LA JORNADA 10/2/03

Denunciano un assedio: venerdì scorso c'è stato un pattugliamento con elicotteri militari

Moriremo nei Montes Azules, dicono gli indios a coloro che li vogliono mandar via

Non è delitto lottare contro la fame

HERMANN BELLINGHAUSEN - INVIATO

Municipio Autonomo Libertad de los Pueblos Maya, Chis., 9 febbraio - Indigeni di tre comunità dei Montes Azules sono d'accordo a resistere all'allontanamento anche se potrebbe costar loro la vita. "Uccideteci, ammazzateci!", gridavano donne e bambini nel dicembre scorso alla pattuglia della Segreteria di Marina che si era avvicinata a Nuevo San Rafael. I marine hanno dovuto ritornare alle loro barche e ritirarsi lungo il rio Lacantún.

"Due anni fa abbiamo iniziato a vivere. Dopo arrivano Profepa e Semarnat e uno di loro ci dice che dobbiamo andarcene. Io gli dico: 'Ammazzami qui, non me ne vado'. Mi dice: 'No ti voglio uccidere, ma devi andartene'. Però noi diciamo che no, qui moriremo", dice a La Jornada il rappresentante di Nuevo San Rafael, una delle comunità ubicate nei Montes Azules che il governo federale pretende sgomberare.

L'uomo si toglie il cappello per parlare. Lo circondano i rappresentanti di Paraíso e di 8 de Febrero, altre due comunità della zona, nelle vicinanze dell'Ixcán messicano (per differenziarlo dall'Ixcán guatemalteco, aldilà del Lacantún e della frontiera). Le autorità ambientali e giudiziarie corrono loro dietro da dicembre.

Dice che non è vero che hanno "invaso in mala fede", come afferma il governo. "È il bisogno della terra. Ciò che vogliamo è che si applichi legge di Emiliano Zapata", spiega.

"Siamo organizzati per morire tutti se è necessario, per difendere il diritto di ogni indigeno alla terra. È la selva, sappiamo che dobbiamo conservarla. Fare della agroecologia. Non ucciderla".

Hanno ricevuto dal governo pressioni e minacce di espulsione, pattugliamenti dell'Esercito e della Marina. Quando il 19 dicembre Profepa e la polizia hanno sgomberato gli indigeni ubicati in Arroyo San Pablo (Lucio Cabañas), si trovavano molto isolati. Oggi, non più tanto.

"In maggio è venuta della gente del governo sempre dicendo le stesse cose. Abbiamo detto loro: 'L'ultima parola è: ammazzateci qui'. E non ci hanno ammazzati", dice con durezza e candore.

"Quindi è cominciata ad arrivare ancora altra gente, senza identificarsi, e abbiamo dovuto mandarli via. Il 15 dicembre sono venuti quelli della Marina. È che vogliono iniziare la guerra?", si domanda l'uomo. "Stanno venendo elicotteri dell'Esercito, vogliono prendersi i nostri lavoratori, però non siamo polli che ci possano prendere senza problemi".

In un comunicato che è stato pubblicato il 30 dicembre, il subcomandante Marcos ha annunciato che l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) non permetterà l'espulsione dei villaggi dei Montes Azules: "Non ci saranno sgomberi pacifici". Due giorni dopo, durante la riuscita marcia indigena che ha occupato San Cristóbal de Las Casas la notte del primo gennaio, i comandanti zapatisti si sono pronunciati contro gli sgomberi.

Calvario

Secondo loro descrizioni, i velivoli che sorvolano intensamente non sono solo militari; a volte sono della Polizia Federale Preventiva a volte civili. La settimana passata a bordo ci viaggiavano il commissario governativo per la pace, Luis H. Alvarez, e l'ex segreteria zedillista del Medio Ambiente, Julia Carabias; entrambi "hanno coinciso" col loro percorso aereo sui Montes Azules sabato.

Il rappresentante di Nuevo San Rafael riferisce che appena il 7 di questo mese la comunità è stata di nuovo sorvolata da elicotteri militari. "Non abbiamo paura. Non è un reato lottare perché i nostri figli non abbiano fame. Se non ci vogliono vedere in questo luogo, che ci vengano ad uccidere. Vivi non ce ne andiamo. Bambini, donne, tutti".

Parlano così questi tzotziles perché hanno la loro storia: "Siamo di Calvario, Sabanilla. Quando ce ne siamo andati, lì non si poteva lavorare, per le minacce dei Chinchulines e di Paz y Justicia. Sospettavano che fossimo simpatizzanti dell'EZLN. Volevano farci fuori".

E così lasciando Calvario, vari anni fa hanno iniziato un nuovo calvario nel nord della selva, fino ad arrivare nell'estremo sud dei Montes Azules, sulla riva orientale del rio Lacantún. Qui sono arrivati il 3 febbraio del 2001. Adesso ci sono 14 famiglie. Nei diversi documenti ufficiali si chiama "Ignacio Allende" il nuovo villaggio. "Il cartografico del governo ha fatto uno sbaglio", dice l'indigeno. "Il nome autonomo è Nuevo San Rafael".

Sia come sia, sotto entrambi i nomi, questo villaggio è sulla lista più recente, e più "urgente", del tavolo agrario-ambientale del governo (l'istanza intersegretariale incaricata del "problema dei Montes Azules", attraverso cui si è programmato l'espulsione delle comunità).

La riunione con rappresentanti di Nuevo San Rafael, 8 de Febrero e Paraíso trascorre, in tzotzil e spagnolo, all'ombra, in un piccolo salone a meno di due chilometri dal rio Lacantún.

Per l'8 de Febrero, ha preso la parola un giovane indigeno. La sua comunità è pure in questa lista del governo. Il villaggio si trova al bordo del gran torrente che bagna e inazzurra il confine sud della Selva Lacandona. Perciò, le "visite" di effettivi dell'Armata lì sono state costanti: sei dall'inizio dell'anno. Di fronte al timore di essere attaccati, per lo meno in due occasioni le famiglie hanno dovuto fuggire a nascondersi nella selva.

"Stiamo qui per riuscire a sopravvivere. Da un anno abbiamo le nostre case. Non vogliamo abbandonare ciò che abbiamo. Quando vengono quelli di Semarnat ci dicono che non dobbiamo tagliare gli alberi più grandi. Ma noi lo sappiamo e non li taglieremo. Ci dicono pure che ci espelleranno presto". Però il giovane lascia in chiaro che non si lasceranno estirpare, come invece è stato il destino di migliaia di alberi e di innumerevoli indios in questi luoghi, non lontano da dove sono morti nel loro ultimo rifugio gli originali lacandoni, sterminati dai conquistatori alla fine del secolo XVII.

Questi tzotziles vengono da Chavajeval e da Belisario Domínguez (municipi di El Bosque e Chenalhó, rispettivamente, ne Los Altos). Per questo può dire: "Non vogliamo che i soldati ci attacchino un'altra volta. Abbiamo già sofferto tutto questo una volta". (Chavajeval è stata attaccata, oltre ad Union Progreso, il 10 giugno del 1998, quando il governatore Roberto Albores ha iniziato lo "smantellamento" del municipio autonomo San Juan de La Libertad, causando vari morti in entrambe le comunità).

Da parte loro, gli abitanti di Paraíso si dimostrano ancor più riservati. Parlano solo tzotzil. Fino a poco tempo fa vivevano nell'8 de Febrero. Adesso occupano il posto che fino ad alcuni anni fa occupava Sol Paraíso (Las Ruinas), i cui abitanti originari hanno accettato di essere riubicati dal governo di Albores nel terreno Nuevo Mundo, municipio La Indipendencia (in condizioni lamentabili, davvero, e completamente abbandonati, così alla fine quei "riubicati" hanno già lasciato il posto che ha dato loro il governo; però questa è un'altra storia).

A quelli di Paraíso pure sono arrivati a notificare, da parte di Semarnat, "che il governo non li vuole qui", dice uno di loro, con espressione tesa, vestendo una camicia che un giorno forse aveva un colore diverso dallo slavato grigio di ora. Tra gli indios poveri, questo uomo è ancor più povero.

"Abbiamo detto al governo che non abbiamo la minima intenzione di andarcene. Questa terra è l'unica cosa che abbiamo. Speriamo che ci vogliano comprendere. Se ci sgomberano, sarà solo perché ci ammazzano", afferma l'ossuto uomo attraverso un traduttore. Le sue parole ed il suo atteggiamento sfiduciato e teso rivelano che crede solo nella terra che ha sotto i piedi. E questa volta non la vuole perdere.


(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)



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