La Jornada 15/3/3

Michael T. Klare*

La guerra dopo l'Iraq

I preparativi militari statunitensi, che in questi giorni si stanno completando nella zona del Golfo Persico, ricordano molto quelli che hanno preceduto la guerra del Golfo. Di fatto, molte delle stesse unità d'aria, terra e mare che hanno partecipato all'Operazione Tormenta del Deserto sono di nuovo state dislocate nella regione o stanno muovendosi verso lì.

Ci sarà però una grande differenza tra le due guerre.

Al termine della guerra del 1991 le truppe statunitensi si sono ritirate con rapidità; adesso rimarranno dove sono, probabilmente per molto tempo.

La ragione di questa differenza radica negli obiettivi contrastanti del primo presidente Bush e del secondo.

Nel 1991, Bush il vecchio cercava di espellere gli invasori iracheni del Kuwait e di eliminare la minaccia che rappresentavano per l'Arabia Saudita. Riuscite in questo proposito, le truppe sarebbero ritornate negli Stati Uniti, cosa che hanno fatto con gran diligenza.

Questo presidente Bush, in cambio, ha un programma più lungo ed esigente: sradicare il regime di Saddam Hussein con il partito Baaz; arrestare e portare sotto processo i leader iracheni per crimini di guerra; spogliare l'Iraq di tutti gli arsenali di armi che possieda; ricostruire il governo e l'esercito del paese conforme a lineamenti statunitensi; ricostruire la sua industria petrolifera con l'aiuto statunitense; controllare il paese con un governo multietnico e disseminare le benedizioni della democrazia per tutto il Medio Oriente.

Tutto questo e molto di più è inglobato nell'obiettivo di "cambiamento di regime" che Washington ha fissato già da molto tempo.

Senz'altro alcuni iracheni accetteranno volentieri questo sforzo di smantellare il loro paese e ricostruirlo conforme ai piani tracciati da Washington.

C'è da aspettarsi, però, che altri resisteranno.

I kurdi lotteranno contro qualsiasi piano che conceda ai turchi una presenza nel paese o sottometta le città del nord di Kirkuk e Mosul ad un regime che non sia kurdo.

Gli sciiti si opporranno a qualsiasi governo capeggiato dai sunniti (e viceversa).

In ultimo, i funzionari dell'antico regime si rifiuteranno d'essere rimpiazzati da esiliati rimpatriati dagli Stati Uniti.

La lista dei potenziali dissidenti è lunga.

Per contenere questo disordine interno, le autorità castrensi statunitensi prevedono una presenza militare di lungo periodo in Iraq.

Domandando a febbraio quanti effettivi si richiederanno per questo proposito, il capo di stato maggiore dell'Esercito, generale Eric K. Shinseki, rispose in modo inequivocabile: "Penso, partendo da quelli che abbiamo mobilitato fino ad ora, che sarebbero nell'ordine di varie centinaia di migliaia di soldati". La stima del generale Shinseki è stata contestata da alti funzionari civili della Segreteria della Difesa, secondo i quali il compito potrebbe essere svolto da meno soldati. In cambio la cifra coincide con le stime di altri specialisti in materia. Per esempio, esperti del Centro per Assegnamenti Strategici e di Preventivo, organizzazione pubblica di Washington specializzata in politiche, calcola che ci sarà bisogno in Iraq di almeno 150 mila soldati statunitensi fino a che non si stabilisca un certo grado d'ordine, compito che porterà vari mesi o probabilmente anni (e significherà un costo di centinaia di migliaia di milioni di dollari).

Ci sarà necessità di soldati statunitensi non solo per mantenere l'ordine, ma anche per affrontare l'inevitabile reazione musulmana.

Una volta che le truppe assumano in Baghdad il ruolo di forze d'occupazione, sorgerà l'ira in tutto il mondo mussulmano, nel quale il vecchio risentimento per il colonialismo e il crescente antiyanquismo costituiscono una miscela esplosiva. In Egitto, Giordania, Palestina, Indonesia ed un'altra mezza dozzina di paesi ancora ci saranno inevitabili manifestazioni di massa contro l'occupazione statunitense e ci saranno disordini ed atti di violenza contro ambasciate, consolati, imprese ecc.

In alcuni casi questi disordini saranno tanto persistenti e violenti che minacceranno la sopravvivenza di governi pro statunitensi chiave, come quello del generale Pervez Musharraf in Pakistan e quello della famiglia reale dell'Arabia Saudita.

Per tali circostanze non è improbabile che gli Stati Uniti inviino truppe in quei paesi, sia per proteggere i campi petroliferi (in Arabia Saudita e negli altri regni del Golfo) sia per evitare che regimi antiyanqui depongano un governo amico.

Quindi resta il compito incompleto di distruggere l'asse del male e di castigare altri stati vandalici che hanno sfidato gli Stati Uniti nel passato.

Una rapida occhiata alla carta geografica mostra vari candidati potenziali per una azione militare statunitense nella regione, noti i casi dell'Iran e della Siria.

Potremmo forse contare col fatto che il presidente Bush non si sentirà tentato dalla potente posizione statunitense in Iraq per esercitare un'intensa pressione militare su quei paesi? Sebbene Bush non ha mai espresso apertamente tale intenzione, ha però fatto insinuazioni al rispetto. "Distrutta questa minaccia", ha detto il 20 febbraio, "mostreremo agli altri dittatori che il cammino dell'aggressione li porterà alla rovina".

Nessuno sa dove ci porterà questa strategia, però è improbabile che ci sia una rapida ritirata delle forze statunitensi nel Golfo.

Possiamo invece prevedere una prolungata presenza militare nella zona. Valutando i meriti di un attacco all'Iraq, pertanto, è necessario parlare non solo di questa guerra, ma anche della guerra che verrà dopo di questa: un'occupazione statunitense dell'Iraq a tempo indeterminato e la lotta per dominare la regione.

È questa guerra, e non l'imminente scontro con l'Iraq, che probabilmente risulterà più costosa e pericolosa sul lungo periodo.

* Michael T. Klare è professore di studi sulla pace e sulla sicurezza mondiale per il Collegio Hampshire ed autore di Guerre di risorse: il nuovo panorama di conflitto globale (Owl Books/Henry Holt & Co., 2002)

Traduzione per La Jornada: Jorge Anaya


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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