La bandiera multicolore della resistenza
IL MONDO: SETTE PENSIERI NEL MAGGIO 2003
Subcomandante Marcos
Introduzione
MENTRE si stanno deteriorando i calendari del Potere e le grandi corporazioni dei mezzi di comunicazione oscillano tra il grottesco e le tragedie che la classe politica mondiale promuove e di cui è protagonista, in basso, nel grande ed esteso basamento della traballante Torre di Babele moderna, i movimenti non cessano e, benché ancora balbettanti, incominciano a recuperare la parola e la capacità di essere specchio e cristallo. Mentre in alto si decreta la politica del disaccordo, nel sotterraneo del mondo gli altri ritrovano se stessi e l'altro che, essendo differente, è l'altro "in basso".
Come parte di questa ricostruzione della parola specchio e cristallo, l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha riannodato dialoghi con movimenti e organizzazioni sociali e politiche nel mondo. In primo luogo, con fratelli e sorelle di Messico, Italia, Francia, Germania, Svizzera, dello Stato Spagnolo, dell'Argentina e degli Stati Uniti, si tratta di andar costruendo un'Agenda comune di discussione.
Non si pretende di stabilire accordi politici e programmatici, né di tentare una nuova versione dell'Internazionale. Tanto meno si tratta di unificare concetti teorici o di uniformare concezioni, ma di trovare e/o costruire punti comuni di discussione. Qualcosa come costruire immagini teoriche e pratiche che siano viste e vissute da luoghi diversi.
Come parte di questo sforzo d'incontro, l'EZLN presenta ora questi 7 pensieri. L'"ancorarli" a un orizzonte spaziale e temporale significa, da parte nostra, un riconoscimento dei nostri limiti teorici, pratici, e, soprattutto, nella visione universale. Questo è il nostro primo apporto alla costruzione di un'Agenda mondiale di discussione.
Ringraziamo la rivista messicana Rebeldía, che ha aperto le sue pagine a questi pensieri. E allo stesso modo ringraziamo le pubblicazioni che in Italia, Francia, nello Stato Spagnolo, negli USA e in America Latina fanno lo stesso.
I. Teoria
Nei movimenti politici e sociali si suole eludere il luogo della teoria (e dell'analisi teorica). Tuttavia, tutto quel che è evidente di solito nasconde un problema, in questo caso: quello degli effetti di una teoria in una pratica e del "riflesso" teorico di quest'ultima. E non solo, il problema della teoria è anche il problema di chi produce questa teoria.
Non metto sullo stesso piano la nozione di "teorico" o "analista teorico" con quella di "intellettuale". Quest'ultima è più ampia. Il teorico è un intellettuale, però l'intellettuale non sempre è un teorico.
L'intellettuale (e, quindi, il teorico) sente di avere il diritto di esprimere opinioni sui movimenti. Non è suo diritto, è suo dovere. Alcuni intellettuali vanno oltre e si trasformano nei nuovi "commissari politici" del pensiero e dell'azione, distribuiscono etichette di "buono" o "cattivo". Il loro "giudizio" ha a che vedere con il posto in cui stanno e con il posto in cui aspirano.
Noi pensiamo che un movimento non debba "restituire" i giudizi che riceve e catalogare gli intellettuali come "buoni" o "cattivi", a seconda di come qualificano il movimento. L'anti-intellettualismo non è altro che una propria apologia malintesa, e come tale, definisce un movimento come "nella pubertà".
Noi crediamo che la parola lasci un'orma, che le orme segnino delle rotte, che le rotte implichino definizioni e compromessi. Coloro che impegnano la loro parola a favore o contro un movimento non solo hanno il dovere di pronunciarla, ma anche quello di "renderla acuta", pensando ai loro obiettivi. "A favore di che cosa?" e "Contro che cosa?" sono domande che devono accompagnare la parola. Non per zittirla o abbassare il suo volume; ma per completarla e renderla effettiva, vale a dire, perché chi parla venga ascoltato da parte di chi deve ascoltarlo.
Produrre teoria da un movimento sociale o politico non è lo stesso che farlo dall'accademia. E non dico "accademia" nel senso di una asetticità o "oggettività" scientifica (inesistenti); ma solo per segnalare il luogo di uno spazio di riflessione e produzione intellettuale "fuori" da un movimento. E "fuori" non vuole dire che non vi siano "simpatie" o "antipatie", ma che questa produzione intellettuale non si dà dal movimento, ma sopra di esso. Così, l'analista accademico valuta e giudica bontà e difetti, conquiste ed errori dei movimenti passati e presenti, e, inoltre, arrischia profezie su strade e destini.
"Il teorico da scrivania dimentica"
A volte accade che alcuni degli analisti d'accademia aspirino a dirigere un movimento, cioè che il movimento segua le loro direttive. Allora, il rimprovero fondamentale dell'accademico è che il movimento non gli "obbedisce", così che tutti gli "errori" del movimento si devono, fondamentalmente, al fatto che non vede con chiarezza quel che per l'accademico è evidente.
Smemoratezza e disonestà sogliono farla da padrone (non sempre, questo è vero) in questi analisti da scrivania. Un giorno dicono una cosa e predicono qualcosa, il giorno dopo capita il contrario, ma l'analista ha perso la memoria e torna a teorizzare dimenticando quel che aveva detto in precedenza. Non solo, è anche disonesto, perché non si prende il disturbo di rispettare i suoi lettori o ascoltatori. Non dirà mai "ieri ho detto questo ed è successo o non è successo il contrario, mi sono sbagliato".
Agganciato all'"oggi" dei media, il teorico da scrivania ne approfitta per "dimenticare". Nella teoria, questo accademico produce l'equivalente di uno spuntino dell'intelletto, ovvero non alimenta, intrattiene.
Altre volte, un movimento supplisce al suo spontaneismo con il patrocinio teorico dell'accademia. La soluzione di solito è peggiore del male. Se l'accademia si sbaglia, "dimentica"; se il movimento si sbaglia, fallisce. In certe occasioni, la direzione di un movimento cerca un "alibi teorico", cioè qualcosa che legittimi e dia coerenza alla sua pratica, e si presenta all'accademia per fare provviste. In questi casi la teoria non è che una apologia acritica con un pizzico di retorica.
Noi crediamo che un movimento debba produrre la propria riflessione teorica (occhio: non la propria apologia). In essa può incorporare ciò che è impossibile per un teorico da scrivania, ossia la pratica trasformatrice di questo movimento.
Noi preferiamo ascoltare e discutere con quelli che analizzano e riflettono teoricamente nei e con i movimenti e le organizzazioni, e non fuori di essi o, ciò che è peggio, sulle spalle di questi movimenti. Tuttavia, ci sforziamo di ascoltare tutte le voci, prestando attenzione non a chi parla ma da dove si parla.
Nelle nostre riflessioni teoriche parliamo di quelle che noi vediamo come tendenze, non come fatti consumati o inevitabili. Tendenze che non solo non si sono trasformate in omogenee ed egemoniche (ancora), ma che possono (e devono) essere invertite.
"Una forte carica morale"
La nostra riflessione teorica come zapatisti non è normalmente su noi stessi, ma sulla realtà in cui ci muoviamo. Ed è, inoltre, di carattere approssimato e limitato nel tempo, nello spazio, nei concetti e nella struttura di questi concetti. Perciò respingiamo le pretese di universalità e di eternità in ciò che diciamo e facciamo.
Le risposte alle domande sullo zapatismo non stanno nelle nostre riflessioni e nelle analisi teoriche, ma nella nostra pratica. E, nel nostro caso, la pratica ha una forte carica morale, etica. Ossia, tentiamo (non sempre in modo fortunato, certo) un'azione non solo coerente con una analisi teorica, ma anche, e soprattutto, coerente con quel che consideriamo il nostro dovere. Cerchiamo di esser conseguenti, sempre. Talvolta per questo non siamo pragmatici (un altro modo di dire "una pratica senza teoria né principi").
Le avanguardie sentono il dovere di dirigere qualcosa o qualcuno (e in questo senso hanno molte somiglianze con i teorici dell'accademia). Le avanguardie si propongono di guidare e lavorano per questo. Alcune sono perfino disposte a pagare il prezzo degli errori e delle deviazioni della loro azione politica. L'accademia no.
Noi sentiamo che il nostro dovere è iniziare, continuare, accompagnare, trovare e aprire spazi per qualcosa e per qualcuno, noi compresi.
Un percorso, anche meramente enunciativo, delle distinte resistenze in una nazione o nel pianeta non è solo un inventario, lì si intravedono, più che dei presenti, dei futuri.
Coloro che sono parte di questo percorso e di chi fa l'inventario, possono scoprire cose che coloro che sommano e sottraggono alle scrivanie delle scienze sociali non riescono a vedere, a capire, che sono importanti, sì, chi cammina e il suo passo, ma soprattutto è importante il cammino, la rotta, la tendenza. Segnalare e analizzare, discutere e polemizzare: non solo lo facciamo per sapere che cosa succede e capirlo, ma anche, e soprattutto, per cercare di trasformarlo.
La riflessione teorica sulla teoria si chiama "Metateoria". La Metateoria degli zapatisti è la nostra pratica.
II. Lo Stato Nazionale e la polis
Nel calendario in agonia degli Stati Nazionali, la classe politica era quella che aveva il Potere di decisione. Un Potere che certo teneva conto del potere economico, di quello ideologico e sociale, ma manteneva una relativa autonomia rispetto ad essi. Questa autonomia relativa gli dava la capacità di "guardare più in là" e di condurre le società nazionali verso quel futuro. In quel futuro, il potere economico non solo continuava ad essere potere, ma era più potente.
Nell'arte della politica, l'artista della polis, il governante, era allora un conducente specializzato, un conoscitore delle scienze e delle arti umane, inclusa quella militare. La sapienza del governare consisteva nella gestione adeguata delle diverse risorse di conduzione dello Stato. Il maggiore o minore ricorso a una o a varie di queste risorse definiva lo stile di governo. Equilibrio di amministrazione, politica e repressione, una democrazia avanzata. Molta politica, poca amministrazione e repressione nascosta, un regime populista. Molta repressione e niente politica e amministrazione, una dittatura militare.
"La società del Potere"
In quei tempi, nella divisione internazionale del lavoro, ai paesi a capitalismo sviluppato corrispondevano uomini (o donne) di Stato come governanti; ai paesi con capitalismo deforme toccavano governi di gorilla. Le dittature militari rappresentavano il vero volto della modernità: un volto animale, assetato di sangue. Le democrazie non erano solo una maschera che nascondeva quell'essenza brutale, ma preparavano anche le Nazioni a una nuova tappa in cui il denaro avrebbe trovato migliori condizioni di crescita.
La globalizzazione, ovvero la mondializzazione del mondo, non è segnata solo dalla rivoluzione tecnologica digitale. La sempre presente volontà internazionalista del Denaro ha trovato mezzi e condizioni per distruggere gli ostacoli che gli impedivano di seguire la sua vocazione: conquistare alla sua logica tutto il pianeta. Alcuni di questi ostacoli, le frontiere e gli Stati Nazionali, hanno sofferto e soffrono una guerra mondiale (la Quarta). Gli Stati Nazionali affrontano questa guerra con scarsità di risorse economiche, politiche, militari, ideologiche e, come dimostrano le guerre recenti e i trattati di libero commercio, di difese giuridiche.
La storia non è finita con la caduta del Muro di Berlino e il crollo del campo socialista. Il Nuovo Ordine Mondiale continua ad essere un obiettivo nell'ordine di battaglia del denaro, ma nel suo campo giace, agonizzando e sperando nell'arrivo di qualche aiuto, lo Stato Nazionale.
Chiamiamo "società del Potere" il collettivo di direzione che ha sottratto alla classe politica la facoltà di prendere decisioni fondamentali. Si tratta di un gruppo che non detiene solo il potere economico e non solo in una nazione. Più che aggregata in modo organico (secondo il modello della "società anonima"), la "società del Potere" si caratterizza per condividere obiettivi e metodi comuni. Ancora in un processo di formazione e consolidamento, la "società del Potere" cerca di riempire il vuoto lasciato dagli Stati Nazionali e dalle loro classi politiche. La "società del Potere" controlla organismi finanziari (e, di qui, paesi interi), mezzi di comunicazione, imprese industriali e commerciali, centri educativi, eserciti e polizie pubbliche e private. La "società del Potere" desidera uno Stato Mondiale con un governo Sovranazionale, ma non lavora alla sua costruzione.
La globalizzazione ha significato un'esperienza traumatica per l'umanità, sì, ma soprattutto per la "società del Potere". Sfiancata dallo sforzo di passare, senza alcuna mediazione, dai quartieri o dalle comunità alla Hiper-Polis, dal locale al globale, e mentre si costruisce il governo Sovranazionale, la "società del Potere" di rifugia di nuovo in uno Stato Nazionale che si disfa.
Lo Stato Nazionale della "società del Potere" finge solamente un vigore che ha molto della schizofrenia. Un ologramma, questo è lo Stato Nazione nelle metropoli.
Mantenuto per decenni come referente di stabilità, lo Stato Nazionale tende a smettere di esistere, ma il suo ologramma resta, alimentato dai dogmi che lottano per riempire il vuoto prodotto non solo dalla globalizzazione, ma anche sottolineato da essa. La mondializzazione del mondo nel tempo e nello spazio è, per il Potere, qualcosa che non riesce a digerire. Gli "altri" non sono da un'"altra" parte, ma dovunque e a tutte le ore. E per il Potere l'"altro" è una minaccia.
Come affrontare questa minaccia? Inalberando l'ologramma della Nazione e denunciando l'"altro" come aggressore. Non è stato uno degli argomenti del signor Bush per le guerre in Afghanistan e Iraq, quello per cui entrambi minacciavano la "nazione" nordamericana? Ma, fuori della "realtà" creata dalla CNN, le bandiere che sventolano a Kabul e a Baghdad non sono quelle a stelle e strisce, ma quelle delle grandi imprese multinazionali.
"L'ologramma dello Stato-Nazione"
Nell'"ologramma dello Stato Nazione, l'illusione per eccellenza della modernità, c'est à dire, "la libertà individuale" si trova prigioniera in un carcere che non è meno oppressivo per il fatto d'essere globale. L'individuo svanisce in modo tale che nemmeno gli "eroi" del passato possono offrirgli la minima speranza di distinguersi. Il "self made man" non esiste più, e, posto che è impensabile parlare di "self made corporation", l'aspettativa sociale va alla deriva. Qual è la speranza? Tornare alla lotta nella strada, nel quartiere? Non se ne parla; la frammentazione è stata tanto spietata e incontrollata, che nemmeno queste unità minime si mantengono stabili. La famiglia-casa? Dove e come? Se la televisione è entrata da regina per la porta principale, internet è entrato come un golpista per la fessura dello spazio cibernetico. Nei giorni scorsi, quasi ogni casa del pianeta è stata invasa dalle truppe britanniche e nordamericane che hanno occupato l'Iraq.
Lo Stato Nazione che si arroga ora il titolo di "mano divina di Dio" (gli Stati Uniti d'America), esiste solo alla televisione, alla radio, in alcuni periodici e riviste... e nei cinema. Nella fabbrica dei sogni dei grandi consorzi mediatici, i presidenti sono intelligenti e simpatici, la giustizia trionfa sempre; la comunità sconfigge il tiranno, la ribellione è la risposta pronta e efficace all'arbitrarietà, e il "e vissero felici e contenti" continua ad essere il finale promesso alla società nazionale. Ma nella realtà le cose sono all'opposto.
"Gli eroi di New York"
Dove sono gli eroi dell'invasione in Afghanistan? Dove quelli dell'occupazione dell'Iraq? Voglio dire, l'11 di settembre del 2001 ha avuto i suoi eroi, i pompieri e gli abitanti di New York che hanno lavorato per salvare le vittime del delirio messianico. Ma questi eroi reali non servono al Potere, per questo sono stati rapidamente dimenticati. Per il Potere l'"eroe" è quello che conquista (ovvero, distrugge), non quello che salva (ovvero, costruisce). L'immagine del pompiere, coperto di cenere, che lavora tra le rovine delle torri gemelle a New York, è stata sostituita da quella del carro armato che abbatte la statua di Saddam a Baghdad.
La polis moderna (uso il termine "polis" invece di "città" per sottolineare che mi riferisco a uno spazio urbano di relazioni economiche, ideologiche, culturali, religiose e politiche), mantiene solo, dell'immagine classica (Platone), quella superficiale e frivola del gregge (il popolo) e del pastore (il governante).
Ma la modernità ha completamente messo a soqquadro l'immagine platonica. Ora si tratta di un complesso industriale: alcune pecore vengono tosate e altre sacrificate per ottenere cibo, le "malate" sono isolate, eliminate e "cremate" perché non contaminino le altre.
Il neoliberismo si è presentato come l'amministrazione efficace di quella miscela tra mattatoio e recinto che è la polis, ma ha fatto sapere che l'efficacia era possibile solo rompendo le frontiere della polis ed estendendole (ovvero, invadendo) a tutto il pianeta: la Hiper-Polis.
Però accade che l'"amministratore" (il governante-pastore) è impazzito e ha deciso di sacrificare tutte le pecore, anche se il padrone non le può mangiare tutte... ed anche se non restano pecore da tosare o da sacrificare domani. Il vecchio politico, quello del passato (e non alludo a quello "avanti Cristo", ma a quello della fine del secolo ventesimo), si specializzava nel mantenere le condizioni per la crescita del gregge affinché vi fossero pecore per l'una e l'altra cosa e, inoltre, si preoccupava che le pecore non si ribellassero.
Il neo-politico non è più un pastore "colto", è un lupo stupido e ignorante (che non si nasconde nemmeno sotto una pelliccia di pecora), che si accontenta di mangiare la parte di gregge che gli cedono, e che però ha abbandonato i suoi compiti fondamentali.
Il gregge non tarderà a scomparire... o a ribellarsi.
Si potrebbe pensare che ciò di cui si tratta non è di "umanizzare" il recinto-fabbrica-mattatoio della polis moderna, ma di distruggere quella logica, strappare la pelliccia di pecora e, senza pecore, scoprire che il "pastore-carnefice-tosatore" non solo è inutile, ma che è d'intralcio?
La logica degli Stati Nazionali era (a grandi linee): una polis-città aggrega un territorio (e non il contrario), una provincia aggrega una serie di polis, una nazione aggrega una serie di province. Ergo, la polis-città era la cellula di base della Nazione-Stato e la Polis-Capitale imponeva la sua logica al resto delle polis. C'era allora una sorta di causa comune, uno o più elementi che aggregavano questa Polis dentro di sé, così come c'erano elementi che aggregavano lo Stato Nazione (territorio, lingua, moneta, sistema giuridico-politico, cultura, storia, eccetera). Questi elementi sono stati erosi e fatti saltare in aria (molte volte non solo in senso figurato) dalla globalizzazione.
Però: che ne è della Polis nel disastro attuale (che arriva quasi fino alla scomparsa) dello Stato Nazionale? Qual è venuto per primo, la Polis o lo Stato Nazionale? Il disastro dell'uno o dell'altro? Non importa, quanto meno per quel che dico ora, se la frammentazione (e, di qui, la tendenziale scomparsa) dello Stato Nazionale si deve alla frammentazione della polis o viceversa. Non è di questo che sto parlando.
Come nello Stato Nazionale, anche nella Polis si è smarrito ciò che la teneva insieme. Ciascuna Polis non è altro che una frammentazione disordinata e caotica, una sovrapposizione di polis che non sono solo differenti tra loro, ma anche, molto spesso, opposte.
"La Polis del Denaro"
Il Potere del Denaro esige uno spazio speciale che non sia solo specchio della sua grandezza e del benessere, ma anche che lo protegga dalle "altre" polis (quelle degli "altri") che sono nei paraggi e la "minacciano". Queste "altre" polis non somigliano alle comunità barbare del passato. La Polis del Denaro cerca di incorporarle nella sua logica e ha bisogno di loro, però, allo stesso tempo, le teme.
Dove prima c'era uno Stato Nazionale (o ancora si competeva lo spazio per averne uno), c'è ora una disordinata accumulazione di Polis. Le Polis del Denaro che ci sono nel mondo sono le "case" della "società del Potere". Tuttavia, dove prima c'era un sistema giuridico e istituzionale che regolava la vita interna degli Stati Nazionali e la relazione tra essi (la struttura giuridica internazionale), ora non c'è nulla.
Il sistema giuridico internazionale è obsoleto, e il suo posto sta per essere occupato dal sistema "giuridico" spontaneo del Capitale: la concorrenza brutale e spietata con qualunque mezzo e la guerra tra di loro.
Che sono i programmi di sicurezza pubblica delle città, se non la protezione di coloro che hanno tutto da quelli che non hanno niente? "Mutatis mutandis", i programmi di sicurezza nazionale non sono più nazionali nei confronti di altre nazioni, ma sono contro tutto e ovunque. L'immagine della città assediata (e minacciata) da cinture di miseria e l'immagine della nazione insidiata da altri paesi, hanno cominciato a trasformarsi. La povertà e l'insubordinazione (questi "altri" che non hanno il buon gusto di scomparire) non sono più in periferia, ma si possono vedere quasi in ogni parte delle città... e dei paesi.
Quel che segnalo è che il "riordino", che si pratica nei governi delle polis, di questi frammenti, come saggio o "allenamento" per il riordino nazionale, è inutile. Perché si tratta, più che di riordinare, di isolare i frammenti "nocivi" e di attenuare l'impatto che possono avere le loro proteste, lotte e resistenze nella polis del denaro.
Chi governa la città, amministra solo il processo di frammentazione della polis, in attesa di passare ad amministrare il processo di frammentazione nazionale.
La privatizzazione dello spazio delle città non è altro che il timore di violare le proprie disposizioni. La polis si è trasformata in uno spazio anarchico di isole. La "convivenza" tra pochi è resa possibile dal timore comune nei confronti dell'"altro". Viva le strade private! Seguiranno i quartieri privati, le città, le province, le nazioni, il mondo... tutto privatizzato, ossia isolato e protetto dall'"altro". Ma il vicino benestante non tarderà ad essere anche lui un "altro".
Quel che non ha fatto la guerra nucleare, possono farlo le multinazionali. Distruggere tutto, incluso quello che dà loro ricchezza.
Un mondo che non contenga nessun mondo, nemmeno il proprio. Questo è il progetto della Hiper-Polis, che già si leva sulle rovine dello Stato Nazione.
III. La politica
Non ci sono più cause nazionali in grado di aggregare le polis, le nazioni, le società? O non ci sono politici capaci di impugnare queste cause? Il discredito della politica è qualcosa di più di questo: ha qualcosa dell'odio e del rancore. Il cittadino comune sta passando, tendenzialmente, dall'indifferenza di fronte alle angherie della classe politica, a un ripudio che assume forme sempre più "espressive". Il "gregge" resiste alla nuova logica.
Il politico di un tempo definiva il compito comune. Il moderno tenta di farlo e fallisce: perché? Forse perché egli stesso ha coltivato il suo discredito e, meglio, più che prostituire una causa, ha prostituito un modo di agire.
Senza una realtà come sponda, la classe politica moderna si costituisce da un ologramma non della misura delle sue aspirazioni, ma della misura del suo attuale calendario: chi governa un villaggio non ha rinunciato a governare una città, una provincia, una nazione, il mondo intero, è solo che oggi gli tocca un villaggio... e bisogna aspettare le prossime elezioni per il passo successivo.
Se lo Stato Nazionale prima aveva la capacità di "guardare più in là" e proiettare le condizioni necessarie perché il capitale si riproducesse "in crescendo" e per aiutarlo a uscire dalle sue crisi periodiche, la distruzione delle sue basi fondamentali gli impedisce di soddisfare questo compito.
La "nave" sociale va alla deriva e il problema non è solo la mancanza di un capitano capace, il fatto è che hanno rubato il timone e non si trova da nessuna parte.
Se il denaro è stato la dinamite, gli "operai" della demolizione sono stati i politici. Distruggendo le basi dello Stato Nazionale, la classe politica tradizionale ha distrutto anche il loro alibi: gli atleti onnipotenti della politica ora si guardano sorpresi e increduli... un commerciante lagnoso, senza alcuna nozione delle arti dello Stato, non li ha nemmeno sconfitti, semplicemente li ha soppiantati.
"Fuochi pirotecnici elettorali"
Questa classe politica tradizionale è incapace di ricostruire le basi dello Stato Nazionale. Come un avvoltoio si accontenta di nutrirsi con le spoglie dei paesi, e si ingozza nel fango e nel sangue sui quali si costruisce l'impero del denaro. Mentre ingrassa, il Signore del Denaro aspetta a tavola...
La libertà del mercato ha sofferto una terribile metamorfosi: ora sei libero di scegliere in quale centro commerciale andare, però il negozio è lo stesso e la marca del prodotto pure. La fallace libertà originaria nella tirannia della merce, "libera offerta e libera domanda", è andata in pezzi.
Le basi della "democrazia occidentale" sono state fatte saltare in aria. Sulle loro rovine si fanno campagne ed elezioni. I fuochi pirotecnici elettorali esplodono molto in alto, tanto da non riuscire a illuminare nemmeno un po' le rovine che ricoprono l'azione politica.
Allo stesso modo, la colonna vertebrale dell'agire politico, la Ragione di Stato, non serve più, ora è la Ragione del Mercato quella che dirige la politica. Perché impiegare politici se i mercatologi capiscono meglio la nuova logica del Potere?
Il politico, ossia il professionista dello Stato, è stato soppiantato dal gestore. Così la visione di Stato si trasforma in visione di marketing (il gestore, il manager, non è che un caporale di una volta, che "crede" fermamente che il successo dell'impresa sia il suo stesso successo) e l'orizzonte si accorcia, non solo nella distanza, ma anche nella dimensione.
I deputati e i senatori non fanno più leggi, a questo lavoro provvedono le "lobby" di assistenti e consulenti.
Orfani e vedovi, i politici tradizionali e i loro intellettuali si strappano i capelli (quando li hanno ancora) e collaudano una volta di più nuovi alibi per offrirli nel mercato delle idee: è inutile, lì abbondano i venditori e non c'è nessun compratore.
Rivolgersi alla classe politica tradizionale come "alleata" nella lotta di resistenza è un buon esercizio... di nostalgia. Rivolgersi ai neo-politici è un sintomo di schizofrenia. Là in alto non c'è niente da fare, se non giocare a che prima o poi si possa fare qualcosa.
C'è chi si dedica a immaginare che il timone esiste e a litigare sul suo possesso. C'è chi cerca il timone, sicuro che sia rimasto da qualche parte. E c'è chi fa di un'isola non un rifugio per l'auto-soddisfazione, ma una barca per incontrare un'altra isola e poi un'altra e un'altra...
IV. La guerra
Nello stress postmoderno della società del Potere, la guerra è il divano. La catarsi della morte e della distruzione allevia ma non cura. Le crisi attuali sono peggiori di quelle del passato e, quindi, la soluzione radicale che il Potere trova loro, la guerra, è peggiore delle soluzioni di una volta.
Ora, l'imbroglio più grande della storia dell'umanità, la globalizzazione, non ha nemmeno la delicatezza di cercare di giustificarsi. Migliaia di anni dopo la nascita della parola, e con essa della ragione argomentata, la forza torna ad occupare un posto cruciale e di decisione.
Nella storia del consolidamento del Potere, la convivenza umana si è trasformata in coesistenza. E questa in guerra. La coppia dominante-dominato definisce ora la comunità mondiale e pretende di essere il nuovo criterio di "umanità", anche per i frammenti più dispersi della società globale.
Il vuoto lasciato dagli uomini di Stato è riempito, nell'ologramma dello Stato Nazionale, dai manager e dagli arrivisti: ma nell'ordine apparente del capitale, i militari di impresa (una nuova generazione che non solo legge e applica Tsun Tsu, ma che ha i mezzi materiali per mettere in pratica i suoi movimenti e le manovre) assumono la guerra militare (per differenziarla dalle guerre economiche, ideologiche, psicologiche, diplomatiche, ecc.) come un ulteriore elemento della loro strategia di mercato.
La logica del mercato (più profitti sempre e a qualsiasi costo) si impone sulla vecchia logica di guerra (distruggere la capacità di lotta dell'avversario). La legislazione internazionale disturba e quindi o deve essere ignorata, o distrutta. È finito il tempo delle giustificazioni plausibili, ora non si dà nemmeno più enfasi alle giustificazioni "morali" o anche "politiche" della guerra. Gli organismi internazionali sono monumenti inutili e costosi.
Per la società del Potere, l'essere umano può essere cliente o delinquente. Per involgarire il primo ed eliminare il secondo, il politico dà volto legale alla violenza illegittima del Potere. La guerra non ha più bisogno di leggi che la "giustifichino" o "avallino", basta ci siano politici che la dichiarino e firmino gli ordini.
Se il governo degli Stati Uniti si è arrogato il ruolo di "poliziotto" della Hiper-Polis, ci sarebbe da chiedersi che ordine voglia mantenere, che proprietà deve difendere, quali criminali deve arrestare e che legge dia coerenza e ordine alla sua azione. Ovvero, chi sono gli "altri" dai quali deve proteggere la società del Potere.
"Chi dirige la guerra?"
Non c'è peggior generale, per condurre una guerra, che un militare, perciò, un tempo, i grandi generali, i vincitori delle guerre (non quelli che combattevano le battaglie), erano politici, uomini di Stato. Ma se non ce ne sono più, allora, chi sta dirigendo l'attuale battaglia di conquista del mondo? Dubito che ci sia chi, sano di mente, possa sostenere che Bush o Rumsfeld abbiano diretto la guerra in Iraq.
Così che, o sono militari quelli che dirigono o non sono militari. Se lo sono, il risultato comincerà a vedersi tra poco. Il militare non si sente soddisfatto finché non distrugge totalmente il suo avversario. Totalmente significa non sconfiggerlo, ma farlo sparire, farla finita con lui, annientarlo. Così la soluzione della crisi può solo essere il preludio di una crisi maggiore, di un orrore che è impossibile descrivere con le parole.
E se non sono militari, allora, chi comanda? Le imprese multinazionali, si potrebbe rispondere. Ma esse hanno logiche che si sovrappongono a quelle degli individui e li comandano. Come un'entità con vita e intelligenza proprie, l'impresa addestra i suoi membri per andare in questa direzione. Quale? Quella del profitto. In questa logica, il denaro si dirige dove ottiene più possibilità di profitto rapido, crescente e continuo. Si dirigerà allora dove c'è di più o dove c'è di meno? Sì, l'impresa andrà, tendenzialmente, contro un'altra impresa.
Risolverà, l'esito della guerra in Iraq, la crisi che le grandi imprese affrontano? No, o per lo meno non nell'immediato. L'effetto di distrazione di un conflitto per le aspettative dello Stato-Nazionale-Con-Aspirazioni-A-Essere-Sovranazionale ha la durata di uno spot televisivo.
"Abbiamo già vinto in Iraq - diranno i cittadini degli Stati Uniti - E ora? Un'altra guerra? E dove? È questo il nuovo ordine mondiale? Una guerra dappertutto e a tutte le ore, interrotta solo dagli annunci pubblicitari?".
V. La cultura
Prostrata sul divano della guerra, la società del Potere rimescola i suoi complessi e i suoi fantasmi. Gli uni e gli altri hanno molti nomi e molti volti, ma un comune denominatore: "l'altro". Questo "altro" che, fino a prima della globalizzazione, era lontano nel tempo e nello spazio, che però la costruzione disordinata della Hiper-Polis ha trasportato nel "backyard", nel cortile di dietro della società del Potere.
La cultura dell'"altro" diventa l'odiato specchio. Ma non perché riflette il potere nella sua crudeltà inumana, ma perché racconta la storia dell'altro. Il diverso che non solo non dipende dall'"io" del Potere, ma che ha anche la sua storia e il suo splendore, senza nemmeno essersi reso conto dell'esistenza dell'"io" o aver supposto la sua futura apparizione.
Nella società del Potere, il fallimento dell'uomo nella convivenza, il suo essere nell'essere collettivo, si nasconde dietro il successo individuale. Ma quest'ultimo nasconde a sua volta che questo successo è possibile solo con la distruzione dell'altro, dell'essere collettivo. Per decenni, nell'immaginario del Potere, il collettivo ha occupato il posto del male, arbitrario, iracondo, crudele, implacabile. L'"altro" è il volto del ribelle Lucifero nella nuova "Bibbia" del Potere (che non predica la redenzione, ma la sottomissione) ed è necessario espellerlo di nuovo dal paradiso. Nella parte della spada fiammeggiante, le "smart bombs".
Il volto dell'"altro" è la sua cultura, lì è la sua differenza. Lingua, credenze, valori, tradizioni, storie, si fanno corpo collettivo in una Nazione e le permettono di distinguersi dalle altre e, grazie a questa differenza, di mettersi in relazione con altre. Una Nazione senza cultura è una identità senza volto, cioè senza occhi, senza orecchie, senza naso, senza bocca... e senza cervello.
Distruggere la cultura dell'"altro" è la forma più efficace per eliminarlo. Il saccheggio delle ricchezze culturali in Iraq non è stato il prodotto di disattenzione o disinteresse delle truppe di occupazione. È stata un'azione militare in più nel piano di guerra.
"La fobia verso la cultura"
Nelle grandi guerre, i grandi tiranni o genocidi dedicano sforzi speciali alla distruzione culturale. La somiglianza tra la fobia verso la cultura di Hitler e quella di Bush non si deve al fatto che manifestino sintomi comuni di follia. La somiglianza sta nei progetti di mondializzazione che animarono l'uno e dirigono l'altro.
La cultura è una delle poche cose che ancora mantengono vivo lo Stato Nazionale. L'eliminazione della cultura sarà il colpo di grazia. Al funerale nessuno parteciperà e non per mancanza di conoscenza, ma di "audience".
VI. Manifesti e manifestazioni
L'atto guerriero di fondazione del nuovo secolo non è il crollo delle torri gemelle, e tanto meno la caduta senza grazia né spettacolo della statua di Saddam. Il secolo XXI prende il via con il "NO ALLA GUERRA" globalizzato che ha restituito all'umanità la sua essenza e l'ha unita in una causa. Come mai prima nella storia dell'umanità, il pianeta è stato scosso da questo "NO".
Dagli intellettuali di tutte le taglie, fino agli abitanti analfabeti di angoli ignorati della terra, il "NO" si è trasformato in un ponte che ha unito comunità, popoli, villaggi, città, province, paesi, continenti. In manifesti e manifestazioni, il "NO" ha cercato la rivincita della ragione di fronte alla forza.
Benché questo "NO" si sia spento in parte con l'occupazione di Baghdad, c'è più speranza che impotenza nella sua eco. Tuttavia, alcuni si sono spostati nel terreno teorico, e hanno cambiato la domanda "Cosa fare per fermare la guerra?" in quest'altra: "Dove sarà la prossima invasione?".
C'è chi sostiene, ingenuo, che la dichiarazione del governo Usa sul fatto che non accadrà nulla contro Cuba dimostra che non c'è da temere un'azione militare nordamericana contro l'isola caraibica. I desideri del governo nordamericano di invadere e occupare Cuba sono reali, però sono qualcosa di più che desideri. Sono già piani con percorsi, tempi, contingenti, tappe, obiettivi parziali e successivi. Cuba non è solo un territorio da conquistare, è, soprattutto, un affronto. Uno sfregio intollerabile nella lussuosa automobile della modernità neoliberista? E i marine sono i carrozzieri. Se questi piani si concretizzano, allora si vedrà, come adesso in Iraq, che l'obiettivo non era deporre il signor Castro Ruz, e nemmeno imporre un cambio di regime politico.
L'invasione e occupazione di Cuba (o di qualunque altro punto della geografia mondiale) non necessita degli intellettuali "sorpresi" dalle azioni di uno Stato Nazionale (guarda caso l'ultimo che si mantenga tale in America Latina) per il controllo interno.
"L'indignazione degli intellettuali"
Se il governo nordamericano non si è commosso nemmeno per il tiepido rifiuto dell'ONU e dei governi del primo mondo, né si è scomposto con la condanna esplicita di milioni di esseri umani in tutto il pianeta, non lo turberanno né lo fermeranno le parole di rifiuto o di stimolo degli intellettuali (parlando di Cuba, recentemente si è saputo dell'"eroica" azione di soldati israeliani: hanno giustiziato un palestinese con un colpo alla nuca. Il palestinese aveva 17 mesi di età. C'è stata qualche dichiarazione, qualche manifesto con firme indignate? Orrore selettivo? Stanchezza del cuore? O il "condanniamo ovunque e chiunque" include già e per sempre tutte e ciascuna delle dosi di terrore con cui dall'alto affliggono quelli di sotto? Basta dire una volta "no"?).
Tanto meno lo fermeranno le mobilitazioni di protesta, per quanto massicce e continue siano, anche dentro agli Stati Uniti.
Voglio dire: NON SOLO.
Un elemento fondamentale è la capacità di resistenza dell'aggredito, l'intelligenza nel combinare modi di resistere e, qualcosa che può suonare come "soggettivo", la decisione degli esseri umani aggrediti. Il territorio da conquistare (si chiami Siria, Cuba, Iran, montagne del sud-est messicano) dovrebbe così trasformarsi in un territorio in resistenza. E non mi riferisco alla quantità di trincee, armi, trappole e sistemi di sicurezza (che sono, tuttavia, necessari), ma alla disposizione (il "Morale" diranno alcuni) di questi esseri umani a resistere.
VII. La resistenza
Le crisi precedono la presa di coscienza della loro esistenza, ma la riflessione sui risultati o le uscite da queste crisi si convertono in azioni politiche. Il rifiuto della classe politica non è un rifiuto al fare politica, bensì un modo di farla.
Il fatto che, nel molto limitato orizzonte del calendario del Potere, non appaia definita una nuova forma del fare politica non significa che essa non stia già procedendo in pochi o molti dei frammenti delle società in tutto il mondo.
Tutte le resistenze, nella storia dell'umanità, sono apparse inutili non solo alla vigilia, ma anche quando la notte dell'aggressione era già avanzata, ma il tempo corre, paradossalmente, a loro favore, se è concepita per questo.
Potranno cadere molte statue, ma se la decisione di generazioni si mantiene e alimenta, il trionfo della resistenza è possibile. Non avrà una data precisa né ci saranno parate fastose, ma la sconfitta prevedibile di un apparato che trasforma la sua macchina in un progetto di nuovo ordine, finirà per essere totale.
Non sto predicando la vuota speranza, ma ricordando un po' di storia mondiale, e, in ciascun paese, un po' di storia nazionale.
Vinceremo, non perché sia il nostro destino o perché così è scritto nelle nostre rispettive bibbie ribelli o rivoluzionarie, ma perché stiamo lavorando e lottando per questo.
Perciò è necessario un poco di rispetto verso l'altro che da un'altra parte resiste nel suo essere altro, e molta umiltà per ricordare che si può ancora imparare molto da questo essere altro, e saggezza per non copiare ma produrre una teoria e una pratica che non includano la superbia nei loro principi, ma che riconoscano i loro orizzonti e gli strumenti che servono per questi orizzonti.
"Ogni nota troverà il suo posto"
Non si tratta di rendere più solide le statue esistenti, ma di lavorare per un mondo dove le statue servano solo perché gli uccelli ci facciano sopra la cacca.
Un mondo che contenga molte resistenze. Non un'internazionale della resistenza, ma una bandiera policroma, una melodia con molti toni. Se sembra stonata è solo perché il calendario di sotto sta ancora preparando la partitura dove ogni nota troverà il suo posto, il suo volume e, soprattutto, il suo legame con le altre note.
La storia è lungi dal terminare. In futuro, le convivenze saranno possibili, non grazie alle guerre che hanno preteso di dominare l'altro, ma per i "no" che hanno dato agli esseri umani, come nella preistoria, una causa comune e, con essa, una speranza: quella della sopravvivenza... per l'umanità, contro il neoliberismo.
Dalle montagne del sud-est messicano
Subcomandante Insurgente Marcos
(traduzione di Carta - www.carta.org)