La Jornada 22 aprile 2003

Marcos Roitman Rosenmann

A proposito di Cuba

La mente vuota. Si può dire di tutto sulla realtà politica cubana e ci si trova legati da una valutazione ideologica il cui effetto più immediato è bloccarsi sulle proprie posizioni: o tutto o niente.

Così, risulta quasi impossibile realizzare un esercizio teorico di comprensione senza cadere nella trappola manichea: o con me o contro di me. In questo modo la pratica della critica si vede eclissata di fronte al bisogno da un lato di giustificare l'ingiustificabile e dall'altro di rifiutare qualsiasi successo della società cubana. Buttare l'acqua sporca con il bambino dentro non è buona soluzione.

Forse è necessario spiegare i problemi e separare cause da effetti. Non si tratta di stracciarsi i vestiti. Non credo neppure che la soluzione consista in aggettivare comportamenti politici. Chiamare assassini alcuni e fascisti altri non aiuta né fornisce strumenti per l'analisi della realtà del paese. È conveniente, ripeto, separare e non mescolare i problemi.

Discutere sulla pena di morte, sul suo impianto e sul suo seguente rifiuto nelle società occidentali, delle quali Cuba fa parte, ci pone un dibattito etico sui limiti del potere di coercizione esercitabile. La grande questione in questo caso è la condizione umana.

Il problema è di fondo davvero, visto che intacca il più profondo dell'essere sociale. Non c'è da lasciar da parte il fatto che la maggioranza dell'opinione pubblica considera necessario abolire la pena capitale. Si tratta di bandire la pratica attuale dei codici penali.

Quasi tutti, per principio, siamo contrari all'applicazione di questa condanna come risorsa giuridica per redimere delitti, per abietti che siano. L'idea di una giustizia distributiva e compensatoria non passa attraverso la rivendicazione dell'assassinio legale. Definiamo selvaggi e barbari i paesi che la praticano. Ci produce ripulsa mentre condanniamo apertamente e per principio etico il suo esercizio.

Qui non facciamo distinzioni, tutti consideriamo fuori moda ed ingiustificata la privazione della vita come castigo. Al di là dei motivi che possono indurre un giudice a decretare questa pena, ciò che si mette in discussione è proprio la sua esistenza, visto che significa annientare la vita.

Visto in questa dimensione, il problema non può essere quello di spostare meccanicamente la critica al regime politico.

Il dibattito sulla pena di morte è circoscritto a una considerazione etico-morale circa l'esistenza umana.

Nessuno può privare un altro della vita.

Senza dubbio però, è considerato accettabile applicare pene che prevedano una vita degradante fino a provocare il suicidio, la pazzia o l'autismo sociale dei colpevoli.

Nessuna di queste considerazioni è valutata quando parliamo della pena di morte. Morire in vita non è tanto brutto. L'ergastolo ci pare benevolo. Se si applicano condanne a 30 o a 40 anni pochi mostrano la loro avversione.

La maggioranza dei paesi del nostro intorno culturale, per definire un quadro di riferimento comune, non sbattono gli occhi di fronte a pene che prevedono la privazione della libertà per la vita. Ergastoli e pene accumulate superiori ad un secolo, condannano a vivere tra le sbarre persone la cui dignità si perde totalmente. Il risultato è una vita infraumana in prigioni dove non esistono le condizioni reali perché il reo possa espiare senza pericolo di morte la sua condanna.

È curioso che addirittura il Trattato Internazionale contro la Tortura, tanto utile per giudicare tiranni, firmato da numerosi paesi, non preveda di considerare tortura il deterioramento psichico e fisico derivato dall'espiazione di pene decretate da sentenze giudiziarie legali.

In altre parole, le situazioni degradanti che prevede la legge in carceri che non hanno infrastrutture minime, con ammassamento di rei e scarsa salubrità, non sono considerate torture. Pidocchi, scarafaggi, piattole, infermità veneree e scarsa attenzione medica sono alcune caratteristiche comuni alle carceri del mondo che ci circonda. Rivolte, omicidi, violazioni o morti nelle carceri avvengono tutti i giorni in paesi come Spagna, Stati Uniti, Gran Bretagna, Costa Rica, Cile, Perù, Uruguay, Nicaragua o Honduras.

Coloro che hanno commesso reati e si vedono costretti dal sistema giudiziario ad espiare condanne in carcere vedono morire la loro anima ed il loro corpo giorno dopo giorno senza esser stati condannati a morte. Riuscire a vivere in spazi ridotti per anni non menomerebbe la condizione umana? Se questo non è una morte lenta, almeno dovrebbe farci pensare.

Chiedere l'eliminazione della pena di morte comincia anche con chiedere una riforma del sistema penale nei nostri paesi, e questo non è considerato molto urgente.

La critica si trasforma nel caso di Cuba in un atto ideologico.

Criticare la pena di morte contiene molto di più che la richiesta di impedire delle esecuzioni.

È questo il problema.

Non si tratta, quindi, di processare il regime politico di Cuba, ma di domandarsi fino a che punto nelle carceri del mondo si applichino ogni giorno pene di morte silenziose che passano inosservate, visto che le mediazioni culturali impediscono vedere l'esistenza di queste morti.

In nessun caso ciò giustifica la pena di morte; però la vincola alla sua origine: la dignità della modalità di vita di coloro che stanno sottostando a condanne di privazione della libertà. Di coloro che dovrebbero vivere 30 o 40 anni senza le condizioni minime per garantire una vita degna.

Essere detenuto non prevede di perdere la dignità. Purtroppo però questa è la situazione che vivono i detenuti nelle nostre prigioni.

Qual è la situazione dei detenuti nelle carceri di Cuba? Questa è domanda che dovremmo porci.

Dibattere sulla pena di morte presuppone di incorporare questi elementi e non la critica al regime politico in questione.

Separato il dibattito sulla pena di morte dalla critica globale all'ordine politico in Cuba, il problema presentato dalle esecuzioni si ubica in coordinate la cui logica è immersa nelle politiche di isolamento che su Cuba si stanno imponendo dagli anni 60 del secolo XX.

Guerra fredda o guerra preventiva, è lo stesso, Cuba non può esistere come Stato sovrano.

La pena di morte contro il suo progetto è stato decretata e deve eseguirsi sia come sia.

Qual è il motivo? Senz'altro, Cuba rappresenta, lo vogliamo o no, nel contesto latinoamericano, un processo che nella sua lotta per la sua indipendenza e per l'ordine sociale e economico è l'unico che sia stato capace di dare soluzione ai problemi di base di una cittadinanza piena. Lavoro, salute, educazione, casa, cultura e quindi dignità.

È vero che l'hanno fatto a spese di un restringimento delle libertà individuali quali conosciamo nelle nostre società consumistiche.

Si tratta di una scelta, la cui decisione è in funzione di dove ci situiamo.

Lottare per la libertà di espressione in una società con il 60 per cento di analfabetismo o una mortalità infantile del 30 per cento o più mi pare per lo meno cinismo da parte di coloro che non hanno mai sofferto privazioni.

Però questo ci porta ad un altro problema. Cuba è stata più o meno democratica, più o meno dittatura, più o meno socialista, più o meno tirannia, secondo il dibattito ideologico politico in Occidente.

Sono le nostre proprie piccolezze, i nostri dubbi ed i nostri fantasmi quelli che determinano la nostra opinione congiunturale.

Detrattori e accoliti ce n'è in abbondanza.

Però deve essere il popolo cubano quello che decide, non un blocco di opinioni ingiustificato.

Domande come: dopo Fidel, che? o verso dove va Cuba?, sono pertinenti. Aprono il dibattito sopra la profondità e la portata dei cambiamenti sociali che hanno rimodellato l'essere e la coscienza del popolo cubano.

Non possiamo dimenticare che la rivoluzione cubana è qualcosa di più che un insieme di eroi, martiri o leader: è una scelta di vita, che di sicuro non sta nelle mani degli Stati Uniti né del loro seguito di alleati.

Quindi, concludo come l'editoriale de La Jornada: Così no!


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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