca, che vivono nella selva chiapaneca senza distruggerla. È l'epopea di un pugno di uomini e donne che hanno rifiutato la mercificazione della natura e con volontà ed immaginazione, hanno creato un centro ecoturistico che propone al visitatore una formula singolare: vedere, rispettare e conservare.

Alla memoria di don Amado Avendaño, governatore ribelle del Chiapas

Nella zona protetta dagli indigeni ci sono 193 guacamayas
Fotografia: presa da Internet

All'estremo sudest della Selva Lacandona, lontano dai riflettori mediatici e a solo cinque ore d'automobile da San Cristobal de Las Casas, si trova un'appartata regione che conserva il nome del suo antico padrone porfiriano: Marqués de Comillas.
Praticamente irraggiungibile fino agli anni novanta, la zona si estende nel triangolo immaginario costituito dalla confluenza dei fiumi Chixoy e Lacantún (gli stessi che a partire da qui formano l'Usumacinta), rispettivamente a oriente ed occidente, l'Ixcán guatemalteco al sud, ed il villaggio di Benemérito del las Américas al nord.

A partire dalla "marcia al tropico" promossa nel sessennio di López Mateos, ed anche prima, la regione ha funzionato come via di fuga da conflitti agrari e politici accogliendo gruppi umani provenienti da tutto il paese. Zona di rifugio e terra promessa, santuario e bottino, questa è una sorta di ultima frontiera dove si respira un'atmosfera di lontano ovest.

È istruttivo percorrere l'impeccabile strada, recentemente terminata dall'Esercito messicano, che conduce delle lagune di Montebello a Palenque, costeggiando la frontiera con il Guatemala e girando intorno alla biosfera dei Montes Azules.

Rari sono i passanti, scarso il trasporto pubblico, quasi inesistenti i turisti. La regione merita, da tutti i punti di vista, il nome che nel XIX secolo gli misero i cacciatori che radevano al suolo cedri e mogani: "Deserto della Solitudine".

Con un'eccezione importante. Invece dell'impenetrabile densità vegetale, la gran diversità di specie animali ed i preziosi legnami che hanno fatto la fortuna di tanti avventurieri, predomina ora un paesaggio desolato dove, oltre ai fusti segati nella savana incandescente, emergono vacche e soldati a perdita d'occhio.

Mentre le prime s’incaricano di consumare le ultime vestigia della fragile biodiversità selvatica, i secondi, presumibilmente incaricati del rimboschimento, si danno al dubbio lavoro di rendere impossibile la vita dei pochi viandanti.

Circa 12 posti di blocco istallati lungo gli scarsi 400 chilometri sono lì per togliere il gusto dell'escursione a qualsiasi cittadino, soprattutto in una regione conosciuta per fare posto ad ogni tipo di traffico: dal micro-contrabbando al mega commercio di armi e cocaina passando per la prostituzione ed il mercato di immigranti illegali.

Entrata all’ejido "Reforma Agraria"
Fotografia: Giovanni Proiettis

Tuttavia, a Marqués de Comillas non tutto è desolazione. Nelle vicinanze della confluenza tra i fiumi Zendales e Lacantún, precisamente nella regione dove sorgevano le riserve di caccia la cui storia sanguinosa è narrata da B. Traven nei suoi romanzi, si trova l'ejido "Reforma Agraria". Conoscerlo dà un'idea diversa di quello che è, e soprattutto di quello che potrebbe essere la Selva Lacandona.

In questo posto, un pugno di uomini e donne con volontà ed immaginazione hanno creato un centro ecoturistico, Las Guacamayas, che sfida i luoghi comuni del neoliberismo e di una certa vulgata "conservazionista". Perché? Dopo che quattro o cinque generazioni di commercianti di legname, fattori, allevatori e funzionari pubblici hanno saccheggiato la selva senza misericordia, alcuni vorrebbero ora scaricare la colpa sugli ultimi arrivati: i poveri contadini provenienti dai quattro angoli del Messico.

Gli abitanti di "Reforma Agraria" ci raccontano un'altra storia. Essi formano una comunità che pratica un'effettiva conservazione dell'ecosistema mettendo in pratica coraggiosi programmi di riproduzione della flora e fauna locali. Tra le altre specie, emerge quella che dà il nome al luogo: la bella guacamaya o Ara macao, enorme pappagallo multicolore, in fuga davanti all'avanzata della globalizzazione.

Biologi, ecologisti, viaggiatori e cercatori di emozioni, hanno accesso ad una porzione di selva vergine amorevolmente accudita dai suoi abitanti: circa 40 famiglie di contadini indigeni originari della Chinanteca oaxaqueña.

Essi vogliono vivere della selva senza distruggerla come fanno quasi tutti gli altri, compresi alcuni sedicenti "conservazionisti". Per questo propongono al visitatore una buona formula: vedere, rispettare e conservare.

Arrivare a "Reforma Agraria" è relativamente facile. Se uno viene da Comitán, bisogna lasciare la strada di frontiera all'altezza del fiume Chajul, svoltando a nord per una pista ben sterrata che, dopo circa 20 chilometri, conduce a destinazione. Se, invece, si proviene da Palenque, all'altezza di Benemérito del las Américas bisogna prendere la strada verso Pico di Oro.

Fiume Zendales, nella riserva integrale dei Montes Azules
Fotografia: Claudio Albertani

Il villaggio sorge sulla riva destra dal fiume Lacantún, la via d'acqua che fu l'arteria della regione prima della costruzione della strada. Sul lato sinistro del fiume si trova la biosfera dei Montes Azules, l'ultima porzione di selva relativamente vergine (benché, sia chiaro, senza mogani…). Su questo lato, invece, tutto fu colonizzato molti anni fa e quello che rimane sono unicamente pastizales [Pastizal: territorio con copertura erbacea o presenza poco significativa di piante. N.d.T.], salvo la porzione appartenente a "Reforma Agraria".

La comunità presenta alcune strade ben tracciate di sterrato fine, case di legno con alti tetti di foglie di guano ben intrecciate, la palma selvatica che qui abbonda. L'architettura locale continua ad essere tradizionale; ignora il cemento e la lamiera, tanto comuni in altre parti.

All’arrivo, due giovani biologi della UAM-Xochimilco, Cesare ed Ernesto, si offrono come guide per una gita sul fiume o nella selva: svolgono così il loro servizio sociale appoggiando la comunità. Dopo decenni di isolamento quasi totale, a gennaio di quest'anno l'elettrificazione ha portato i televisori, le prime antenne paraboliche, le birre fredde.

Alcune ombre si profilano all'orizzonte: dietro Conservación Internacional (CI), un'ambigua Ong che promuove progetti eco-milionari, si scorgono i piani di investimento transnazionali del turismo di gran lusso. Riusciranno questi campesinos a difendere il loro scampolo di selva? Loro si mostrano ottimisti. Nella testimonianza che presentiamo, si incrociano l'epopea della migrazione con significativi itinerari di militanza politica, la fuga dai conflitti con l'intreccio narco-poliziesco, l'orco filantropico priista con la resistenza al caciquismo…

Gli ostinati che, come noi, ancora si interessano alle implicazioni della questione sociale, troveranno materia di riflessione nelle vicissitudini di questa comunità che non si è piegata ai dettati dell'economia mercantile. Ora, dopo avere letto l'insegna all'entrata del villaggio, lasciamo la parola a Luis Hernández, uno dei fondatori della comunità.

LUIS HERNANDEZ, DELEGATO EJIDAL DI “REFORMA AGRARIA”

Fotografia: Giovanni Proiettis

- Don Luis, ci racconti quando e come siete arrivati qua.

- Siamo indios chinantecos originari di Oaxaca. Intorno agli anni settanta, qualcuno ci disse che nella selva del Chiapas un tenente in pensione di nome Carmona concedeva certificati di proprietà. L'11 aprile del 1976, una data che celebriamo tutt'ora, arrivammo qui in quaranta persone circa, tra uomini, donne, bambini, adulti ed anziani.

- Perché ve n’eravate andati?

- Ce ne andammo da Oaxaca per problemi agrari. Mio padre aveva un appezzamento di 100 ettari, ma l'invase un gruppo di gente armata che godeva della complicità delle autorità locali. La volevano per la coltivazione di droga e ci intimarono di unirci a loro o di lasciare le nostre terre. Noi non accettammo e così incominciò tutto. Durò molti anni quella lotta, tanto che ammazzarono mio padre, mio suocero ed uno zio. Alla fine quello che feci, fu di portare qua i miei parenti e compaesani.

– Ha partecipato ad altre lotte sociali?

- Prima del conflitto, io vivevo nella città di Oaxaca. Dapprima ho fatto il domestico, poi ho studiato alla preparatoria dell'Università Benito Juárez ed ho partecipato al movimento degli anni settanta. Ho militato nella Liga Comunista 23 Settembre, un'organizzazione clandestina che praticava la lotta armata. Quando la repressione ci ha sconfitti, per un po' ho lavorato come maestro nelle comunità della montagna. Dopo un anno, sono tornato all'università per laurearmi ed in quel frangente si è presentato il problema di mio padre. Io non volevo uno scontro tra campesinos, cercavo una soluzione pacifica, ma gli invasori mi accusarono di essere guerrigliero. La polizia mi offrì di cambiare nome, un lavoro col governo e di risolvere il problema di mio padre in cambio di informazioni. Non accettai, ovviamente, e le cose si fecero molto brutte.

- Come fu il viaggio?

- È una lunga storia. Arrivammo a Comitán su autobus locali perché l'Istmo di Tehuantepec era bloccato da manifestazioni studentesche. Poi affittammo un camion che ci avvicinò alla selva e quando l'autista ci disse che non poteva più andare oltre, alcuni mulattieri ci vendettero le mule per caricare le signore, le nostre masserizie e continuare a piedi. Camminammo per diversi giorni da un rancio all'altro ed arrivammo a Ixcán, un villaggio sul fiume dello stesso nome che è affluente del Lacantún. I militari che lo proteggevano videro molto bene la carabina e la pistola che avevamo, ma si comportarono bene e non dissero niente. Essi ci spiegarono che l'unica maniera per arrivare alla nostra destinazione era scendere per il fiume e dato che non c'erano lance, costruimmo alcune zattere di sughero, proprio come le facevamo da bambini nella nostra terra. Questo ci fece ritardare di un paio di giorni, ma ce la facemmo in mezzo a molte difficoltà. Nella zattera più grande ci stavano circa 12 persone e nelle più piccole quattro o sei. Davanti in avanscoperta ce n'era una con un solo compagno, perché non conoscevamo il fiume e c'erano parti pericolose nelle quali era necessario accostare e scendere. Furono due giorni interi di navigazione e di paura; di notte ci fermammo su una spiaggia dove, per fortuna, alcune persone che ci regalarono mais e fagioli perché era finito il cibo. Al fine arrivammo a Tlatizapán, un posto qui vicino dove viveva il tenente che cercavamo. Egli ci diede l'opportunità di entrare nel suo gruppo di richiedenti di terre dietro pagamento di 5 mila pesos per diritto e poiché avevamo finito i soldi, negoziammo i pagamenti in cambio di lavoro.

- Quando avete costruito il villaggio?

- Quando arrivammo a Tlatizapán ci organizzammo subito come villaggio. Per noi era molto importante mantenere viva la comunità, costruire buone capanne, tracciare strade, e preservare l'intimità delle famiglie..... Molto presto costruimmo la scuola e qui fummo i primi ad avere un maestro, malgrado esistessero già Benemérito de las Américas, Pico de Oro e Galaxia, le tre comunità più vecchie della regione. Un giorno il tenente portò un quadro del Signore della Buona Morte ed un altro della Vergine di Guadalupe per la cappella. Io sono ateo e mi opposi, ma gli altri volevano avere una religione. Ci furono frizioni, i vecchi mi criticarono e quando, nell'ottanta, 22 famiglie si trasferirono qui a "Reforma Agraria" (un paio di chilometri a monte, N.d.R.) si costruì la cappella.

- Da che cosa è nata la necessità da rispettare la natura?

Orchidea della Lacandona
Fotografia: Claudio Albertani

- Nella zona di Tuxtepec, da dove venivamo, c'era la selva. Ai tempi dei nostri genitori c'erano perfino guacamayas, ma noi non li abbiamo mai conosciuti e così, facendo il primo regolamento comunitario, abbiamo pensato di proteggere l'ecosistema. Nel 1981 abbiamo cercato l'appoggio del governo per seminare cacao, cardamomo ed altre coltivazioni che non implicano la distruzione della selva. Dopo sette anni, tuttavia, siamo stati costretti ad abbattere più di 3 mila piante perché non erano produttive. Di fallimento in fallimento, è nata l'idea dal centro di ecoturismo che ci offre l'opportunità di vivere della selva senza distruggerla. Seminiamo mais ed abbiamo alcuni capi di bestiame ma preserviamo 1.450 ettari già decretati a riserva. Che cosa offriamo? Per esempio, le guacamayas. Si possono visitare i nidi naturali e fare una passeggiata guidata sul sentiero che, a poco a poco, abbiamo aperto nella selva. C'è il tragitto in lancia dentro la riserva di Montes Azules, sui fiumi Lacantún e Zendales dove si possono vedere coccodrilli, tapiri, scimmie ragno, scimmie saraguatos, guacamayas, fagiani, tucani, aironi, cinghiali, cervi coda bianca.... Abbiamo una capanna ristorante, due capanne appartamenti, un imbarcadero ed un parcheggio. Abbiamo altre 8 stanze doppie con letto matrimoniale e cucina. Abbiamo un'area campeggio con servizi sanitari, docce ed alcune capanne collettive per i turisti con minori possibilità.

- Chi sono i predatori della selva Lacandona?

- È curioso ma nell'89, il "Grupo de los Cien" c'attaccò come eco-distruttori. A noi che tanto lottiamo per conservarla. Dicevano che la selva aveva un milione di ettari e che ne rimanevano solo 700 mila e che si continuava ad abbattere. Bisogna tuttavia essere chiari: il campesino non è il vero predatore. In primo luogo, la distruzione non è di ora, ha più di 100 anni ed è sempre stata portata avanti dal. Ancora recentemente i funzionari favorivano l'insediamento di colonie in piena selva. Era un commercio redditizio: spingevano i contadini a disboscare ed essi si tenevano il legname pregiato. Ci sono famiglie in Chiapas - come, per esempio, quella dell'ex governatore Absalón Castellanos (lo stesso che nel 1994 fu sequestrato dall'EZLN e liberato dopo pochi giorni, N.d.R.) - che si sono arricchite in maniera indecente. Gran parte dei campesinos di Marqués de Comillas sono arrivati negli anni settanta - alcuni un po' prima - quando già erano stati devastati più di 800 mila ettari. La stessa cosa accadde in Campeche, in Quintana Roo ed in altre parti. L'obiettivo era risolvere il problema dei latifondisti e calmare la rivendicazione alla terra senza considerare le conseguenze. I campesinos arrivati qui sono originari di Oaxaca, Michoacán, Guerrero, stato del Messico e tutti quanti esigevamo che si colpissero le proprietà o i grandi latifondi. Ma il governo ci rispose: "No, posso darvi qualcosa solo qui nella selva".

- Fino a quando è durata questa politica?

- Nel 1989, inaspettatamente, il governatore Patrocinio González Garrido proibì il disboscamento. Nello stesso tempo, incominciò una campagna per colpevolizzare i campesinos del degrado ambientale. Ma noi campesinos non siamo mai stati i distruttori della selva. Qui i saccheggiatori sono stati i militari che catturavano le tartarughe e le guacamayas per venderli. O i ricchi di Tabasco che venivano in aereo da turismo a cacciare animali rari. Proprio qui abbiamo requisito le armi ad un segretario di Governo dello stato di Veracruz che veniva, anno dopo anno, a cacciare la tigre ed ammazzava molte scimmie per usarle come esche. E' stato duro, ma ci siamo riusciti: non vengono più.

- Sappiamo che una Ong presumibilmente ecologista, Conservación Internacional, ha vari progetti nella regione. Che opinione avete?

- Questa è una Ong formata da funzionari del precedente governo federale, come l'ex segretaria all'Ambiente, Julia Carabias, e l'ex presidente Ernesto Zedillo, che si dedica alla biopirateria ed al turismo esclusivo. Recentemente, CI ha realizzato due stazioni di ricerca, una a Chajúl ed un'altra alla foce del fiume Zendales col Lancatún. La seconda è completamente illegale perché si trova in piena biosfera dei Montes Azules. Si tenga presente che se noi, i campesinos, osiamo violare questa regione, ci mandano subito l'Esercito.

- Quali sono state per voi le conseguenze della sollevazione zapatista?

- Lo zapatismo non ci provocato alcun danno; al contrario, sotto la pressione degli avvenimenti, il governo dovette asfaltare la strada sul confine ed aprire centinaia di chilometri di strade verso le comunità. Potremmo dire che nella zona di Marqués de Comillas è servito, ci ha appoggiato.

* Claudio Albertani è professore all'Istituto di Umanistica e Scienze Sociali dell'Università di Città del Messico. Giovanni Proiettis è professore all'Università Autonoma del Chiapas, a San Cristobal, e corrispondente in Messico per il quotidiano italiano Il Manifesto.


(tradotto dal Comitato Chiapas “Maribel” – Bergamo)



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